domenica 30 agosto 2009

I nostri bisogni e i loro

Sono partita per le vacanze con la convinzione che non sarei mai stata una fan della classica vacanza "stessa spiaggia stesso mare". Sono tornata con il dispiacere di non potermi permettere di aggiungere qualche settimana di vacanza "classica" ai viaggi che vorremmo fare nei prossimi anni.
La prima settimana, in Val Trebbia, è stata bellissima dal punto di vista naturalistico e umano, ma ben poco abitudinaria: ogni giorno un posto diverso dove scendere al fiume, un modo bellissimo per avvicinare noi stessi e i bambini alla natura, ma sempre un po' faticoso e scomodo per tutti. Amelia era spesso scontenta, tranne di sera quando cenavamo all'agriturismo e lei poteva giocare nell'aia come se fosse casa sua.
Quando siamo partiti per Levanto, Amelia era di malumore perché non voleva lasciare l'agriturismo di Bobbio, con le sue persone meravigliose e i suoi cavalli e la ghiandaia addomesticata e le gatte. I primi giorni a Levanto sono stati un po' deliranti per via del suo umore.
Ho notato però che, quando abbiamo fatto 4 mattine di seguito nella stessa spiaggia e lei ha potuto familiarizzare sia con i bambini "fissi" sia con il mare e la sabbia, il suo umore è decisamente migliorato e con il suo anche il nostro.
E oggi, nonostante una parte di me si ribelli, sto seriamente pensando di prenotare fin da ora lo stesso appartamento per il prossimo anno, stesso periodo o magari qualcosina di più. Perché lo so che qualcuno mi chiamerà mollacciona e mi accuserà di assecondare i capricci di una bambina di 3 anni, ma io penso che ci sia sotto qualcosa di più.
Penso ai miei anni a Loano, posto che dai 15 anni mi è apparso noiosissimo e dove non tornerei volentieri. Mi ricordo una routine ma di quelle piacevoli, in cui ogni anno ritrovi la spiaggia, gli amici, i giochi, i luoghi. E infatti dai 15 anni mi sono annoiata perché tanti amici non c'erano più, non perché mi mancasse chissà quale divertimento.
Penso che, nonostante i miei sforzi, probabilmente Amelia non ha capito il perché del cambiare posto ogni giorno, del voler vedere cose nuove: lei si accontenta di un po' di sabbia, un po' di mare e qualcuno con cui giocare.
Appena abbiamo smesso di portarla qua e là (sia pure con buone intenzioni) e le abbiamo permesso di fare quello che le piaceva, è diventata più felice ed equilibrata.
E qui mi viene in mente la frase di una mia cara amica, che l'aveva detto tempo fa: i bambini felici sono sempre bravi. Questa è stata la prova del nove.

venerdì 14 agosto 2009

Meritocrazia del successo

Recentemente, anche grazie a Viola e ad alcuni scambi di opinioni molto fruttuosi, sono tornata a riflettere su un tema che, come storica dell'arte e danzatrice dilettante, mi si è riproposto ennemila volte: c'è qualcosa di sbagliato nel voler piacere a tanti?
Esempio concreto: Michelangelo piace a tanti, è sempre piaciuto a tanti. Questo l'ha reso un artista meno grande o innovativo?
Altro esempio concreto: l'"Inno alla Gioia" è diventato una roba da suonerie, piace oggi come 200 anni fa. Ma Beethoven era una specie di Laura Pausini dei suoi tempi? Con tutto il rispetto per la Pausini e i suoi fan, Beethoven era qualcosina di più.

Perché faccio queste riflessioni? Perché Viola vuole piacere a tanti. Vuole essere un prodotto popolare, laddove "popolare" significa "che piace al popolo, alla gente".
Ora, è vero che esiste il popolo bue che guarda in TV programmi inguardabili e legge libri e fumetti impubblicabili. Ma io credo che lo faccia anche e soprattutto per fame.
Esempio: mia madre ama la letteratura thriller - gialla - avventura - ecc., praticamente tutta la letteratura di genere tranne l'horror e il rosa. Legge Jeffrey Deaver, la Gimenez-Bartlett, la Vargas, il vecchio Ludlum, Follett, Wilbur Smith, eccetera. Ma, se lo trova in libreria a un prezzo basso o glielo passano, legge anche Buticchi e il nuovo Ludlum.
Altro esempio: a me piacciono le serie TV ben fatte, serie, ben recitate. Ma, nelle serate vuote, mi sono sparata diverse puntate di Elisa di Rivombrosa o Carabinieri o Distretto di Polizia, senza per questo considerarle capolavori.
Oppure: nella mia fame di libri e prodotti sui vampiri, ho letto cose belle e popolari, come Dampyr, ma anche trovato prodotti scadenti, come il ciclo di Delany o la serie di Buffy.

Sinceramente, nel mondo del fumetto, a volte mi chiedo come facciano (o abbiano fatto) a sopravvivere serie come Amanda o Lazarus Ledd: chi le compra, con tutte le altre serie interessanti che ci sono in edicola? E capisco che chi fa fumetti innovativi vorrebbe che certe vecchie glorie facessero spazio a roba più nuova.
Però ci sono anche molti prodotti di qualità, popolari ma non necessariamente fatti senz'anima: Dago (almeno i primi anni), Dampyr, Nathan Never, le miniserie di Luca Enoch, Demian... Su Dylan Dog non mi pronuncio, non l'ho mai conosciuto troppo bene. Anche se si tratta di personaggi "antichi", apprezzo Tex e Diabolik.
Viceversa, tra coloro che fanno cose "d'autore" ci sono anche (e sottolineo ANCHE, non SOLO) cialtroni pazzeschi che credono di essere artisti solo perché hanno i soldi per mettere in piedi uno spettacolo o un libro. Nel mondo dell'editoria, non ne conosco personalmente. Ne conosco nel mondo della danza, perché la mia prima maestra è di questa razza: se confronto i suoi pretenziosi spettacoli a quelli della mia attuale maestra, anche quelli estemporanei, c'è un abisso di qualità e di profondità di emozioni.
Ma ecco il busillis: la mia attuale maestra, la Pedretti per intenderci, è commerciale o autoriale? Lei e le sue socie si esibivano nei locali, certo, e ogni tanto lo fanno ancora. Addirittura si sono esibite per la strada in un festival di buskers, a Castellarquato, con percussionista e famiglia al seguito. Oppure la "colpa" di essere commerciale deriva dal fatto di essersi esibita nei festival di danza di tutta Europa e oltre?
Oppure, caso editoriale: ho recentemente letto "Cacciatori nelle tenebre" dei fratelli Carofiglio (altri fratelli, si vede che porta fortuna!). Io l'ho trovato bello, ben fatto, e vorrei leggerne altri. Nei blog e nei forum di amanti dei fumetti, invece, ho trovato critiche a priori, parole di disprezzo e di dileggio nei confronti di due "dilettanti" che hanno osato cimentarsi con le sacre nuvolette, il tutto velatamente condito dal solito "il prodotto è scadente, altrimenti non avrebbe tanto successo". Ovviamente, accecati dall'invidia, molti non hanno pensato neppure per un attimo che il prodotto dei Carofiglio abbia avuto successo perché è bello e ben fatto.

In definitiva, sono un po' stanca di questa diatriba: ci sono sicuramente corsie preferenziali per certi "autori" (altrimenti non si spiegherebbe come certa gente possa pubblicare libri illeggibili), ma non credo che necessariamente chi ha successo sia scadente. Soprattutto, penso che il successo spesso sia un misto di bravura tout court e capacità di intessere rapporti umani proficui.
Di quest'ultimo elemento mi sono resa conto da poco tempo e sto cercando di migliorare queste mie capacità, di non vergognarmi di "usare" i miei contatti, di considerare le pubbliche relazioni come parte integrante della produzione di Viola.
E speriamo che la fortuna ci assista.

sabato 8 agosto 2009

L'ora delle streghe

Al giorno d'oggi, dichiararsi streghe è una moda e un vanto: eliminata l'antiquata idea della strega cattiva, ecco che la strega è bella, sexy, buona e molto, molto utile.
Non c'è bisogno che faccia la carrellata: dal telefilm "Streghe" a Harry Potter, passando per tutto il vario fantasy bello o brutto, conosciamo il genere. E, sull'onda della New Age, la Wicca si è diffusa in tutto il mondo.
Io, nel mio piccolo, non mi considero una strega, ma penso che in altre epoche mi avrebbero potuta considerare tale. Non tanto perché ora sto scrivendo con una gatta nera di fianco al PC o perché spesso mi è capitato di azzeccare previsioni non proprio scontate. E nemmeno per il mio ateismo, che in altre epoche avrei tenuto ben nascosto.
Penso piuttosto di assomigliare a una strega del mondo contadino perché ascolto la natura, sempre. Non nel senso che vivo naturale o cose del genere, ma proprio nel senso che sono molto attenta ai versi e ai comportamenti degli animali e degli elementi. E quasi mai attribuisco loro significati stereotipati.
Ricordo per esempio che, quando vivevo in centro a Pavia, una cornacchia gracchiava tutte le mattine e tutte le sere affacciandosi sul mio cortile, e a me sembrava un saluto. Sempre quando vivevo a Pavia, i gatti (timidissimi con gli altri condomini) di una mia vicina venivano a dormire sul mio divano mentre io scrivevo o lavoravo da casa. Oppure: al ritorno dalla casa di campagna di Andezeno, dove il silenzio degli uccelli mi pareva quasi inquietante, sono stata investita da una mattina in cui c'era solo l'imbarazzo della scelta tra allodole, merli, gazze, passeri, cornacchie e tortore, e mi sono sentita di nuovo a casa. Di notte, con le finestre aperte, mi capita di sentire gli scazzi tra gatti, e a volte di riconoscere le voci delle mie gatte bisbetiche. Ci sono giorni (o, più spesso, sere) in cui mi arriva l'urlo angoscioso di una mucca che partorisce o il lamento di un vitello che vorrebbe la sua mamma. Ieri, notando che la luna era rossa, ho pensato che oggi avremmo patito molto il caldo, perché ci sarebbe stata molta umidità.
Forse la differenza tra me e una strega è che io non traggo presagi o conclusioni da questi episodi. Mi limito a registrarli dentro di me, a notarli. E mi aiutano a sentirmi meno sola.

giovedì 6 agosto 2009

Il diritto all'infelicità

Titolo assai poco vacanziero, OK, ma non son mica in vacanza: sono in un limbo fatto di scatoloni e idraulici, quindi quasi peggio che se andassi al lavoro. Oddio, sarebbe peggio se fossi in questo limbo di scatoloni e idraulici E andassi al lavoro.
Il fatto è che, quest'estate, sono stata assai poco felice, soprattutto in proporzione a quanto ci si aspetterebbe da una che è a casa con i suoi adorati bambini dal primo giugno.
Sicuramente c'entra tutta la fatica assurda che stiamo facendo per la cucina nuova. E anche il fatto di essere stata senza Luca per una buona porzione dei giorni di luglio. In aggiunta, mettiamoci che ad Amelia è esploso il complesso d'Edipo proprio in concomitanza con l'assenza di suo padre, una depressione... Possiamo metterci anche il fatto che, tutto sommato, se penso al ritorno al lavoro, uno qualsiasi dei momenti più cupi di quest'estate mi pare luminoso.
Questo non per dire che finora sia stata una brutta estate. Ci sono stati momenti bellissimi, che rimarranno con me per sempre: il Momcamp, il giro a Genova con Luca ed Ettore, la visita della mia amica Isabella, la breve convivenza con i miei cognati giovani, i weekend con Luca, il concerto di Bregovic a Collegno, la scoperta dell'agrigelateria e della Gelateria Popolare di Torino...
Però ho potuto riflettere sull'infelicità che provo riguardo la sfera lavorativa, il "vuoto" (come lo chiama Luca). Mi sono chiesta se è depressione, se c'è qualcosa di patologico. E mi sono detta che, sì, c'è ansia e dolore all'idea di ritornare, ma credo che sia una tristezza "sana" e nello stesso tempo insanabile.
Sana perché riguarda solo quella sfera: non mi fa sentire infelice o fallita negli affetti o in altri aspetti della mia vita, non intacca la mia autostima. So di essere finita in questo cul de sac per motivi che esulano dal mio valore di persona e di lavoratrice, e questo mi rende forte. So anche che un modo di uscire dall'inferno delle fatture c'è, ma che ancora per un anno non è praticabile: nessuno si prende volentieri una che ha ancora dei congedi parentali da godere, rischio di passare dalla padella alla brace (ovvero: da un lavoro brutto ma con colleghi gentili a un lavoro brutto con colleghi orrendi).
Certo, a volte questo dolore mi rende più irritabile anche in altri momenti della mia vita, ma credo che sia normale: dopotutto, una persona che ha mal di denti è più irascibile di una perfettamente sana, no?
Insanabile perché, per quanto io faccia, nella pubblica amministrazione non credo che avrò mai un lavoro che renda felice come ero nei primi 3 anni della mia vita lavorativa, e questo per me è come avere un arto in meno. Luca lo sa: per quanto lui mi possa amare e per quanto i nostri figli possano essere meravigliosi, io la mancanza di quell'arto la sentirò sempre. Forse non mi risanerà nemmeno un eventuale successo di Viola, perché comunque non sarebbe Viola la cosa di cui mi occuperei per 8 ore al giorno.
Certo, nei miei sogni una via d'uscita ci sarebbe: fare un botto tale con Viola da diventare autrice a tempo pieno, pagata da vere case editrici, di fumetti e non. Ma, a parte che la mia parte di figlia del popolo mi imporrebbe di non lasciare il lavoro statale ma prendere il part time più ridotto possibile, i sogni son desideri un po' troppo spinti.
Al massimo, nella vita reale, posso "accontentarmi" di sognare un part time per il giorno in cui avrò finito di pagare le rate del nido di Ettore, e cercare di portare avanti Viola senza rimetterci troppo.
Sono ragionamenti di una depressa, questi? Dovrei sforzarmi di vedere positivo qualcosa che non può esserlo? Ecco, ci posso anche provare: grazie al fatto che adesso capisco e capirò sempre meglio i meccanismi amministrativi di un ente, mi districherò decisamente meglio nella stesura del budget per Viola. Ora è veramente tutto: ora ho il diritto di dire che sono infelice del mio lavoro e stop.
Ah no, c'è un altro obbligo che devo assolvere: pensare a tutte le persone che non hanno lavoro o che hanno un lavoro qualsiasi perché devono mangiare o che ce l'hanno precario. Invece di pensare al Terzo Mondo o ad amiche ben più vicine, penso a mia nonna: vedova dopo la guerra (ma non "di" guerra, quindi senza pensione), con una figlia piccola, si rompeva la schiena troppe ore al giorno in un laboratorio farmaceutico, senza la minima protezione per la propria salute, fianco a fianco con ragazzine che morivano ancora di polmonite. Sicuramente non era felice di fare quel lavoro, ma probabilmente credeva che la sua condizione di infelicità non fosse patologica: probabilmente era la norma. Quasi nessuno faceva un lavoro che lo realizzasse, quasi tutti lavoravano solo per mangiare e senza pensare che ci può essere bellezza in un lavoro piuttosto che in un altro.
Ecco, io penso di dover fare come mia nonna: lavorare per mangiare e non sentirmi sbagliata per l'infelicità che sento. Ma non sentirmi neanche in colpa per i diritti di cui godo: li compenso ampiamente con un peso nel cuore.