sabato 30 maggio 2009

Cari maestri

Un maestro ce l'hanno tutti, alle elementari. La mia era una stronza fascista dai metodi di due generazioni precedenti: castighi, compiti di punizione e sberle. Quelle sì umilianti e violente, spesso gratuite, altro che gli innocenti e rari scappellotti scappati ai miei genitori.
(Per chi se lo chiedesse: i miei genitori sapevano, come tutti, ma nel 1982 il rispetto per la maestra prevaleva ancora rispetto alle considerazioni psicologiche e pedagogiche di oggi. Per dire che i nostri genitori non erano cretini: si faceva così e punto)
Crescendo, ho imparato a diffidare di coloro che ci tengono a fregiarsi del titolo di maestri, al punto di pensare che i maestri veri, quelli tipo Yoda o Shifu, non esistessero.
Invece, all'università, ho dovuto ricredermi. Ho conosciuto la mia relatrice, Prof. Luisa Giordano. Oltre ad avermi insegnato come condurre una ricerca, con il suo esempio e le sue parole mi ha aiutata in un momento difficile, in cui altre persone, che credevo amiche, si erano dileguate. Mi ha indicato la strada dell'autosufficienza come conditio sine qua non per trovare la vera felicità, senza dipendere dall'amore di un uomo o dalla presenza di una famiglia.
Se dovessi indicare la persona più importante per la mia formazione di donna (a parte i membri della mia famiglia), sceglierei lei senza esitazione, per quanto poco l'abbia potuta frequentare.

Più avanti, però, la vita mi ha regalato altri due maestri. Che non saranno stati così importanti per la mia formazione, ma mi hanno arricchita enormemente, sia dal punto di vista tecnico sia come essere umano.

La prima è la Pedretti. Mia coetanea, danzatrice immensa, è presente nella mia vita da ormai 3 anni. Mi ha aiutata tantissimo ad uscire dalle logiche di danza commerciale / artistica in cui la mia prima scuola mi aveva intrappolata. Mi ha ampiamente dimostrato che a certi livelli non esiste il commerciale, ma solo la bravura, e lei ne ha da vendere. E' una persona che si mette allo stesso livello delle proprie allieve e che sa che tutti hanno sempre qualcosa da imparare da chiunque. Ci tiene ad avere un rapporto al di là dello sculettamento settimanale, a chiacchierare, a cazzeggiare, a creare un clima di confidenza e leggerezza. E' spontanea e generosa, diretta come solo una milanese può essere, divertente. Studiare con lei è un faticoso privilegio a cui non rinuncerei per niente al mondo.
Per dire: se venisse domani un importante caseificio in un posto bellissimo a offrire un lavoro a Luca e quindi a tutti noi la possibilità di trasferirci, io porrei la condizione di andare a Milano una volta al mese a studiare con la Pedretti. Per dire.

Il secondo è Cajelli. Che, a parte l'inesistente somiglianza fisica, potrebbe essere la Pedretti al maschile. Stessa passione, stessa umanità e simpatia, stesso approccio diretto ma rispettoso, stessa disponibilità. Stesse parolacce, potrei aggiungere, in un linguaggio in cui il turpiloquio non è volgarità ma espressività. Stessa milanesità positiva fino al midollo. Stessa costanza nel perseguire un fine, che è quello di vivere sul proprio talento e sulla propria passione e trasmetterli al proprio pubblico e ai propri allievi.

Io non so se i miei figli incontreranno maestri così. Mi auguro di sì, perché è una grandissima fortuna e un arricchimento continuo.

venerdì 29 maggio 2009

Come se tirassi bastonate

La giornata di ieri, oltre ad avermi consacrata di diritto nell'Olimpo delle madri snaturate, ha fatto un gran bel regalo alla mia autostima.
Premessa: per il famoso seminario di sceneggiatura, abbiamo scritto un racconto di 3500 battute, a partire da una fotografia assegnata dall'insegnante.
Io avevo una foto che assolutamente non mi evocava niente: l'immagine di una coppia anziana, brutta ed estremamente sovrappeso, con l'aria più felice e affettuosa del mondo. In più, ho dovuto rubare il tempo per scrivere in pausa pranzo e tra una pratica e l'altra. Avevo tutti i diritti di essere arrabbiata con quei due vecchiacci ipocriti, che non mi suggerivano nessuna storia, e quindi ho scritto una storia apposta per punirli: li ho fatti litigare in modo violento alla terza o quarta riga. Ho dato ai miei personaggi la mia rabbia, e ho battuto ogni lettera come se tirassi una bastonata.
Risultato? Ieri mi è arrivato un giudizio eccellente: sui dialoghi, sulla sintesi, sulla capacità evocativa. Puro culo, lo so, ma fatemi gongolare 24 ore: tanto oggi presenterò un esercizio di sceneggiatura e non so se il giudizio sarà tanto positivo.

Ma la cosa mi è servita anche per riflettere sul mio stile. E sull'evoluzione che ha subito nel tempo.
Se non ricordo male, fino all'adolescenza ricordo di aver avuto uno stile piuttosto convenzionale. Asciutto più che ornato, ma niente di così ben meditato. Soprattutto, mi ricordo una sensazione di quando scrivevo qualcosa di lungo: che mi venisse bene (stilisticamente parlando) l'inizio, ma che poi in qualche maniera non riuscissi a mantenere lo standard stilistico con la stessa naturalezza. La mia sensazione era di partire bene ma poi scivolare nella banalità.
Se non ricordo male, la prima volta che sono riuscita a mantenere uno stile non banale per tutto un racconto è stato in occasione di quel ciclo di vampiri che scrissi tra il 1996 e il 2000.
Volevo dare ai miei personaggi una voce "cattiva", aspra, che esprimesse il divertimento della caccia pur mantenendo un barlume di umanità. E mi venne fuori questo stile secco, per la prima volta ben curato, fatto apposta per raccontare dolore e cattiveria.
Nei racconti successivi, ho lavorato per migliorarlo. Del resto, anche nel ciclo dell'immortale e nel racconto dell'inquisitore Olevano (so che a questo punto penserete che sia un imitatore di Eymerich, mentre invece è proprio tutta un'altra cosa, in un'altra epoca e con altre finalità) c'era una bella dose di cattiveria, non parliamo poi del ciclo degli Incompleti in cui non c'è un minimo di spiraglio per la speranza.
Come potrete immaginare, tutte queste produzioni si riferiscono al periodo in cui ero single e l'amore mi pareva una chimera, scomoda come tutte le chimere.
Scrivere in questo modo mi piaceva come a un gatto deve piacere cacciare e uccidere la sua preda: mi divertivo, mi sfogavo, mi sentivo potente e pericolosa.
Dopo aver conosciuto Luca, ho scritto ancora due racconti. Qualcuno di voi ha letto Viola, e potrebbe rintracciare lo stile di cui sto parlando nei dialoghi. Che sono la cosa che mi viene meglio, da sempre.

Scrivere questo raccontino, per quanto lo spunto non mi piacesse, è stato piacevole. Persino rilassante, nonostante la fretta. Sicuramente terapeutico.
E, pur essendo una cosa piccolissima e insignificante, mi ha confermato che, senza scrittura, la mia vita non è completa.

mercoledì 27 maggio 2009

Aspirational, reprise

Riporto quasi fedelmente la conversazione avuta ieri sera con il mio insegnante di sceneggiatura, nella pausa sigaretta.
Parlavamo del ruolo delle donne nel mondo del fumetto: il fatto che le protagoniste sono poche, ecc. Io gli ho anche brevissimamente accennato a Viola, proprio del tipo: ho deciso di fare questo corso per sviluppare un personaggio femminile in cui anche le donne come me possano identificarsi (ché poi non è esattamente così che nasce un personaggio, ma questo è tutto un altro discorso).
E poi siamo andati a parlare delle sorelle Giussani e della rivoluzione portata dal loro personaggio, Diabolik. In effetti, immaginiamoci il modello di donna pre-sessantotto, non solo a livello di letteratura popolare ma anche di opinione comune: il massimo a cui aspirare sarebbe stato al limite redimere Diabolik, farne Angelik e cucinargli la cotoletta alla milanese per quando tornava stanco dalle missioni.
Invece Eva Kant cosa fa? Non solo non gliene potrebbe fregare di meno di redimere Diabolik, ma diventa anche sua complice. Lei è l'unico essere umano con cui Diabolik, l'uomo apparentemente senza sentimenti né scrupoli, ha una relazione di stima e affetto, alla pari.
Mi è scappato detto: Questo è un aspirational, altro che la mamma con la messimpiega e i tacchi! Sicuramente Cajelli deve aver pensato: questa è pazza. E invece ha aggiunto che secondo lui Diabolik è un tipico parto della fantasia femminile, tanto che lui riesce ad entrare nella logica del personaggio solo ora che è molto ben codificato.
Pensateci: chi di noi, nei suoi sogni di adolescente (e vedi Twilight per le adolescenti di oggi) non ha mai sognato di essere l'unica privilegiata in grado di toccare il cuore di un uomo pericoloso ma senza domarlo veramente? Penso che per gli uomini il rapporto con la dark lady sia molto più semplificato: sognano di portarsela a letto, non di innamorarsene.
E poi, facendo un ragionamento più da trentenne: come possiamo non aspirare a identificarci con Eva Kant, che, oltre ad essere bella ed elegante, vive una vita interessante come compagna di un uomo bellissimo e affascinante, che la rispetta come sua pari?
Sapete che c'è? Io credo che i pubblicitari, che nell'80% dei casi si rivolgono a un pubblico femminile, ragionino da uomini (anche se son donne) e mettano lì sui nostri schermi gli aspirational degli uomini.
Funzionano? Magari mica tanto. Magari sembra che funzionino, solo perché spesso chiudiamo gli occhi davanti all'immagine di donna che ci veicolano perché il prodotto pubblicizzato è davvero valido o almeno lo riteniamo tale. Oppure perché spesso le donne che guardano la TV usano le pause pubblicitarie per riempire la lavatrice, andare a fare la pipì, girare il sugo, eccetera.
Chissà cosa succederebbe, se Eva (Kant) aiutasse Lilith a rinascere...

lunedì 25 maggio 2009

Una brava mamma

Qualche tempo fa, sono andata alla festa di compleanno del figlio più grande di una mia allieva di danza. Ovviamente non ero sola: c'era tutta la famiglia, con tanto di tamburi e cimbali.
Ad un certo punto è scoppiato un temporale e siamo scappati dentro casa. Non so se sia stato l'ambiente più raccolto o un semplice cambio di argomento, ma siamo finiti a parlare della pedagogia steineriana, delle attività più adatte ai nostri bambini, di come gestiamo le loro e nostre crisi, eccetera.

La mia allieva confessa di essere stata destabilizzata dall'arrivo del secondo figlio: è più nervosa, "cede" di più a tentazioni tipo TV e giocattoli, le sembra di non essere più in sintonia né col grande né col piccolo. Dice che invece, prima, col più grande, si sentiva una brava mamma e una delle presenti, in modo del tutto innocente, rincara: sì, con C. eri proprio la mamma perfetta.

A me, lì per lì, mi sarebbe venuto da dirle: ma come ti permetti? Al limite lo sembrava, ma non lo era. Per il semplice fatto che non solo la perfezione non esiste, ma, nell'essere mamme, non esiste una graduatoria di merito.

Penso per esempio al caso di momatwork, che stimo tantissimo e che ho visto all'opera di persona. Per sua stessa ammissione, in questo periodo il suo interesse principale è proprio la pedagogia: non legge libri, fa carte e oggetti, ecc. per essere una brava mamma, lo fa perché questo la appassiona. All'arrivo dei suoi figli, ha scoperto che esplorare questo aspetto dell'essere mamma le interessava ed ha approfondito. Sempre per sua stessa ammissione, ha avuto una prima figlia molto portata per il metodo Montessori, da lei scelto (forse anche in linea con le inclinazioni della Minica), e questo in parte deve averla facilitata su questa strada. Oltre al fatto di avere un certo tipo di carattere e anche un certo stile di vita, che le permettono (a volte non so come) di rispettare i tempi dei suoi figli laddove invece io sarei un mucchietto di cenere perché la fretta mi avrebbe bruciata.

A differenza di momatwork e di altre blogger interessate agli stessi temi (penso a Claudia e a mammalisa, per esempio), io mi sono interessata alla pedagogia come ci si interesserebbe alla veterinaria nel momento in cui si prendono degli animali: conosco i principi dei due metodi montessoriano e steineriano, ho nozioni di comunicazione verso l'infanzia (ricordi di un glorioso seminario al master, tenuto da Marina D'Amato), ho letto sia Gonzalez sia Estivill, ho confrontato la mia maternità con quella degli animali intorno a me. Insomma, mi sono detta: adesso che ho la bicicletta, imparo come usarla e manutenerla. Ma non ne è nata una passione.

Le mie passioni sono altre, e sono essenzialmente due: la narrativa e la danza. Sono passioni che richiedono tempo e dedizione, che devono essere sottratti alla mia famiglia. In queste condizioni, non avrebbe davvero senso che mi mettessi a fabbricare Montessori cards o aste numeriche nel tempo libero. Vedo anzi maggiore senso nel coinvolgere i miei figli nelle mie passioni.

Per la danza, è davvero facile: Amelia ama danzare e lo fa veramente bene, Ettore è nella fase in cui canta cercando di seguire una melodia. Stasera penso che si divertiranno alla festa araba a cui li porteremo, e non saremo cattivi genitori che si portano dietro i figli dappertutto perché non sanno dove metterli.

Per la narrativa, credo che ci vorrà tempo. E' vero che leggiamo insieme delle storie (con Amelia, perché Ettore al massimo le mastica), ma si tratta di un'attività talmente elementare da non darmi alcun piacere. E' vero anche che i DVD che guardiamo piacciono anche a me, ma non al punto di deliziarmi se riguardo Kung Fu Panda per la ventesima o trentesima volta in 5 mesi. Soprattutto, mentre mia figlia capisce i processi creativi alla base della danza e vi partecipa, non posso certo pretendere che partecipi alla stesura di Viola. Né tantomento potrei portarla con me al seminario della settimana prossima, che sottrarrà alla mia famiglia circa 20 ore del mio tempo, ovvero non li vedrò per 5 sere consecutive.

Sarò una cattiva madre per questo? Non credo proprio, così come non erano cattive madri (né cattivi padri) le persone che hanno dedicato una giornata al MaMCamp per condividere i propri interessi e obiettivi.

E, tornando alla mia allieva di danza, sarà diventata effettivamente una madre peggiore oppure avrà semplicemente preso coscienza dei propri limiti e, anziché accettarli, li avrà vissuti come un handicap? Probabilmente c'entra anche il fatto che, mentre il primo figlio era caratterialmente in sintonia con lei, il secondo figlio non lo è: magari anch'io, se Ettore fosse nato per primo, mi sarei trovata in difficoltà con Amelia, che pure all'epoca mi pareva un angelo.

Certo è che, se la natura ci avesse volute perfette, non ci avrebbe regalato ovulazioni tanto frequenti: per essere "perfette" come intendeva la mia allieva, ci vuole tempo (lei era casalinga con figlio unico), e invece noi siamo state geneticamente programmate per gestire più figli contemporaneamente, e lavorare, e gestire i rapporti sociali, e vigilare sulla sicurezza della famiglia. Eppure, nonostante infinite generazioni di donne siano state costrette all'imperfezione (o proprio per questo?), eccoci qui: persone intelligenti, in grado di costruire qualcosa, capaci di guardarsi dentro e migliorare.

Penso che ci sia già molto di cui essere soddisfatte.

domenica 24 maggio 2009

La cucina e il parco

Come dicevo di là, ieri sono stata al MaM Camp. Non fatemi ripetere l'elenco delle persone che ho visto e conosciuto, perché non ce la posso fare.
Posso dire solo che è stato bello, ma come complemento dei legami che già si erano formati in rete. Nel senso: ragazze (e ragazzi), incontrarci è bellissimo, ma, se non ci fosse la rete a creare già delle conoscenze tra di noi, non sarebbe né più né meno che incontrarsi con le mamme del parco.
Invece io ho potuto leggere in rete quello che pensate di determinati argomenti, quali sono i vostri valori, quali sono i vostri crucci. Sarebbe sciocco dire che "so tutto di voi", come giustamente mi faceva notare Lorenza, ma il fatto di sapere già che cosa volete far sapere di voi mi permette di andare oltre le chiacchiere sul tempo e di poter avere quella confidenza che nella sola vita reale si conquista in mesi o anni di frequentazione assidua.
Da parco si diventa cucina, e ci si ritrova a parlare con passione di lavoro, di politica e di come stiamo, come ci sentiamo in questa pelle e quali sono i nostri progetti.
Vi faccio un esempio: Viola. Mai e poi mai, prima, avrei pensato di parlare di un mio progetto così intimo con persone che non fossero amici fidatissimi e mio marito. Neanche con loro, forse, per paura di annoiarli, del tipo "ecco l'ennesima follia dell'aspirante scrittrice fallita".
E invece oggi, grazie alla condivisione con altre persone che coltivano i miei stessi sogni e grazie al fatto che riesco a considerare Viola un prodotto, né più né meno che un nuovo sugo per la pastasciutta dell'anima, sono pronta a lottare per realizzarne qualcosa, per trovare qualcuno che creda in questo progetto e mi aiuti a realizzarlo. Non perché sia tornata all'arroganza dell'adolescenza, anzi: ne ho ritrovato l'entusiasmo ma con la consapevolezza della maturità.
Senza più l'insicurezza dei 20 anni ma con la disponibilità ad accettare qualsiasi critica, purché utile a migliorare il mio prodotto.
Proprio come quando sei in cucina, e provi ad aggiungere questo, togli quell'altro perché proprio secondo tuo marito non ci sta, regoli un po' di spezie e alla fine ti trovi in mano qualcosa che non piace solo a te, ma anche e soprattutto alle persone che lo mangeranno. Non significa stendersi a zerbino nei confronti del mercato, ma stimare il proprio pubblico e lavorare insieme per offrire un prodotto che piaccia ai lettori e che contemporaneamente ti renda fiera di averlo scritto. Il che, credo, capita più spesso di quanto l'ottusità di certi media "vecchi" possa credere.

venerdì 22 maggio 2009

Mi fletto ma non mi spezzo

Sono laureata in Lettere Moderne, indirizzo storico-artistico. Mi sono laureata a 23 anni, con 110 e lode.
Non è per tirarmela: è solo per dire che, fino ai 23 anni, la mia formazione è stata dritta come un fuso, per arrivare alla meta presto e bene.
Poi non so se sia successo qualcosa a me o semplicemente al mercato del lavoro, ma ho cominciato a deviare dall'autostrada su cui ero e prendere le classiche strade dell'orto.
Invece di farmi un dottorato e appollaiarmi in attesa di un posto da ricercatore, come auspicava mia madre, ho preferito perseguire una mia indipendenza economica.
Così ho passato un anno al Master in Scienza e Tecnologia dei Media, dove ho conosciuto persone eccezionali e ho imparato cose che fino a poco prima mi sarebbero sembrate impossibili: HTML, Javascript, programmi di grafica (tipo Photoshop) e di editing (tipo Premiere), ecc.
Dopo un inutile stage in Elsag (inutile perché la persona che avrebbe dovuto formarmi se n'era andata e io sono rimasta parcheggiata lì 3 mesi), la prima società che mi ha dato fiducia è stata Ariadne.
Per un anno, ho lavorato come writer per vari clienti, di cui il Casinò di Sanremo (ma il sito attuale non è più quello che progettai io) è quello che mi è rimasto più nel cuore. Per un anno, dopo aver creato i contenuti del nuovo sito, l'ho aggiornato ogni settimana, ho formato il personale all'uso della posta elettronica per dialogare con gli utenti, ho fotografato le sale e intervistato il personale, ho imparato che cosa fa un roulettier e che un sabot non è solo un tipo di scarpa.
Dopo Ariadne, sono passata a lavorare con mio padre, proprietario di una software house che produceva applicativi gestionali. Io e un mio ex collega di Ariadne avremmo dovuto fondare la divisione web, occupandoci io della comunicazione/contenuti e lui della grafica. Purtroppo non abbiamo fatto in tempo a decollare: per varie vicissitudini, la società è stata liquidata prima che riuscissimo a farci dei clienti esterni, un anno e pochi mesi dopo che ci eravamo entrati.
Non riesco ancora ad essere obiettiva su quel periodo. Però sono contenta di aver acquisito tante competenze tecniche, dovute in parte alla disorganizzazione di una società che era voluta crescere troppo in fretta: ho imparato a gestire un web server (purtroppo con sistema operativo Microsoft, ma questo passava il convento), ho imparato a lavorare con le jsp e anzi sono diventata una bravissima cacciatrice di errori nel codice, ho potuto giocare con PHP e MySql, ho persino appreso qualche nozione di Java.
Nei colloqui fatti dopo il fallimento di mio padre, esattamente 6 anni fa, molti elogiavano la mia flessibilità con aria stupita: ma come? Da lettere al PHP? E poi infatti nessuno mi prese in considerazione per un ruolo tecnico: c'era sempre il dubbio che una laureata in lettere, per giunta donna, ne sapesse di meno (invece su un uomo diplomato in chimica non si sarebbero fatti nessun problema). Di buono c'è che nessuno mi fece domande sulla mia vita privata.
Intanto, sia io sia il mio collega eravamo stati ereditati da una casa editrice multimediale, che ci usò come jolly per circa un anno. Poi lui prese il volo per altri lidi, mentre io restai, per mancanza di prospettive.
Dopo aver messo su il sito di un asilo nido, aver ideato il sito di una nuova società compartecipata dall'Università di Pavia, aver fatto mesi di testing sull'ECDL online e aver studiato la comunicazione per un folle software dedicato alla produzione di liberatorie sulla privacy, sono approdata all'ufficio bandi: mi occupavo di cercare finanziamenti europei per progetti e-learning.
Nei primi 6 mesi, il nostro capo era molto intrigato dall'idea: grandi progetti, idee innovative, riunioni ogni settimana... Proprio in quel periodo Ariadne mi cercò ed io, sia pure con rammarico, rifiutai perché in quel nuovo campo avevo ancora tanto da imparare e non volevo perderne l'occasione. Mi era anche stato promesso che, in caso avessimo ottenuto un finanziamento per i molti progetti presentati, io ne sarei stata il project manager.
Il finanziamento arrivò, ma la gestione del progetto fu affidata a una ragazza di 23 anni, carina e senza figli. Nonostante io avessi dato la piena disponibilità a tornare subito dalla maternità nel caso in cui si fosse mosso qualcosa (erano 6 mesi che aspettavamo di partire, perché la Commissione Europea aveva ripetutamente chiesto di essere rassicurata sul nostro bilancio).
Quando tornai dalla maternità, l'interesse del capo nei confronti dei bandi si era affievolito: rendevano troppo poco, secondo lui, nonostante avessimo avuto un altro finanziamento e quindi due progetti approvati in soli due anni di attività. Ebbi sempre meno da fare, finché la mia collega andò in maternità e mi lasciò in eredità un lavoro di tutoring su un ECDL online, per la Regione Emilia-Romagna.
Siccome era chiarissimo che la società per cui lavoravamo non veniva più sostenuta e stava andando a morire per mancanza di attività commerciale, decisi di provare due concorsi in università. A novembre, quando ormai il mio contratto con Multimedia Campus stava per scadere, l'ufficio personale dell'Università di Pavia mi comunicò che ero stata presa: sarei andata ad occuparmi di amministrazione, in una segreteria di dipartimento.
Ed eccomi qui a fare e pagare fatture, a muovermi a tentoni in un mondo per cui non sono preparata e che solo da pochissimo riesco a capire in parte. Questo non è il mio lavoro, né mi ci sento portata come invece è successo per altre cose che non avrei mai immaginato.
Ma imparo, e anche questo mi potrà essere utile.
In questi ultimi 6 anni, ho anche coltivato professioni non proprio convenzionali: ho fatto la cartomante in una compagnia di strada, ho fatto l'agente per una band, ho insegnato danza, ho suonato in un gruppo stumentale arabo. E ora mi appresto all'ennesima avventura, che non necessariamente mi porterà a uno sbocco professionale ma sicuramente arricchirà le mie competenze "artistiche".
Tutto questo per dire che, probabilmente, nella mia prossima vita sarò direttamente un salice o un albero della gomma.

mercoledì 20 maggio 2009

Sano egoismo - il prequel

Il peggior difetto di cui mia madre mi ha sempre tacciato è l'egoismo.
Ora, questo non sarà un post piagnone in cui mi lamento di quanto mia madre abbia minato la mia autostima. Anche perché a mia madre, pur avendo un atteggiamento molto diverso dal suo, devo alcune delle parti migliori della mia anima. Che lei poi non mi abbia mai esplicitamente apprezzata è un altro discorso: educazione, clima culturale, carattere, ecc.
Qui vorrei solo analizzare quanto l'esasperata valorizzazione dell'altruismo possa fare danni, soprattutto nelle donne.
Anche mia nonna era egoista. Non so se alla mia maniera o in senso estremo. Di certo era una donna con un vissuto molto diverso dal mio: nata in una famiglia di contadini da padre padrone (non un orco ma nemmeno il padre severo ma amorevole), ha perso la mamma da ragazzina (per un'infezione a un dente), ha perso il primo marito poco dopo il matrimonio, ha allevato da sola una bambina per 7 anni. Il tutto lavorando come un mulo, finché non ha trovato mio nonno e ha potuto cominciare a costruire qualcosa.
L'egoismo di mia nonna si espletava sia nel pretendere che sempre tutto le fosse dovuto (perché lei era la madre di famiglia) sia nel pensare più ai propri sentimenti che al bene degli altri. Per esempio: non ha mai voluto che mio nonno prendesse la patente perché aveva troppa paura che facesse un incidente (senza pensare ai vantaggi che gli avrebbe dato poter guidare un furgoncino). Oppure: se mia madre chiedeva di fare qualcosa, gliela negava più per non stare in ansia lei stessa che perché effettivamente lo ritenesse non giusto per la sua età, formazione o salute.
Insomma, non so se per reazione a mia nonna o se per sua naturale inclinazione, mia madre è il contrario di tutto ciò. Ché da un lato la devo ringraziare mille volte: se avesse dato retta alle sue ansie e non avesse pensato al mio bene, non avrei mai fatto vacanze-studio, non sarei mai uscita con le amiche men che mai per andare in discoteca, non avrei preso la patente prima dei 25 anni, non sarei andata a Genova a fare lo stage in Elsag, non avrei frequentato un ragazzo prima dei 30 anni, non sarei mai andata a vivere da sola. Sarei cresciuta piena di paure e diffidenze, come lei del resto: che brutta vita.
Dall'altro lato, se penso a tutto quello che ha fatto "per altruismo", mi sento invasa un po' da rabbia e un po' da tristezza. Per accudire mio nonno (suo suocero), colpito da ictus a 80 anni, una donna di 33 anni ha rinunciato a una carriera che le piaceva molto (organizzava congressi per il suo laboratorio e seguiva la parte di ricerca) e ha sacrificato la propria vita famigliare per quasi 4 anni, trascurando sua figlia di 12 anni, che dormiva nella stessa stanza dei suoi genitori, nella camera accanto a quella di un anziano malato. Io credo che prima di tutto non avrei la forza di fare una cosa simile, ma oltre a questo mi chiederei se è giusto sacrificare la mia vita nel fiore dell'età per un uomo che la sua vita l'ha vissuta e oltretutto è angosciato all'idea di essere un peso. Mi chiederei se una persona anziana, pur malata, merita più attenzione di una figlia preadolescente.
A parte questo episodio eclatante, tutta la vita di mia madre è stata segnata da questo continuo sacrificio: sempre a disposizione dei miei nonni anche quando erano autosufficienti, sempre pronta ad aiutare anche me con i bambini (anche se mia madre lavora ancora full time e l'ha quasi sempre fatto), spesso a sottolineare i sacrifici che ha fatto per essere mamma e lavorare e tenere una casa decente. Il che non significa che sia una donna senza personalità, anzi: è un tipino nervosetto e incazzoso. E il fatto di sentirsi "buona" probabilmente la autorizza a non riconoscersi nessun difetto e a non mettersi in discussione, almeno non con me.
Anch'io, per la terza generazione, non so se il mio egoismo sia una reazione a mia madre o un'eredità di mia nonna o un puro e semplice istinto di conservazione. So che ritengo di avere una sola vita, di non sapere quanto durerà e di non credere in un'entità superiore. Ovvio che non penso che il mondo debba girare intorno a me né che fare qualcosa per gli altri sia sempre spiacevole, altrimenti non avrei fatto due figli. E, per assurdo (o forse no?), ho molte più amicizie di mia madre e mi fa decisamente piacere dare una mano, se posso. Forse mi fa piacere proprio perché non lo sento come un obbligo.
Spesso, osservando che Amelia sembra somigliare tanto a mia mamma, mi chiedo che tipo di rapporto avrà lei con il valore dell'altruismo. Per il momento, lei è quella che tende a dire "tutto mio", mentre Ettore tende ad offrire gli oggetti, se capisce che possono essere un tramite per costruire una relazione. Però potrebbe anche essere che, crescendo, lei vorrà ripudiare l'egoismo dell'infanzia come un simbolo di puerilità e lui invece continuerà a coltivare una sorta di "altruismo con ricevuta di ritorno". Spero solo che nessuno dei due, in nome di un ideale, viva una vita diversa da quella che sogna.

martedì 19 maggio 2009

Sano egoismo

Premetto che per me, in questo periodo, parlare di salute è un po' difficile: niente di mortale, OK, ma l'ultima volta che sono stata sana penso risalga all'estate scorsa. Idem per gli altri membri della mia famiglia: l'inverno ci ha devastati, nel fisico e pian piano anche nel morale.
Per quanto riguarda la salute mentale, invece, credo di essere stata sull'orlo di una leggera depressione. Che non ha niente a che fare col post partum, quanto col post congedum parentalem. Ma per ora posso tranquillamente archiviarla per qualche mese, perché fino a settembre sono a casa a godermi l'essere immondo (Ettore, who else?) e i lavori per la nuova cucina.
Nei mesi passati, però, ho (abbiamo) fatto l'errore di prendere troppi impegni, nell'erronea convinzione che le forze fossero infinite, anche se il tempo non lo è. Soprattutto, abbiamo perso di vista ciò che ci interessava davvero per fare ciò che era più alla portata.
Beh, poco male: il mio tracollo (fisico, tipo che una sera mi sono dovuta mettere a letto piena di dolori) ci ha portati a ripensare le nostre priorità, famiglia a parte.
Per quanto riguarda Luca, so che rinunciare alle arti marziali gli è dispiaciuto, ma è stato lui per primo ad ammettere che si trattava di un'attività accessoria.
Per quanto riguarda me, ho potuto guardarmi dentro e vedere che avevo messo da parte la scrittura perché in qualche misura la consideravo inutile. In effetti, lo è: non tonifica, non dà da mangiare, non porta nulla di concreto. Anzi, rischia di causare danni alla vista e alle spalle che tanto faticosamente ho rinforzato con la danza.
In più, essendo un'attività da fare in casa, è anche difficile riuscire a delimitarla: c'è sempre il rischio di "invasioni di campo" non solo da parte dei bambini, ma anche da parte dell'amica che ti telefona (graditissima, per carità) o della montagna di panni da lavare che cerca di muoverti a pietà.
E qui si torna su un annoso dilemma: fino a che punto è sano l'egoismo di una persona che dedica due ore della propria giornata alla scrittura (o a una propria passione qualsiasi) invece di fare qualcosa per rendere decente la casa? Beh, diciamo che pulito non lo è di sicuro ;-)
D'altro canto, mi piace il concetto di Montessori Hour e lo applico anche ad altri aspetti della mia vita, come dire: Viola Hour.
So che Viola è un personaggio immaginario e che i miei figli sono infinitamente più importanti. Ma nello stesso tempo mi rendo conto che, se non mi impunto per avere un po' di tempo da dedicarci, finirei come dice momatwork: darei la priorità a cose più urgenti ma meno importanti e non scriverei mai. Poteva andare bene per un blog, ma per un progetto di più ampio respiro no di certo.
Il che non significa che, quando Ettore e Amelia sono svegli e attivi, io li lasci a giocare da soli e mi chiuda in camera a scrivere. Significa però che, se non sono riuscita a scrivere durante il loro sonnellino, lascerò a Luca il compito di metterli a letto e lavorerò in quel momento lì. Più dura è nei giorni lavorativi, perché torno a casa alle 17.30-18 e quindi loro vorrebbero che stessi con loro il più possibile. In quei casi, dipende da che giorno è (per esempio, il mercoledì è d'obbligo che stia con loro, perché lunedì e martedì sono stata a danza) e dall'umore generale.
E' vero anche che il mio lavoro, ora che la segreteria è a regime, è fatto in modo tale che ci sono giorni interi in cui non si ha nulla da fare neanche a inventarselo (per esempio oggi), e quindi in quei giorni potrei fare un po' di revisione (peccato che mi sia dimenticata a casa le stampe).
In tutto questo, vedete anche voi che il tempo da dedicare alla casa non risulta. In parte, ci sono cose che potrebbero essere fatte con una maggiore meccanizzazione (es. nella nuova cucina ci sarà la lavastoviglie, gaudio e giubilo) o con l'acquisto di un elettrodomestico aggiuntivo (es. spesso il pavimento del primo piano è più sporco di quello del piano terra perché l'aspirapolvere è nel sottoscala; se comprassi una scopa elettrica da tenere di sopra, penso che la pulizia del bagno ne guadagnerebbe) o con lo spostamento dell'elettrodomestico attuale (es. ora la lavatrice è in fondo allo stanzino delle lettiere e caricarla è scomodo e complicato se c'è Ettore che vuole starmi sempre appresso; con la nuova cucina, guadagnerò anche un angolo lavanderia ben più agevole). In altra parte, bisognerebbe attuare delle routine però minimamente invasive, altrimenti siamo daccapo. In altra parte ancora, bisognerebbe riorganizzare l'ordine della casa e facilitare al massimo il processo per cui ogni cosa va al suo posto.
Insomma, ci sarebbe una gran mole di lavoro iniziale, che al momento non ho tempo né voglia di affrontare. Intanto la casa va un po' a rotoli. Ma intanto Viola diventa sempre più forte e più bella.

giovedì 14 maggio 2009

Audiolibri

Arrivo dalla pediatra: Amelia ha la tosse e infatti vincerà un giro di aerosol. Come sempre, spero che non ci siano mamme logorroiche in attesa, così, mentre Amelia gioca con qualche bambino, posso anche dare un'occhiata a Vanity Fair.
C'è questa signora filippina, 54 anni, che è lì col nipote per una sciocchezza. Altro che logorroica: mentre suo nipote gioca con Amelia, mi racconta la storia della sua vita. E io la ringrazio di questo.
Questa signora è nata nelle Filippine, da famiglia cattolica e credo benestante. Ha sposato il suo primo marito molto giovane (matrimonio combinato) e ha sfornato 5 figli in 8 anni. Già questo per me basterebbe a farne un'eroina.
Visto che col primo marito non andava d'accordo, ha chiesto il divorzio. E ha cominciato a lavorare all'estero: prima negli Emirati Arabi presso Q8 e poi al Cairo nell'ambasciata americana (faceva private assistance, non ho capito cosa intendesse esattamente).
In Egitto, conosce il marito, che è un dipendente Agip ed è italiano. Si innamorano e si sposano, e lui, pure lui divorziato, le porta in casa i due figli della prima moglie, adolescenti.
Da questo momento in poi, questa signora dedica la sua vita a portare in Italia o comunque in Europa i figli rimasti nelle Filippine. Non paga, trova il tempo di lavorare, perché, nonostante suo marito sia ormai un dirigente e quindi decisamente ben messo, non vuole farsi mantenere. Ha una figlia alla veneranda età di 41 anni, e anche per questo la stimo immensamente: dopo 5 figli a 20 anni e rotti, con un marito spesso in viaggio per lavoro, chi avrebbe voglia di rimettersi in gioco?
Non so a che punto dei 20 anni in Italia, viene anche violentata da un poliziotto italiano. Lui paga con il congedo (e credo qualcos'altro: non si tocca gratis la moglie di un italiano ricco, per quanto straniera e comunque ormai naturalizzata italiana), lei con due anni di depressione.
Ora a questa signora manca solo un piccolo tassello per essere pienamente felice: riuscire a portare in Italia l'ultimo membro della sua famiglia, ossia il nipotino di 3 anni, i cui genitori sono già qui, con casa e lavoro in regola. Mi dice che l'Italia ha dato il nullaosta e che ora è l'ambasciata filippina ad essere in ritardo: se loro dessero l'ultima autorizzazione, lei sarebbe pronta ad andarlo a prendere subito, perché sono già più di 6 mesi che questo bambino è senza genitori, per quanto affidato a persone di fiducia.
Ecco, mi rendo conto che da fuori potesse sembrare che la signora mi stesse "bagnando una zuppa" senza fine. Invece è stato come leggere uno di quei romanzoni di formazione dell'Ottocento.
Vorrei che al posto mio ci fosse stato uno di quei funzionari d'ambasciata che ritardano l'approvazione all'espatrio di un bimbo di 3 anni senza mamma né papà vicini.
La signora diceva di sperare che la Madonna toccasse il cuore di quella gente. E io, pur non credendo alla Madonna, mi sento di aggiungere: se il cuore non ve lo tocca qualche santo, spero che qualche indemoniato tocchi il vostro corpo, e vi lasci parecchi lividi.

mercoledì 13 maggio 2009

Viola: la genesi

In principio era Stefan. E Stefan era una specie di dio: bello e un po' tenebroso, innamorato, proveniente da un altro mondo rispetto a quello dei "normali". Ovvio che il mio alter ego dei 17 anni, guardacaso anche lei Chiara, se ne innamorasse cotta.
Diciamo che forse, se fossi stata americana e fossi nata un decennio più tardi, la storia di Stefan che scrissi allora sarebbe potuta diventare una specie di Twilight del mondo delle spie: l'amore tra uno "speciale" e una ragazza (poco più che adolescente, ma evidentemente concepita da un'adolescente) in cui chiunque avrebbe potuto identificarsi.
Fu il mio fidanzato dei 20-23 anni a rompere l'idillio: non poteva sopportare Stefan e mi diede qualche suggerimento per toglierlo di mezzo. Ne fui intrigata e seguii i suoi consigli: Stefan diede retta alla sua parte più oscura e malata, e morì. Fine della storia.
Pochi anni dopo, però, la storia tornò a suggestionarmi: provai a girarla in vari modi, per renderla più verosimile e meno sterotipata. Addirittura, arrivai a ribaltare i generi dei protagonisti: ed ecco nascere Viola, l'agente segreto che si innamora di un comune civile.
In un primo tempo, Viola doveva essere molto più 007 e la storia doveva avviarsi verso una fine non lieta: avevo immaginato che il "comune civile" in realtà si rivelasse un nemico e che Viola dovesse eliminarlo.
Poi i cambiamenti avvenuti nella mia vita hanno plasmato l'idea che avevo di Viola, fino al risultato attuale.
Per esempio: ho frequentato per un breve periodo un ragazzo più giovane di me, e il "comune civile" si è trasformato in un ragazzo molto giovane e inconsapevole, ideale vittima di una sparatoria in cui Viola si sarebbe trovata.
Da quando ho conosciuto Luca, il "comune civile" ha sempre di più assunto le sue caratteristiche e io ho sempre meno avuto il coraggio di fargli troppo male.
Nel frattempo, Viola mi pareva sempre meno credibile e interessante nel ruolo del classico agente operativo. Che però ci voleva, altrimenti come si sarebbe arrivati all'azione? Ed ecco resuscitare Stefan: non ho visto invano quasi tutte le puntate di Alias.
Stefan non era morto, ma aveva dovuto farlo credere perché l'aveva fatta troppo grossa. E' un operativo estremamente abile, ma è anche una persona con grossi traumi alle spalle e con l'enorme rimpianto di aver perso la donna che amava. Questo lo rende pericoloso, e lo porta a morire per la seconda volta nella sua vita e così si chiude il racconto del 2005.
Ero davvero convinta di averlo ucciso, ma mi mancava un personaggio su cui scaricare l'inverosimile e l'improbabile, nella serie a fumetti ideata negli ultimi mesi. E poi, i dialoghi tra Viola e Stefan erano i pezzi più riusciti del racconto: scarni, un po' surreali, molto giocati sul filo dell'ironia e della presa in giro. Insomma, mi ero divertita un sacco a far interagire Viola e Stefan, e mi chiedevo: perché la madre dell'agente Bristow può morire e risorgere 3-4 volte nel telefilm e Stefan no? Fanculo il verosimile!
Ed eccomi qui, dopo quasi 15 anni di entusiasmo, arroganza e incertezza, ad avere per le mani un prodotto in cui credo, un prodotto maturo di cui vedo i possibili difetti ma anche i molti pregi. E questo prodotto racchiude così tanto della mia vita.
In più, Viola come serie a fumetti si presta a ospitare anche altri personaggi e storie che ho abbozzato nel corso degli anni, per unificarli in un progetto comune: il poliziotto filosofo e curioso, i due Cesari, l'inquisitore Olevano, il rinnegato albino, il faccendiere Hraven e tanti altri. Oddio, elencati così, sembrano più un circo che un rispettabile parco personaggi. Ma possono contribuire alle storie di Viola e Viola, facendo loro da collante, li può valorizzare.
E ora bando alle ciance e partiamo: ché, dopo il corso di sceneggiatura, ci sarà tanto ma tanto da fare.

martedì 12 maggio 2009

Dalla parte dei bambini

Premetto che, come si può evincere dai miei blog, non sono la madre ideale né aspiro ad esserlo. Non godo incondizionatamente della vicinanza dei miei figli, non li vedo sempre sotto una luce positiva, non vado sempre a cercare le loro motivazioni recondite. Penso che una famiglia sotto sotto sia come tutti gli altri gruppi umani: un'aggregazione spontanea che si basa su equilibri di potere, per quanto ci si possa volere bene. Apprezzo le intenzioni pedagogiche della Montessori e di Steiner, ma penso che, quando un bambino cerca il conflitto, sia meglio affrontarlo (con una gradazione di "violenza" adeguata, ovviamente). Penso che la violenza non sia un male da sradicare come la peste, ma che sia come la flora batterica: vive in noi e, nelle giuste dosi, è indispensabile alla vita. Penso che a volte le mie gatte abbiano molto da insegnarmi, persino quella psicotica. Credo fermamente che la madre delle caverne fosse una buona madre anche se sgozzava galline davanti agli occhi dei suoi figli e insegnava loro a cavare le lumache dal guscio. Ma credo anche che, se la vita moderna ci fornisce qualche comodità tipo passeggino, non sia il caso di rinunciarci per traformarsi in marsupiali permanenti.
In definitiva, non sono una mamma tutta amore e sensibilità.

Però c'è una parte di me che si imbufalisce quando sente usare la parola "vizio" e "capriccio" applicata ai bambini. Soprattutto se applicata a bambini al di sotto dei 3 anni. Soprattutto se associata a "buoni consigli" del tutto avulsi dal contesto del bambino giudicato.
Esempio: mamma su blog collettivo di mamme ha un problema di sonno con la sua bambina di neanche un anno, che ha appena cominciato l'asilo ed è stata definitivamente svezzata dal seno. Dice che la bambina si sveglia spesso e che lei deve alzarsi. Dice pure che, mentre alcuni disturbi (tipo pancia e naso) non vengono sedati dal lettone, tutti gli altri sì. Insorge subito una buona comare che le dice di aver visto bambini nel lettone fino a 12 anni, quindi non le venga in mente di cedere sul lettone, se son capricci prima o poi smetterà.
Ecco, questo per me significa non aver capito nulla dei nostri figli. Che sono bambini, ovvero piccoli animaletti a cui chiediamo cose enormi senza renderci conto della fatica che fanno per compiacerci ed essere bambini "autonomi". E che, se cercano di stare tra le nostre braccia, è perché sono felici di stare con noi, perché ci amano.
Quando i miei bambini erano appena nati, molti mi chiedevano se erano "bravi". Io rispondevo sì (in effetti erano e sono angeli), ma mi scocciava l'implicita affermazione per cui un bambino che piange per fame o per altri disturbi debba essere "cattivo": lui non fa altro che comunicarmi un suo bisogno nell'unico modo che la natura gli ha fornito.
Vado oltre: spesso (non so se per adulazione o convinzione), mi dicono che i miei figli sono così "bravi" (ancora!) perché noi siamo sereni. E allora mi viene da dire: siatelo anche voi, mica è una dotazione genetica. Lavorate su voi stessi, invece di accusare i vostri bambini. Godeteveli e coccolateli, invece di addestrarli.
Perché di addestramento si tratta, non di educazione. L'educazione ha a che fare con il rispetto di sé e degli altri e con la conoscenza, non con la capacità di fare qualcosa di cui non vediamo il fine. L'educazione ha a che fare con l'esempio, che vale più di mille parole. E chi scegliamo di prendere ad esempio? Le persone che amiamo e stimiamo di più, ovvero i nostri genitori.
Gli stessi genitori che hanno tante esigenze nei nostri confronti, spesso imperiose: mangia, dormi da solo, non svegliarti di notte, fa' la pipì nel vasino, mettiti in fretta le scarpe ché siamo in ritardo, smetti di giocare perché dobbiamo andare via, non divincolarti quando ti lego in macchina, non fare rumore, taci ché il papà mi sta dicendo una cosa importante...
Siccome non sono senza peccato, anch'io mi metto nel novero degli "esigenti". Però con la consapevolezza di chiedere tanto, e di sapere che ogni tanto metto in crisi i miei figli. Crisi che si risolvono spiegando e comprendendo, con tanta pazienza e soprattutto alla pari. Ma non c'è parità laddove si usano parole come "vizio" e "capriccio", che già implicano un giudizio negativo.
Ripeto: non faccio la santa. Ma proprio perché so di non esserlo è giusto che conceda un margine di errore anche a chi a che fare con me, anche se mi sono appena arrabbiata perché hai rovesciato il latte o tu ti sei impuntata perché non volevi fare la pipì appena alzata. Ora siamo entrambe arrabbiate, poi ci calmeremo. Io ti dirò che sei distratta invece di insultarti e tu mi spiegherai perché non vuoi fare la pipì appena alzata.
Non ci abbracceremo come in un film. Ma ci stimeremo reciprocamente, che, come diceva il puffo Quattrocchi, è meglio.

domenica 10 maggio 2009

Solo il vero è bello?

Quando si scrive, inevitabilmente ci si scontra col concetto di verosimile. Si può decidere di dargli diverse connotazioni, a seconda del genere che si decide di affrontare, ma non si può completamente aggirare.
Per esempio: se mi trovo in un romanzo fantasy, il mio lettore non troverà inverosimile che un drago appaia sul più bello e abbrustolisca un personaggio. Ma, se lo stesso drago apparisse in un racconto di Montalbano, penso che lo stesso identico lettore rimarrebbe molto perplesso.
Ma anche: in un racconto fantasy, è accettabile che si pratichi la magia e si assista ad eventi che nella realtà riterremmo assurdi. Ma, se uno dei personaggi agisse in modo incoerente con le regole stabilite dall'autore in quel mondo, il lettore ne sarebbe disturbato, a meno che di non ottenere una spiegazione plausibile.
Nel mondo di Viola, il concetto di verosimile è abbastanza vicino a quello della nostra vita quotidiana, tranne che per un particolare: con lei lavora Stefan, che viene dal mondo dei servizi segreti e lavorava insieme a lei nella squadra antiterrorismo. Tutto ciò che è connesso a Stefan segue la logica che si ritrova nei racconti di spie più assurdi: dimenticatevi la cupa verosimiglianza di LeCarré, benvenuti nel mondo di 007 e Alias. Un mondo dove si muore e si risorge molto più che nel Vangelo e dove l'etica è quasi completamente ribaltata rispetto alla nostra.
La difficoltà principale (ma anche il più grande divertimento) nello scrivere di Viola è proprio doversi barcamenare tra queste due realtà.
Credo, tutto sommato, che Viola sia un personaggio con una sua verosimiglianza: è consapevole di appartenere a due mondi (quello del suo passato, rappresentato nel presente da Stefan, e quello del presente, rappresentato dalla sua famiglia e dall'agenzia) e gioca sul crinale, tenendo sotto controllo il proprio dualismo. Dopotutto, la cosa non è nemmeno poi tanto stupefacente: non stiamo parlando di un'ex 007 in gonnella, ma di una che lavorava più come analista e stratega, con qualche innocua missione in incognito. Parliamo di una che, per carità, si sa difendere e sa maneggiare un'arma per mettere a posto un ex un po' troppo invadente, ma che non disdegna di avere le spalle coperte da Stefan. Insomma, Viola gestisce l'aspetto più insolito della propria vita mantenendo un profilo basso e valorizzandone la parte più "normale", senza però disprezzare ciò che il suo passato le ha lasciato (Stefan compreso).
Stefan, che è un personaggio con una certa importanza (oggi è il braccio destro di Viola, ma in passato diciamo che non è stato un santo, soprattutto nei confronti della sua amica), il problema della verosimiglianza non se lo pone proprio, in senso convenzionale: è morto e risorto un paio di volte, ha infranto molte regole senza pagarne le conseguenze, ama la stessa donna da 15 anni (da circa 8 anni non ricambiato)... Questo non significa che non abbia una sua coerenza, anche morale, solo che non sappiamo benissimo come sia delineata (ammetto: in questo momento sto pensando a quali potrebbero essere i suoi tabù e forse, a fatica, ne ho trovato uno, ma non sono neanche tanto sicura).
Quello che mi pone un sacco di problemi dal punto di vista della verosimiglianza è Luca, il marito di Viola. Luca è delineato su mio marito, anche se Viola non è la mia immagine precisa. Alla fine però, per amore della verosimiglianza, nemmeno Luca è l'immagine precisa di mio marito, perché mio marito è un personaggio inverosimile: se a Luca personaggio avessi dato tutte le caratteristiche di Luca reale, l'avrei trasformato in una macchietta o in un personaggio comunque non credibile. Perché? Perché in letteratura prevale la nozione di verosimile, non di vero. Quindi, nella vita reale, è accettabile che uno abbia tutti gli hobby di Luca, che sia smemorato come lui, che faccia i pasticci che fa lui e i suoi ragionamenti. Nella vita letteraria, ho dovuto togliergli una consistente dose di hobby, aggiungergli un po' di memoria e un po' di buone maniere, rendere un pochino più evidente l'amore che prova per la sua famiglia, cercando però di non snaturarlo. Ed è una faticaccia, perché mantenersi in equilibrio sul crinale non è facile, soprattutto per me che con questo personaggio inverosimile ci vivo, e quindi tante sue stranezze non le vedo neanche più.
Gli altri personaggi della serie sono occasionali, quasi tutti fortemente verosimili perché radicati nella realtà che noi conosciamo e quindi agiscono secondo regole che ci appartengono. Tra questi, collaboratori e clienti dell'agenzia in genere non conoscono nulla del passato di Viola e Stefan, quindi la loro verosimiglianza non è messa a repentaglio. Quando capita che qualcuno scopra qualcosa del loro passato (che non nascondono, ma non sbandierano neppure), la sua reazione è coerente con il personaggio: la vecchia contessa navigata non si scompone più di tanto, il poliziotto ne è stupito e incuriosito ma senza giudicare. In realtà, come ritengo sia plausibile, la cosa che suscita più sospetti è che Viola e Stefan siano così legati, senza che Luca sia geloso. Anch'io l'avrei ritenuto inverosimile, prima di conoscere mio marito.
Il verosimile è un concetto molto relativo.

giovedì 7 maggio 2009

Vi presento Viola

"Viola è un nome facile da portare."

Una bella presentazione per un personaggio tutt'altro che "facile": Viola non è bella né sexy, non ha superpoteri, non vive nel futuro e non ha a che fare con mondi fantastici.
Viola vive a Genova, va per i 40 e ha una famiglia: tutto questo la rende molto poco glamour, me ne rendo conto.
Ciò che rende Viola speciale è il suo lavoro. Ha un'agenzia che si occupa di tutti gli aspetti pratici che possono riguardare le opere d'arte: sicurezza, autenticazione, consulenza legale, ricerche. L'ha aperta in un carrugio, in una ex macelleria, proprio sotto casa. I suoi clienti per ora sono un'eccentrica contessa, un artista tormentato, un intero paese stregato, un trafficante d'armi in prigione e un poliziotto curioso. I suoi collaboratori, in genere, sono persone mediamente normali. Con un'eccezione.
L'eccezione viene dal passato di Viola: prima di diventare una quieta madre di famiglia, Viola era un'agente antiterrorismo. Lavorava al seguito dei grandi eventi, fino al G8, che l'ha riportata nella sua città.
Sotto copertura, conobbe un no global che le avrebbe cambiato la vita: sarebbe diventato suo compagno e padre dei suoi figli, non prima di aver rischiato di essere ammazzato da un collega di Viola.

Viola oggi vive nella mia penna e nel mio computer: nessuno la conosce, non ha un volto. I soggetti che la vedono protagonista sono destinati a cambiare mille volte, man mano che imparerò come scriverli. Diventeranno sceneggiature, e se qualcuno avrà voglia di divertirsi, magari riuscirò persino a vedere la faccia di Viola.
Volevo però presentarvela, perché ormai è una parte massiccia della mia vita e prevedo che si espanderà.
Volevo parlarvene, perché non ci sono molti personaggi credibili nella parte della mamma che non si nega un po' d'azione, a parte lei.
Soprattutto, mi piacerebbe avere un parere: vi incuriosisce? Vi stufa? Mi ripugna perché "oddio già ho figli miei, se leggo un fumetto d'azione non voglio certo sapere che cosa cucina stasera la protagonista e a che ora mette a letto i figli"? Vi sembra inverosimile? Ditemi un po'.
Siete un disegnatore / una disegnatrice disoccupato/a e avete voglia di cimentarvi in qualche tavola? Avrete tutta la mia gratitudine, e una fornitura di formaggio a vita.

mercoledì 6 maggio 2009

Quello che è meglio

Leggendo questo bellissimo articolo di Mammaimperfetta sul bonding, mi sono ritrovata a fare due conti con me stessa. Non tanto per Amelia, che mi è stata messa in camera da subito e di cui mi sono innamorata istantaneamente, quanto per Ettore.
Ettore oggi è il figlio con cui in prospettiva mi vedo più in sintonia. Forse perché il suo carattere somiglia a quello di suo padre, forse perché semplicemente è il più sereno e allegro dei due o forse perché è maschio e con Amelia è già cominciata la competizione. Non è il mio preferito: credo sia presto per capire se ho una preferenza o no. Sicuramente è quello con cui preferisco stare adesso, nonostante sia fisicamente più faticoso.
Ma, quando è nato, non mi sono potuta innamorare subito di lui. Perché, quando hanno finito di ricucirmi la patata, io sono stata spedita in reparto e lui al nido, dal momento che al San Matteo di Pavia non si pratica il rooming in di notte; me l'hanno portato alle 9, dopo 6 ore di distacco. E io, vuoi per debolezza vuoi per diplomazia vuoi per paura di doverlo allattare da subito, non ho insistito.
Il punto è tutto qui: ho lasciato andare l'occasione unica di creare un legame con mio figlio per paura di fare una cosa che dentro di me non volevo fare ma la pressione sociale e sanitaria mi costingeva a fare. Ora che l'ho scritto, mi sento un'idiota.
Sì, io lo so che l'allattamento al seno è importante perché blabla bla bla. So tutto quel che c'è da sapere: ho letto gli opuscoli della LL, ho seguito il corso preparto, ho consultato siti e forum, ho avuto consigli da amiche allattanti e competenti che ringrazio tantissimo. Ma dentro di me la repulsione è più forte: il seno è mio e, come ho vissuto la gravidanza come un'invasione del mio utero e un attentato ai miei organi interni, non mi è mai piaciuta l'idea di dover usare questa parte del mio corpo a comando di un altro. Non c'entra più di tanto il fatto che il seno sia una zona erogena. C'entra piuttosto di sicuro il dolore che ho provato con Amelia, un po' meno con Ettore e che sono sicura di non voler provare più, perché a confronto partorire è stata una passeggiata.
C'entra anche il fatto che il seno lo potevo dare solo io, e io sono una che deve avere la possibilità di delegare, se no mi sento in gabbia.
Detto questo, se tornassi indietro non proverei nemmeno ad allattare. O meglio: partirei con l'idea di non esserci obbligata nemmeno per una volta. Insisterei per stare vicina a mio figlio, a costo di dover stare nel nido con lui o di farmi dimettere in piena notte. Me lo terrei vicino, cuore a cuore, come faccio ancora le rare volte che dorme con me (non sono una mamma Estivill, è che i miei figli sono sempre stati strani: Amelia ha cominciato a dormire volentieri nel lettone a partire dai 2 anni, Ettore lo posso tenere nel lettone solo se muore di sonno ma ha freddo). Lo riempirei di baci e di parole dolci. Lo guarderei fino a consumarlo, come ho fatto con Amelia: lei e suo padre dormivano, dopo la notte di travaglio, e io come una scema non riuscivo a dormire per via dell'adrenalina.
Non credo che quelle 6 ore siano state irrecuperabili, come niente lo è quando c'è l'amore di base e tutta una vita per recuperare. Penso però che, se mai dovessi avere un terzo figlio, farei di testa mia: cercherei ciò che è meglio per noi, non sulla base delle statistiche o delle mode (perché purtroppo anche questo fa, negli ospedali). E, nel mio caso, sarebbe stato meglio che non avessi sulla testa la spada di Damocle dell'allattamento, perché stare vicina a mio figlio non sarebbe dovuta essere una cosa potenzialmente sgradevole, sarei dovuta essere libera di fare quello che mi sentivo di fare.
Le madri non sbagliano mai: è da tanto che si sente ripetere questa frase. Forse è ora che cominciamo a non considerarla solo una frase fatta ma una sacrosanta verità.

domenica 3 maggio 2009

Aspirational - il ritorno

Prima di tutto: anche se eravamo tutti malati, ce ne siamo fregati e ci siamo fatti il nostro weekend di sole. Infatti oggi scrivo sdraiata nel letto, con Amelia comatosa accanto e l'ennesima aspirina in corpo. Ettore di sotto è cisposo e tossisce, Luca è drogato di Tantum verde e propoli, e le gatte cercano di passare tra un germe e l'altro.
Però.
Però venerdì Luca ha fatto i biscotti con i bambini, poi abbiamo riposato tutti molto bene e ci siamo fatti delle gran buone crepes di grano saraceno.
Però ieri, lasciata Amelia dai nonni, abbiamo passato la giornata al Castello di Belgioioso, giocando nel parco come le famiglie delle pubblicità.
Però stamattina Luca è riuscito a finire la serie di Dampyr che stava leggendo, e poi abbiamo fatto colazione al bar, e poi siamo andati al mercatino di Bereguardo e abbiamo incontrato là una mia allieva con la famiglia, e poi abbiamo mangiato gli gnocchi a casa della nonna e infine abbiamo passato il pomeriggio a Pavia, nel parco giochi del castello. Ho visto Ettore ridere in mezzo alle palline colorate e avere un po' paura dello scivolo, l'ho visto arrampicarsi su un'altalena e divertirsi sul tappeto elastico. Ho visto Amelia giocare proprio bene e mi è dispiaciuto che piangesse così disperata quando ho annunciato che dovevamo tornare a casa. Abbiamo provato a mettere Amelia nello zaino-fascia di Ettore e abbiamo riso tutti insieme (tranne Ettore, che dormiva nel passeggino) sia della sua iniziale paura sia del fatto che il sonno ha vinto la paura.
Confesso: non è stato il weekend che sognavo. Se sogno qualcosa, mi auguro almeno di essere sana. Però, anche se le premesse facevano paura, siamo stati bene. E ci siamo voluti bene.
Sarò retorica, ma questa è l'unica cosa a cui aspiro veramente.