sabato 30 gennaio 2010

L'accuratezza non costa niente

Domenica scorsa, approfittando di un pomeriggio di assenza dei figli e del fatto che un mal di testa incipiente mi impediva di mettermi a scrivere, ho guardato un film in TV. Su Italia 1. Film tipico della rete: avventura e buoni sentimenti, evasione allo stato puro.
Il film, di cui non so il titolo perché ho cominciato a vederlo quando era già cominciato da 5-10 minuti, parlava di una specie di Indiana Jones in gonnella, alle prese con il tesoro dei Templari.
Al di là della banalità dei vari cliché che c'erano dentro (e di cui ero consapevole, ma me ne fregavo: mica che una deve essere originale 24 ore su 24), quello che mi ha dato fastidio è stata una serie di inesattezze gratuite, di quelle che se sei un minimo amante della Storia spegni il televisore e vai a picchiare lo sceneggiatore.
Dio bono, se decidi di scrivere una storia su un'archeologa, il minimo che tu possa fare è avere un minimo di dimestichezza con la Storia, no? Pare di no.
Prima serie di strafalcioni: siamo alla fine del 1200 e i Templari sono asserragliati dentro Gerusalemme assalita dai Turchi. Due cavalieri vengono incaricati di scappare verso il mare, dove il aspetta un galeone, e dal mare assistono alla distruzione della città.
Prima obiezione: alla fine del 1200, Gerusalemme era persa da un pezzo (un secolo circa). Al limite si poteva parlare di Acri, persa appunto nel 1291.
Seconda obiezione: Gerusalemme non è in riva al mare (Acri sì).
Terza obiezione: il dominio turco, alla fine del 1200, non esisteva ancora. Al massimo potevano esserci dei turchi tra i mercenari.
Quarta obiezione, questa da vera cagacazzo: nel 1200 i galeoni non esistevano ancora. Ma posso capire che siano belli, facciano scena e quindi chissenefrega della verosimiglianza storica.
I cavalieri fanno naufragio e finiscono in Anatolia. Dopo un lungo cammino nel deserto di sabbia (il famoso deserto anatolico, chi non ne ha mai sentito parlare?) arrivano a una città.
Per identificare la città, l'archeologa usa la mappa di Al-Idrisi. Che è stata redatta in Sicilia nel 1154, in arabo. Ma magicamente, nelle mani dell'archeologa, la mappa riporta scritte in turco con caratteri latini. Circa 200 anni prima che i turchi avessero un qualche ruolo nella storia del mondo occidentale e circa 750 anni prima che Ataturk decretasse che il turco andava scritto con caratteri latini.
Ora, io non sono un'esperta né di Crociate né di Templari né di storia del mondo islamico (purtroppo). Ho qualche vaga nozione che ho verificato su Wikipedia, in 10 minuti d'orologio, cercando Templari, Impero Ottomano, Turchi e Al-Idrisi. Mi chiedo perché lo sceneggiatore del film, pur essendo pagato per farlo, non abbia perso 10 minuti del suo tempo a fare queste ricerche. Gli auguro di essersi nel frattempo innamorato di una vera archeologa e che lei gli abbia dato un gran due di picche perché non può sopportare di stare con un tale ignorante.
Stesso discorso per le lingue straniere. A parte che io difficilmente mi metterei a scrivere una storia con uno straniero come protagonista, ambientata in un Paese dove non ho mai abitato. Lo potrei fare in una storia di fantascienza o di ambientazione storica, ma non ai giorni nostri. Inoltre, ogni volta che faccio una citazione in un'altra lingua o che mi azzardo a inserire una frase di cui non sono sicura, vado a fare mille verifiche su Google. Se dovessi spingermi un po' più in là, chiederei a qualche persona esperta (diavolo, se io conosco persone che parlano swaili, croato, turco, arabo, nepalese, hindi e giapponese, uno che poco poco è interessato per professione dovrebbe conoscere qualcuno che parla italiano, no?) o porrei una domanda in un forum.
Ecco che cosa farei io, e che cosa ritengo sia giusto fare. Soprattutto se stessi scrivendo non un romanzo, in cui sono chiaramente identificabile come unica responsabile degli strafalcioni, ma una sceneggiatura su cui altri dovranno lavorare.
Immaginate se tra qualche mese si cominciasse a disegnare Viola e io avessi messo dentro una cazzata pazzesca, una roba da screditare tutto il lavoro (OK, lo ammetto: non me lo sogno ancora di notte ma lo farò presto). Il mio disegnatore diventerebbe "quello che ha disegnato quella cazzata". Non credo che gli rovinerei per sempre la carriera, ma nessuno lo chiamerebbe "quello che ha disegnato (bene però) quella cazzata".
Per Viola, mi sono documentata come ho potuto: dal momento che non ero a Genova durante il G8 (ma, in tutto il casino, io ero dalla parte dei genovesi e il mio cuore sanguinava), ho guardato video, ascoltato i racconti di varie persone (mio marito, per esempio, ma anche il marito di una mia amica, che lavora in Guardia Costiera ed era dalla parte dei "cattivi"), ho raccolto un sacco di foto. Mi sono presa alcune licenze consapevoli nel tratteggiare i compiti e i metodi della squadra antiterrorismo in cui Viola lavora, esattamente come credo se le siano prese Ian Fleming e Le Carré che pure ne sapevano più di me.
Ho cercato di essere rigorosissima nella definizione dei luoghi, perché una cosa che non capisco da mai è perché, se ambienti una storia a Palermo, devi girare una scena in una riconoscibilissima piazza di Lucca. Nel cinema, posso ancora capirlo: motivi di budget, permessi, eccetera. Ma nel fumetto no: so che è una menata, ma sto tuttora andando a Genova per fare foto sulla base delle ambientazioni e delle inquadrature della sceneggiatura.
Per quanto riguarda la frequentazione di associazioni ambientaliste e di un certo genere di persone che al G8 hanno manifestato, mi sono basata il più possibile sulla mia esperienza personale e ho cercato di essere il più neutrale possibile (a priori, a parte che mio marito era là, non avevo grandissima stima dei no global e tuttora li prendo con le pinze, pur avendo fatto molta strada nella loro direzione).
Ecco, le cose che ho lasciato al "caso" (ovvero alla sensibilità del disegnatore) sono quelle minori, per cui quasi quasi io mi offenderei se qualcuno mi desse della documentazione: il vestiario dei personaggi (credo che, per un disegnatore, l'indicazione "cappotto classico nero e pantaloni a sigaretta grigi" sia sufficiente), il tipo di auto ("berlina scura", ad esempio), il mobilio (il riferimento a uno stile IKEA penso sia sufficiente, mentre in casi tipo mobili d'antiquariato ho raccolto immagini di esempio). Però, se il mio disegnatore mi dicesse "guarda no, mi servono immagini anche di questo", gli riverserei addosso un'altra mole di documentazione con la coscienza tranquilla di un bebé. Anzi, non fatemici troppo pensare, se no lo faccio senza neanche chiedergli un parere.

giovedì 28 gennaio 2010

Shopping e autarchia

Ieri sono arrivata a casa e ho scoperto che i miei ordini su Amazon.fr (il secondo, quello ventilato qui) e su IBS (alla fine ho dovuto rinunciare a un libro, che sto cercando per altri canali) erano arrivati insieme: mi è sembrato che fosse Natale, ma Natale quello dei bambini per me che bambina non sono più. Fate conto che sono rimasta per un bel po' a contemplare il mio tessssoro per decidere da dove cominciare: l'Agence o Alan Moore? Damocles o Vivès?
Si tratta di libri abbastanza diversi fra loro, di cui due presi per cultura generale (non si possono scrivere fumetti senza aver letto qualcosa di Alan Moore, ed ho pensato che era meglio rimediare) e due perché avevano un sapore affine a quello che vorrei fare io con Viola.
Ho cominciato dai due "finalizzati", due primi tomi presi senza l'intenzione di proseguire. Due assaggi di prodotti che funzionano e che potrebbero rappresentare, in senso lato, la mia concorrenza. Entrambi partono da un'idea interessante, ma poi la svolgono in modo un po' piatto.
L'Agence, per esempio, parte da un'idea non diversa dalla mia per la serie di Viola: un'agenzia che opera nell'ambito dei beni culturali. Peccato che, prima di tutto, il capo dell'agenzia sia un italiano che si chiama Rafaello (con la dieresi sulla e, di cui non trovo il codice) e i (pochi, per fortuna) balloon in italiano siano spesso evidentemente scritti da uno che non si è dato nemmeno la pena di verificarne la correttezza. Già questo, se sei italiana, ti indispone di brutto.
[Parentesi: la mia stima per Anne Rice è caduta nella polvere quando ho letto alcuni suoi libri in lingua originale ambientati in Italia. Mi dispiace, ma una città italiana non si può chiamare Santa Maddalana. Al limite Santa Maddalena. E poi in Italia le città non hanno nomi di santi, solo i paesi. Chiusa la parentesi.]
Da qui in poi, le differenze con Viola si moltiplicano: l'Agence è un'agenzia con un sacco di soldi di cui non sono chiari né i finanziatori né i beneficiari, mentre l'agenzia di Viola è una PMI finanziata nella fase di start-up da finanziamenti pubblici ma basata sulla ricerca di clienti. Il fatto che Viola abbia dei clienti e che debba cercarli nella medio-alta borghesia fa sì che i suoi lavori siano di entità modesta e poco avventurosa, mentre l'Agence parla di grandi capolavori trafugati e mercato dell'arte a innumerevoli zeri. Il fatto che Viola sia imprenditrice ma senza fondi illimitati fa sì che i suoi mezzi non siano l'elicottero privato o il blindato tecnologico, ma quelli su cui viaggiamo tutti noi. Il fatto che Viola abbia una famiglia e non viva per l'agenzia fa sì che eviti come la peste i casi pericolosi, anche se evitarli non basta.
L'unico elemento che potrebbe trasferirsi alla mia serie è l'ex agente segreto claustrofobico, Saint-Alban. Ma, mentre Saint-Alban è tratteggiato in modo da renderlo più umano (vedi la storia della claustrofobia mentre sta in una fogna - voglio dire: non una bara), Stefan è un personaggio divertente proprio perché completamente disumano e inverosimile in un ambiente invece plausibile e familiare.
Anche Damoclès parte da uno spunto interessante e forse lo svolgimento è un po' meno banale, anche se un po' troppo lento. Si racconta di un futuro prossimo, in cui le agenzie di sicurezza personale saranno la norma per le persone ricche. Gli agenti che fanno questo lavoro sono persone abbastanza normali, che vengono da esperienze diverse e che lavorano lì essenzialmente per avere uno stipendio. C'è quello sposato innamorato di Matrix e di una collega, c'è il reduce della guerra del Golfo, c'è il giovane indiano rampante. E c'è Ely, una donna rossa di capelli che si avvicina abbastanza alla mia idea di Viola quando era ancora nell'antiterrorismo: carina ma non da svenire (mentre nell'Agence la donna del gruppo fa la top model a tempo perso), tosta ma non aggressiva, competente e concreta.
Insomma, letture piacevoli e poco impegnative, interessanti soprattutto perché mi confermano che lo spazio per Viola c'è e che, poco poco che fossimo in un mercato più evoluto, Viola si mangerebbe una bella fetta, vista la mole di lavoro di documentazione che c'è dentro (e pensare che io vedo ancora moltissimi margini di approfondimento).
Ma forse il fatto è proprio questo: Viola io non l'ho pensata per mangiarmi una fetta di mercato. L'ho pensata perché andava a me, perché volevo leggere quella storia lì, nessuno l'aveva scritta e allora l'ho fatto io. E, se non fa le cose solo per sé, le fa al meglio: mica lesini sulla qualità degli ingredienti, se cucini per te stessa, no?

Dedicato a Diegozilla e alle sue recenti riflessioni sulla scrittura

mercoledì 27 gennaio 2010

Winter blues

In realtà non si tratta di un vero e proprio winter blues: non sono depressa per il fatto che fa freddo. Però sarei più contenta se facesse caldo. Dove per "caldo" non intendo 10 gradi in più (che comunque non schiferei), ma proprio quel caldo sufficiente e necessario per poter stare fuori senza strati e strati di vestiti, magari anche la sera, magari per un concerto all'aperto.
OK, lo svelo: stamattina mi sono svegliata con una canzone in testa. Questa canzone, ascoltata dal vivo l'anno scorso in un concerto di Petra Magoni e Ferruccio Spinetti. Concerto all'aperto, nel cortile del Broletto di Pavia. Eravamo con i bambini: Ettore allegro e sveglissimo, Amelia un po' addormentata. Eravamo seduti per terra, sotto il portico, con i bambini che razzolavano intorno a noi. Ce lo siamo goduto proprio tanto e poi, all'uscita, ci siamo presi un gelato tutti insieme.
Ecco, stamattina, forse complice un timido sole, mi è venuta voglia proprio di quello: di poter fare una passeggiata senza rabbrividire o perdere la voce per tre giorni, di ascoltare un concerto senza rinchiudermi in un teatro o in un locale, di potermi sedere in un bar all'aperto.
Ché, per carità, Steiner aveva anche ragione a dire che ci vuole anche l'inverno, perché aiuta l'introspezione, perché l'essere umano ha bisogno di cicli e ritmi, perché non bisogna vivere di un solo aspetto delle cose, eccetera. Son tutte cose sagge e sono sicura che, in certi anni, una lunga introspezione invernale può essere utilissima.
Ma, diciamocelo, già l'anno scorso poteva bastare: ha continuato a fare brutto e freddo fino a metà maggio, siamo passati dall'inverno direttamente all'estate (questo me lo ricordo bene, perché la seconda settimana di maggio ero a casa con Ettore malato e la quarta settimana invece seguivo il corso di Cajelli sudando come in una sauna).
Quindi quest'anno vorrei uno sconticino, anche se so che la natura non tiene conto dei miei crediti. Vorrei che oggi iniziasse una lunga stagione di siccità (scusate contadini, ma chissenefrega di voi, per una volta: tanto son solo desideri) e che durasse fino alla fine di ottobre. Vorrei che cominciasse a far un po' più caldo a febbraio, magari per Carnevale così i bambini non si raffreddano se fanno la sfilata con l'asilo, e che fosse sempre un crescendo senza arrivare a picchi di calore (se una sogna, che sogni bene, no?). Vorrei che facesse così secco da far morire di sete i virus, e godermi qualche mese senza nasi gocciolanti né colpi di tosse. Vorrei che ad aprile, quando torneremo a Levanto, ci fosse un clima da mettersi al sole in canottiera, così tornerei un po' colorita. Vorrei anche, già che siamo nella sfera del desiderio sfrenato, che per la siccità tutte le zanzare della pianura padana morissero, che la loro stirpe si estinguesse e le loro poche uova venissero mangiate da eserciti di rane affamate.
Intanto, cerco di consolarmi pensando che il freddo è fatto apposta per farsi qualche tazza di buon tè e per preparare biscotti e torte. Ma anche infiniti passati di verdura di ogni tipo e composizione.

sabato 23 gennaio 2010

Questa felicità

All'interno di Opopomoz, c'è una frase che ognuno di noi dovrebbe imparare a memoria. Quando Rocco, il protagonista, dice di voler recuperare la felicità perduta (per l'arrivo del fratellino), la Re Magia gli dice:
"Ma che fissazione! Quando è perduta è perduta: uno se ne deve fare un'altra!"
Ecco, io questa frase la scolpirei nella pietra e/o la regalerei per legge a tutti coloro che vengono al mondo.
Io forse sto per perdere la felicità di prima. Spero di no, ma mi preparo al peggio. Almeno per scaramanzia.
Ma non è necessario che succedano cose brutte per perdere la felicità di prima e cercarne un'altra.
L'ultima volta che mi è capitato di trovare una nuova felicità, è stato quando ho cambiato lavoro, a novembre. La mia felicità sul lavoro l'avevo perduta a ottobre 2008, quando sono rientrata dopo la maternità in un clima che in un'azienda privata avrebbe fatto partire una denuncia per mobbing.
[Apro una parentesi: proprio ieri ho chiesto il conto dei giorni di congedo parentale che mi restano. Risulta che per Amelia mi restano ancora 52 giorni e per Ettore 92, nonostante quest'estate sia stata a casa da giugno ai primi di settembre (come avevo abbondantemente annunciato in una riunione a settembre 2008). Questo vi dice quanto "me ne sono approfittata", nonostante io sia una pubblica fannullona e nonostante mi si prospettasse di rientrare in una situazione lavorativa completamente fuori controllo. Chiusa la parentesi.]
Un'altra volta che mi è capitato di perdere una felicità e trovarne un'altra è stato quando ho partorito i miei figli: ogni volta è stato come fare un upgrade di sistema (ma di quelli fatti bene, io non sono Bill Gates in nessun senso). All'inizio ti trovi un po' spaesato, magari rimpiangi la configurazione di prima perché la conoscevi meglio e ti muovevi in modo più agile. E invece a poco a poco cominci a vedere i pregi della nuova configurazione e pensi che è proprio una figata.
Penso che possa anche capitare di trovare una felicità nuova anche se non la si è perduta in precedenza. Per esempio, Viola è stato un continuo crescere di felicità e soddisfazione, finora: prima la felicità di riprendere a scrivere (questa sì che l'avevo perduta), poi quella di imparare a scrivere un prodotto per me nuovo, poi ancora la felicità di presentarlo a voi e sentire le vostre opinioni, poi quella di trovare un disegnatore che crede in Viola (per scaramanzia non ne pubblico ancora il nome, non mi sembra ancora vero). Spero che seguiranno tante altre felicità, ma già così sono più contenta di un anno fa. Dopo anni in cui credevo di non riuscire più a scrivere narrativa (l'ultimo racconto era del 2005 ed era una riedizione di idee vecchie), sono rinata.
Ecco, una felicità che ho invece perduto e non ne ho ancora trovato una nuova è quella di danzare. Mi insospettisce il fatto di averla persa più o meno in contemporanea alla nascita di Viola come progetto serio, ma so anche che, in passato, la danza e la scrittura convivevano senza problemi. Spero di ritrovare presto un nuovo equilibrio, perché il mio benessere fisico sta rapidamente declinando e i benefici di 8 anni di danza cominciano a scemare.

Dedicato a Mammafelice e al suo "Manuale pratico di felicità".

venerdì 22 gennaio 2010

Di che cosa ho paura

In questi tempi, si parla parecchio di paura: c'è chi ha paura di attentati e del terrorismo, c'è chi ha paura per sé e per la propria privacy, c'è chi teme per la propria salute o per quella dei suoi cari. E poi c'è chi le vive, le malattie, e ha semplicemente paura di morire troppo presto o, nel peggiore dei casi, di soffrire troppo prima di morire.
Io oggi ho ricevuto una telefonata che mi ha gelato il sangue. Non vi posso dire esattamente di che cosa si tratta, ma riguarda una persona molto vicina a me. Non mio marito e nemmeno i miei figli, per i parenti all'ascolto.
Non è (ancora) una sentenza, ma un sintomo. Per ora ha provocato "solo" una serie di esami, da fare al più presto.
Per carità, l'ultima volta che un mio caro ha ricevuto un bollino verde (si trattava di mio figlio, all'età di 3 mesi), si è risolto tutto in un po' di spavento e con un'innamoramento di Ettore per le collane delle dottoresse di cardiologia pediatrica.
Spero che anche stavolta si risolva tutto in un grande spavento. Ma, nel frattempo, ho paura, anche se so che non serve. Sarebbe servita prima, quando si dovevano fare le analisi di routine, per prevenire anche i sintomi. Sarebbe servita a vincere la pigrizia, anche quella di cambiare un medico che fa un sacco di storie prima di prescrivere esami che non ritiene (stupidamente) strettamente necessari.
(Non sto parlando del mio meraviglioso medico, che purtroppo non posso estendere a tutti i miei cari ma solo a chi abita con me. Parlo di un fannullone che fa (male) il medico della mutua per avere tempo e soldi da dedicare alla politica e a tutte le stronzate che gli stanno a cuore, altro che i suoi pazienti.)
Di questo ho paura: di perdere chi amo.

giovedì 21 gennaio 2010

Caos creativo

No, non voglio raccontarvi la storiella che casa mia è un casino perché siamo artisti e vogliamo stimolare la nostra e altrui creatività. Son palle: casa mia è un casino perché siamo pigri e abbiamo sempre voglia di fare altro.
Il caos di cui parlo è quello che sto covando da ieri sera, complice la mancanza di sonno. Un turbine di facce (conosciute e nuove, e che belle sorprese!), di voci, argomenti, risate, indignazioni, commenti, domande. Ché vi dico la verità: non ricordo neanche il gusto di quel che ho mangiato, tanto ero presa.
L'unico neo? Non so se sia un neo, ma mi dispiace che Luca non faccia parte di queste serate. Mi dispiace che le possa vivere solo attraverso i miei racconti. Non tanto perché siano vietate agli uomini o perché non sappiamo a chi lasciare i bambini (una baby sitter ogni 2 mesi ce la si può permettere!), quanto perché comunque non si divertirebbe come si diverte a sentirmele raccontare. Perché spesso parliamo quasi in codice, di avvenimenti e argomenti che sono circolati nel nostro piccolo mondo, di persone che ne fanno parte. Lui avrebbe bisogno dei sottotitoli quasi ad ogni parola.
E non è, come si diceva ieri sera, perché una si senta o no in colpa ad avere uno spazio tutto suo. La colpa non c'entra. È che, quando vivo qualcosa di bello, vorrei condividerlo con lui.
Ora ci penso ancora un po'. Ci dormo su, magari. E nei prossimi giorni riuscirò a vedere tutti questi spunti come uno separato dall'altro, invece che come un inestricabile groviglio.
E vedremo se gioveranno più ai blog, più a Viola o più alle chiacchiere di famiglia.

martedì 19 gennaio 2010

L'ozio è il padre dei vizi

Spesso le persone pensano che io sia superindaffarata. Quando accenno al fatto che vorrei fare di più (per la casa, per la danza, per Viola, per una qualsiasi attività), vengo quasi subito bloccata da una frase che vorrebbe assolvermi: "Eh certo, con due bambini...".
La mia impressione è che spesso le persone che pronunciano questa frase lo facciano per sottintendere "Se sono superindaffarata io che non ho figli o ce li ho ormai fuori di casa, figurati tu". E di solito infatti proseguono dicendo che non hanno tempo libero, giusto una mezz'ora alla sera.
E io a queste persone vorrei dire: organizzatevi meglio. Se siete statali a 36 ore la settimana, abitate a un quarto d'ora / mezz'ora di mezzi pubblici dal lavoro, siete single e/o senza figli, non avete animali e vivete in appartamento, non potete dirmi che dedicate al riposo mezz'ora al giorno. Mi offendo.
Io ho due figli piccoli, non ho nessun aiuto domestico, ho una casa in campagna su due piani che affaccia direttamente sul cortile e 4 gatte, eppure ho cercato di organizzarmi in modo tale da non diventare schiava del dovere.
OK, casa mia non è impeccabile. Ma per terra c'è pulito (per quanto possibile, passando l'aspirapolvere una volta ogni 2-3 giorni e la scopa ogni volta che serve), la cucina è decente (soprattutto ora che ce n'è lo spazio) e i bucati vengono fatti regolarmente. Non stiro, è vero, ma soprattutto perché mi sono organizzata in modo da non farlo (niente camicie, e chi vuole incamiciarsi se la stira). Mi dedico soprattutto al piano terra, perché è quello dove viviamo. Il disordine spesso è appena appena sotto controllo e la presenza delle gatte non è proprio d'aiuto, sia per la lettiera sia per le marcature sia per i peli.
Riesco persino a cucinare. Cerco di cucinare sempre almeno una verdura (anche perché se no che la prendo a fare la biocesta?), di solito in un modo che piaccia anche ai bambini e che mi permetta di non doverci star dietro troppo: padellate, zuppe, torte salate, sformati. Insalate poche, ché a loro non piacciono e poi in inverno non è che ne vada matta. Anche se mio marito è casaro (e a volte mettere in tavola un bel formaggio risolve la situazione e l'umore), cerco di variare e mettere in tavola carne e legumi. Ammetto che ultimamente (Levanto a parte) di pesce ne mangiamo poco, perché non mi piace prenderlo congelato e non mi capita spesso di passare a prenderlo fresco. Ammetto anche che fino a poco tempo fa i soli legumi che mi veniva comodo cucinare erano le lenticchie e i piselli surgelati, ma ora sto cercando di organizzarmi anche per fagioli, ceci e cicerchia. Faccio il pane in casa, ma con la macchina del pane è la cosa più semplice del mondo. E ho preso la lavastoviglie, il che ha giovato immensamente all'ordine della mia cucina.
Insomma, non è che non mi dia da fare. Però un'oretta per fare quello che ci pare (separatamente o insieme) io e Luca ce la ricaviamo quasi sempre, soprattutto ora che i bambini sono un po' più grandi e giocano a lungo per conto loro. Se hanno voglia di noi e non hanno niente di specifico in mente (es. leggimi un libro), di solito riusciamo a coinvolgerli in qualcosa che vogliamo fare noi, si tratti di suonare o ballare o fare la pizza o tagliare i biscotti.
Quando sono a casa, questo tempo si dilata a diverse ore (approfitto vergognosamente del fatto che i miei figli sono dormiglioni, anche se ultimamente Amelia sta perdendo il sonnellino del dopopranzo). Quando siamo a casa sia io che Luca, le ore dedicate a ciò che ci piace aumentano ulteriormente.
Ecco, io queste ore le considero ozio nel senso dell'otium latino: quello spazio che ogni buon cittadino dovrebbe dedicare alla cultura e al benessere. Io le dedico principalmente alla lettura e alla narrativa: leggo libri o riviste o fumetti (o blog), scrivo, guardo qualche DVD oppure cerco qualcosa di decente in TV (per esempio, quest'estate, durante il pisolino dei bambini, guardavo Numbers e mi è piaciuto assai). Mi piacerebbe anche riprendere a danzare, ma forse la mia pausa di riflessione non ha ancora deciso di finire.
Per me questa dose di narrativa è indispensabile per vivere, è un vizio radicato quanto quello di un fumatore incallito. Toglietemi tutto, persino il cioccolato, ma non la narrativa. Probabilmente perché sono figlia di un'altra viziosa, una che preferisce comprare il minestrone surgelato piuttosto che perdere in lava-e-taglia una mezz'ora di tempo che potrebbe dedicare alla lettura.
Mi ha invece colpita un episodio a cui ho assistito a casa di una mia amica. Questa mia amica era stata costretta dai suoi datori di lavoro a prendere ferie durante la settimana di Ferragosto. Lei l'aveva fatto controvoglia perché lei non voleva andare via in quel periodo e invece tutti gli amici erano via. Si annoiava, a casa, al punto di aver scoperto qualche vecchio libro ed essersi messa a leggerlo, ma senza granché di passione. Sua madre la rimproverava, dicendo che avrebbe fatto meglio a imparare a fare gli orli, perché poi non si sarebbe più trovata a non aver niente da fare.
Ecco, sono rimasta colpita perché mia madre mi avrebbe detto tutto il contrario: mi avrebbe detto di andare in biblioteca a cercarmi qualche bel libro, così non mi sarei più annoiata.
Quello che non mi avrebbe detto mia madre è che gli orli non causano dipendenza, mentre i libri sì. E così ci si può ritrovare con una magnifica influenza intestinale che ti blocca sul water, quasi contenta perché hai la scusa per leggere e non fare nient'altro. Oppure una malattia dei figli (quelle vie di mezzo bastarde per cui non puoi risolvere la situazione con un antibiotico, ma nemmeno mandarli tranquillamente a scuola) diventa un'occasione per leggerti un libro di V.M. Manfredi (che ho scoperto da poco e non mi dispiace), un paio di fumetti francesi arrivati da Amazon e gli ultimi due numeri di Vanity. E per rosicare per il ritardo dell'ordine che hai fatto su IBS e che come sempre ci mette di più di quelli fatti all'estero. E quasi quasi, se non fosse che la PostePay (prudentemente) non la ricarichiamo mai di tanti soldi, ti verrebbe una voglia di tornare su Amazon e ordinare un sacco di altre cose...

lunedì 18 gennaio 2010

Quale cultura?

Sempre a proposito di Baricco (capitemi, mi sto facendo una scorpacciata di vecchie puntate sul Tubo), mi viene in mente un episodio che la dice lunga su tanti argomenti. Un'occasione in cui lì per lì gli diedi torto, e invece oggi non posso che dargli ragione.
È il 1996. Io sono alla fine del primo anno di Lettere moderne. Insieme a un gruppo di compagni di corso, andiamo a sentire Baricco che parla nella sala del Rivellino, al Castello di Pavia. Baricco viene a presentare la sua nuova fatica: non un libro, non uno spettacolo, ma la sua scuola, la Holden.
Penso che la Holden sia stata la prima (e forse l'unica) scuola di scrittura "seria" sorta in Italia (escludo da questo discorso i corsi di sceneggiatura per fumetto, che si appoggiano di solito a scuole di fumetto serie, che erogano principalmente corsi di disegno). Prima di allora, tutti erano convinti che per diventare scrittori bastassero talento e fortuna. Ora il 90% delle persone è ancora convinto di ciò, ma esiste un 10% che vede i benefici di una buona tecnica narrativa (unita alle due doti di cui sopra) e che pensa che per un aspirante scrittore sia il caso di apprenderla.
Baricco sapeva di rivolgersi principalmente a studenti di lettere, che per il 70% sono aspiranti artisti destinati con ogni probabilità al fallimento: eravamo il suo potenziale bacino d'utenza.
E cominciò con una provocazione, dicendo che è inutile restarsene a scrivere la Recherche a 4 km da Pavia, se poi non si hanno le conoscenze per farla pubblicare e conoscere.
Voleva dirci che la sua scuola ci avrebbe potuti trasformare da artistoidi in professionisti della scrittura, perché per vivere di scrittura conta di più una buona tecnica associata a un discreto talento che nessuna tecnica associata a un enorme talento.
Ci esortava, nel caso in cui le nostre aspirazioni fossero quelle, a lasciare l'università per iscriverci alla sua scuola.
All'epoca, come la maggior parte dei miei compagni, mi scandalizzai e gli diedi torto. Oggi, anche dopo aver provato l'esperienza della Scuola di Fumetto, gli posso dare solo ragione: la sua scuola mi avrebbe insegnato tecniche di scrittura professionale e mi avrebbe messa in contatto con operatori del settore, un po' come il master che ho fatto anni dopo per dedicarmi a un settore che non era la mia massima aspirazione (ovvero quello delle nuove tecnologie).
Ciononostante, sono ben consapevole che comunque, anche se avessi pensato che Baricco poteva avere ragione, non avrei potuto seguire quella strada: la Holden costava 30 milioni per due anni, era a Torino e non rilasciava una laurea. I miei non avrebbero mai accettato di pagare 30 milioni a una scuola di scrittura, per poi non avere in mano un titolo di studio "valido", e dovermi pure mantenere per 2 anni in un'altra città.
Nello stesso tempo, penso che la Holden non mi avrebbe dato tutto quel bagaglio culturale che oggi mi torna ben comodo quando sceneggio Viola: non saprei niente di iconologia, di paleografia latina, di tecniche artistiche, di ricerca storica sui documenti, della composizione di una tesi scientifica. Mi mancherebbero insomma molti di quei tasselli che poi sono importanti nella stesura delle storie: quella valigetta degli attrezzi dello scrittore (come la chiama Stephen King) che deve essere piena delle nozioni e conoscenze più disparate, per non scrivere storie sempre uguali a se stesse o, peggio ancora, a quelle degli altri.
Se tra 15 anni uno dei miei figli desiderasse seguire la strada della scrittura professionale, penso che non sarei decisamente contraria alla Holden o a un eventuale suo equivalente, ma credo che sarei cauta nel procedere su quella strada. Forse preferirei che, prima o dopo, ci fosse anche un'esperienza universitaria, anche senza per forza arrivare alla laurea. O forse, se temessi di veder sprecato troppo tempo e/o troppi soldi, cercherei di consigliare loro alcune letture e alcuni corsi con cui integrare gli insegnamenti: imparare solo tecniche di scrittura e dintorni sarebbe troppo riduttivo.
Nello stesso tempo, sono d'accordo con Baricco che la cultura universitaria, da sola, sia insufficiente per esercitare la scrittura come professione: uno scrittore deve essere consapevole delle tecniche narrative e delle possibili interazioni anche non ortodosse con il mondo del lavoro (penso per esempio allo storytelling applicato al marketing).
Soprattutto, penso che sia importante cercare di tirare giù la Cultura dal piedistallo su cui è stata messa e cercare di renderla qualcosa di vivo e di utile, senza pregiudizi nei confronti delle tecniche che possono aiutarci a mettere a frutto il talento di chi vuole operare in questo settore e che non si dovrà mai sentire un artista di serie B per il solo fatto di aver frequentato un corso apposta.
Dopotutto, nessuno si sogna di bollare come "artista di serie B" uno che ha fatto l'accademia di Brera o quella della Scala. L'importante credo sia non sentirsi artisti SOLO per il fatto di aver frequentato Brera o la Holden o la Scuola di Fumetto. E ricordarsi che un conto sono le tecniche, indispensabili, ma che per mettere a frutto le tecniche ci vuole la materia su cui applicarle, e nel caso di un artista quella materia è la Cultura, in tutti i sensi conosciuti.

sabato 16 gennaio 2010

Cultura e intelligenza

Spesso mi capita con alcune amiche, soprattutto quelle che si occupano di scuola da utenti o da professioniste, di discutere della cultura. Ad alcune sembra di vedere un peggioramento rispetto ai nostri tempi, ad altre sembra di vedere meccanismi tutto sommato equivalenti. A dire la verità, però, nessuna di noi vede un miglioramento. Il che già non è confortante.
Sommando l'ignoranza dilagante alla scarsa qualità dei programmi e alla mancanza di risorse degli insegnanti, il quadro che ne esce non è confortante, nemmeno nelle visioni più rosee.
Soprattutto, rispetto ai nostri tempi, mi sembra che la TV si sia tirata molto indietro. E non credo sia questione di fondi (avete idea di quanto costi un reality o anche un talk show?). Credo che, per un motivo o per l'altro, ci si sia convinti che cultura e intelligenza non tirino.
Oddio, ora non immaginatevi che ai nostri tempi ci fosse chissà cosa. Però mi ricordo programmi di attualità come "Fuego" o "Target". Mi ricordo programmi anche apparentemente scemi come "Karaoke" (che lanciò Fiorello, non dimentichiamolo) o "Colpo di fulmine" (che lanciò Alessia Marcuzzi, mi pare), che si basavano sulla leggerezza e il gioco (invece che sui bassi istinti come i reality o i talk show di oggi, che finiscono invariabilmente in rissa), e intanto ti facevano vedere le piazze di tutta Italia perché erano programmi itineranti. C'erano programmi di cinema, come "Ciak", vari programmi di musica ("DJ Television" ve la ricordate, con Gerry Scotti giovane giovane?), c'erano programmi di moda (l'inossidabile "Nonsolomoda"). I giovani sapevano di politica perché guardavano le trasmissioni satiriche di RAI3: "La TV delle ragazze", "Avanzi", "Tunnel". Daria Bignardi conduceva "A tutto volume". Insomma, molti di quelli che oggi sono dei pesi massimi lavoravano nella promozione della cultura o affini. Erano programmi giovani, godibili, con un linguaggio fresco. Erano probabilmente programmi di nicchia, sì, ma più perché erano destinati ai giovani che per essere destinati a un'élite (come potevano essere per esempio le trasmissioni di lirica o di teatro).
E poi c'era lui. Alessandro Baricco. Col suo accento torinese, i suoi capelli arruffati, la sua faccetta pulita e le sue maniche di camicia, ci raccontava l'opera a un'ora assurda, tipo le due del pomeriggio. Mi ricordo che un po' mi vergognavo di questa dipendenza, ma, appena potevo, non ne perdevo un minuto. La tramissione si chiamava "L'amore è un dardo" e, a rivedere alcune puntate sul Tubo, dà ancora un sacco di punti alla trasmissione più intelligente che ci sia in onda in questo periodo. Unico neo: a volte Baricco si metteva delle T-shirt che parevano quelle del caseificio di mio marito. Che è torinese, ha i capelli sempre arruffati e, quando si sbarba, ha la faccetta pulita da ragazzino. Temo che Baricco abbia almeno un matrimonio e due figli sulla coscienza: i miei.
L'anno dopo, Baricco passò ai libri, con "Pickwick", che religiosamente seguivo la domenica sera tardi (a un orario che oggi mi parrebbe quasi mattina). Ho riempito intere pagine con gli appunti dei libri da leggere: "Il giovane Holden", "Bartleby lo scrivano", "Voci di muto amore", "Il poeta continua a tacere", "Il vecchio e il mare". Li raccontava smitizzandoli, senza farti pesare che fossero classici o che ci fosse una cultura da difendere. Te li raccontava come un amico ti avrebbe raccontato il film che era andato a vedere al cinema e che gli era piaciuto un casino.
Non so come e se gli uomini guardassero le trasmissioni di Baricco, ma noi femmine restavamo incollate allo schermo non tanto e non solo per amore della cultura, quanto per l'azione dell'ormone: Baricco univa (e unisce) diverse tipologie di uomini che per molte di noi sono irresistibili (il bravo ragazzo, l'insegnante, lo scrittore, il tutto sempre con quest'aria furbetta e divertita). E dire che i suoi libri non è che mi siano piaciuti poi chissà come: carini, ma non li trovo imperdibili. Gli scritti tipo "Barnum" invece li trovo godibilissimi e intelligenti, rispecchiano lo stile delle sue trasmissioni e dei suoi spettacoli. Il film, "Lezione 21", non l'ho proprio visto, ma stimo il modo in cui, da musicologo, ha sempre portato avanti la promozione della musica, soprattutto la classica e la lirica.
Oggi Baricco fa sporadiche apparizioni in TV. L'ho visto da Fazio, dove ha raccontato la storia di "Carmen" per uno speciale sulla prima della Scala. Ho seguito le sue proposte e le sue provocazioni, e le ho trovate giuste.
Oggi, forse per mancanza di finanziamenti ma soprattutto per miopia dei dirigenti, non c'è nessuno come lui in TV. Lui mi manca, ma la sua funzione sulla mia generazione l'ha esercitata. Sogno un nuovo giovane, scrittore o musicista o "semplicemente" divulgatore", che sappia raccontarci cose intelligenti e piacevoli con lo stesso fare da incantatore. Che sia uomo o donna non mi interessa: noi avevamo Baricco, ma non è obbligatorio rivolgersi alle donne per fare cultura. Dopotutto, l'arte di narrare è prettamente femminile e non a caso Sheherazade era una donna.

martedì 12 gennaio 2010

Vicini e lontani

Leggo un post apparentemente banale, di auguri di buon compleanno di una mamma al suo bambino "preferito" (so che è un brutto termine e non esprime pienamente la gamma dei sentimenti, ma passatemelo).
Valentina dice una cosa che mi colpisce: che ama Mattia alla follia perché le somiglia. E rivela di avere un ottimo rapporto per se stessa, cosa per cui la stimo assai, perché il mio primo pensiero, quando parlo di mie somiglianze con i miei figli e i miei genitori, va ai difetti.
Infatti, nel commentare, le ho scritto che Ettore mi piace così tanto proprio perché somiglia più a suo padre. Ma è così vero?
In realtà forse la cosa che amo di più di Ettore è il suo essere maschio: semplice, diretto, con bisogni ben individuabili e umori stabili (di solito più tendenti al bello). In questo forse somiglia un po' anche a me, che sono una femmina atipica e non troppo complicata: non sono mai stata una da tormenti esistenziali, anche se poi l'ormone non può che seguire il ciclo mensile e portarmi degli sbalzi d'umore.
In più, Ettore è un maschio tranquillo. Non una salma: si diverte, gioca, urla e ride, ma non in un modo marcatamente superiore ad Amelia o a una qualsiasi femmina sana. Ma ha anche tanti momenti in cui gioca tranquillo, magari da solo, impegnatissimo e concentrato, soprattutto se sta facendo qualcosa di proibito e noi non ce ne siamo accorti. E questo mi ricorda ciò che mi dicono di me da piccola, ma soprattutto mi ricorda Luca com'è ora e mio nonno Pino come l'ho conosciuto da bambina.
Come Luca, anche Ettore è un testone. Come me, ama i libri e la cucina da sempre, mentre Amelia si è appassionata ai libri e ai giochi di imitazione solo nell'ultimo anno (e qui vai a sapere quanto abbia influito l'imitazione reciproca e in quali direzioni). Come entrambi, è uno che cede improvvisamente quando la sua resistenza è al limite (infatti mio padre lo chiama "il narcolettico").
E se dovessi trovargli dei difetti? Direi che è un po' poco flessibile, come Luca. Che quando si incazza dà in escandescenze, come me. Che è appiccicoso e geloso, come me. Che è un po' monomaniaco nelle sue passioni (vedi Pingu), come entrambi. Che tende a sovradimensionare le proprie capacità e forze, come me (ma forse è normale quando sei il più piccolo e vedi tua sorella che fa tranquillamente certe cose).
Sospendo comunque il giudizio su tante cose, perché Ettore è in quell'età che a me piace proprio tanto (non sono ancora cominciati i terrible twos) e quindi rimanderei un bilancio alla fine del periodo maledetto.
Amelia invece ha la sfiga di essere proprio in quell'età che odio. Il problema è che ci resterà probabilmente per i prossimi 15 anni, omioddio!
Da subito la personalità di Amelia si è profilata completamente diversa da quella di Ettore. La prima cosa che mi verrebbe da scrivere è che Amelia è molto più incazzosa e umorale, per motivi a volte inconsistenti, ma non voglio che ne risulti una contrapposizione tipo lui bravo / lei cattiva.
Amelia, quando era figlia unica, non mi sembrava niente male, e molti pregi di allora li conserva: è molto socievole, non è per niente gelosa, è trasparente ed estroversa, ha un talento musicale ed espressivo notevole. Sono doti che, a parte l'assenza di gelosia (tratto tipico di Luca), non riconosco granché in noi due, se non a tratti.
I difetti di Amelia, invece, hanno nome e cognome, tanto possono essere rintracciati in noi e dintorni. Amelia è stizzosa e incazzosa, come me e mia madre, e come lei è piena di piccoli fastidi (e questo mi fa andare fuori di senno, perché quando si trovano insieme si potenziano a vicenda). È incostante e umorale come mio padre, al punto (nei momenti peggiori) di farmi sospettare che sia bipolare. È possessivissima con le sue cose, come mia madre e mia nonna. E potrei continuare, rimestando principalmente nella mia famiglia (e quindi in me stessa) alla ricerca di ciò che non mi piace in lei.
Ecco, no, c'è una cosa di Amelia che mi fa impazzire di frustrazione e non mi appartiene: tende a perdersi e dimenticare, come Luca. Non essendo tendente alla monomania, non riesce a finalizzarsi neanche quando qualcosa sembra interessarle: molla, divaga, aspetta e infine dimentica quello che voleva fare.
Per dire: se Ettore decide di fare il gioco degli incastri ed è da solo (= senza nessuno che lo aiuti), ci dà dentro finché non riesce. Amelia si stufa e molla, ma non perché le manchino le capacità: le manca il metodo e non le interessa più di tanto acquisirlo. Più da grande, rischierà di diventare come me, che vivo più di entusiasmo che di costanza, che sono felice fintanto che imparo e cresco ma, quando la situazione si appiattisce, tendo a sedermi anch'io.
Ecco perché dico che per Amelia sarebbe più adatta una scuola steineriana e per Ettore una montessoriana. O magari il contrario, nella speranza di tappare qualche falla.

Il riconoscere me stessa e la mia famiglia nei difetti e nei pregi dei miei figli mi pone anche un'altra domanda: quanto è positivo l'homeschooling in quest'ottica?
Nel senso: come ho detto altrove (qui e in un triliardo di commenti sparsi), io non mi sento inadeguata a passare nozioni importanti ai miei figli. Voglio dire: fino alle superiori, me la cavo nelle materie umanistiche (ecco, forse il greco l'ho un filo perso...). Non per niente potrei tranquillamente insegnare, vista la mia laurea.
Nelle materie scientifiche, sono più dubbiosa: penso che fino alle elementari renderei abbastanza bene, soprattutto in biologia e in tutto ciò che è connesso alla natura. Per il dopo, ci sarebbe Luca, almeno fino alla fine delle medie: non per niente alcune sue compagne di corso insegnano matematica e scienze.
Senza false modestie, penso che i miei figli potrebbero fare a meno della scuola fino alle medie (se noi potessimo fare a meno di lavorare, s'intende), perché in casa avrebbero insegnanti adeguatamente preparati.
Quello che mi mancherebbe della scuola sarebbe il confronto con gli altri. Non solo l'aspetto sociale tra bambini, che per loro è importantissimo. Ma anche e soprattutto lo sguardo e la guida di persone diverse da noi, che stanno fuori dal circolo dei nostri pregi/difetti di famiglia.
È vero che non ho gradissima stima intellettuale né delle educatrici del nido né delle maestre d'asilo con cui ho avuto a che fare finora (e spero di essere smentita nelle mie prossime esperienze!), ma già il fatto di essere diverse da noi le rende adatte a frequentare i miei bambini: hanno altri difetti, altre priorità, altri pregi e altre storie. E tutto questo non può che arricchirli.
Spero tanto che in futuro anche le qualità professionali di queste persone si innalzino, che il divario si accorci e che i miei figli si trovino ad essere istruiti da persone colte e competenti, non solo affettuose (nel dubbio, però, preferisco affettuose e ignoranti: ho avuto una maestra bravissima ma umanamente infima). Spero che i miei figli trovino i grandi maestri che ho incontrato io (magari un po' più presto) e che questi siano in grado di vedere in loro ciò che io non riesco a valorizzare, di dar loro prospettive che io non riesco a vedere e speranze che non posso alimentare.
Forse quel giorno sarò un po' gelosa e un po' invidiosa, o forse coglierò l'occasione per lavorare ancora un pochino su di me.

lunedì 11 gennaio 2010

Il pudore e la privacy

Stranamente, mi sono accorta in tempi abbastanza brevi dell'argomento di attualità più dibattuto: i bodyscanner.
E la prima cosa che mi è venuta in mente è: ma un aereo deve saltare in aria perché qualcuno non si vuol far vedere nudo? Ma chissenefrega!
La seconda cosa che ho pensato è: ma uno deve rischiare di prendersi delle radiazioni gratis perché qualche idiota vuole far saltare in aria un aereo? Se ci si pensa un attimo, è follia pura.
Più in generale, questi e altri fatti hanno suscitato delle considerazioni in una blogger che leggo assiduamente.
Partiamo da un presupposto: io non ho paura. O meglio, ne ho, ma ne ho molta di più di un incidente stradale o di un tumore. E cerco di far mio il motto di Isabella d'Este: Avere paura non serve. Serve essere prudenti e vigili, serve essere coscienti del pericolo e contrastarlo. Ma, se si mettono di mezzo le emozioni, si rischia sempre di deragliare.
Per esempio, io posso capire che a una con un sacco di ciccia e le tette cascanti possa dar fastidio che un signor Nessuno se la possa guardare su un monitor. Ma, se questo serve a prevenire un pericolo, non deve essere né più né meno che un esame salvavita, come una mammografia o una TAC. Stia ben tranquilla, la persona infastidita, che anche al signor Nessuno non fa piacere veder sfilare centinaia o migliaia di persone al giorno, di cui un buon 90% non certo piacevole da guardare.
È un po' come quando gli uomini fantasticano sulla professione di ginecologo: di primo acchito pare la più fantastica del mondo, ma, se penso alle pazienti che incontro di solito in sala d'aspetto, non mi sembra che ci sia da esserne entusiasti (di solito sono o incinte o in prossimità della menopausa).
Quindi, mettiamoci il cuore in pace: qualsiasi sia il nostro grado di pudore e di fastidio nel mostrarci, credo che chi ci guarda non provi maggiore piacere.
Detto questo, penso anche alla paura di chi non si espone sui propri blog, cercando di risultare il più anonimo possibile. Io non vedo il blog come una mia vetrina, ma neppure come un burqa sotto cui celarmi.
OK, ho un nickname e addirittura due blog. Ma, scavando proprio poco poco, si può arrivare tranquillamente non solo al mio nome, ma anche al posto in cui vivo.
OK, non pubblico volentieri foto mie. Ma, credetemi, è soprattutto perché ne ho pochissime in cui sono decente e quasi nessuna in cui sto bene. E poi, a che pro pubblicare foto della sottoscritta? Lavorate un po' di fantasia, dai!
OK, non pubblico quasi mai le foto dei miei figli, né qui né su FB. È perché penso che la loro immagine sia solo loro, e che saranno loro a eventualmente dirmi se vogliono comparire in rete, quando potranno comprenderne il significato. Ciò non toglie che ogni tanto me ne scappi una, magari d'annata.
E quindi? Quindi scrivo i miei pensieri come li comunicherei in una conversazione con uno qualsiasi di voi. Non svelo segreti e non faccio confidenze. Questo non è un diario segreto: è una specie di raccoglitore di editoriali e rubriche che nessun giornale serio pubblicherebbe. Mentre Il Mignolo col Prof è la pagina umoristico-culinaria.
Qualcuno mi ha messo in guardia rispetto al pericolo che qualcuno rubi le mie idee su Viola. Non crediate che non ci abbia pensato, quando ho pubblicato i soggetti. Il fatto, però, è questo: o me le ruba uno bravo, che le sviluppa bene e fa successo, o me le ruba un cretino, che le sviluppa male e magari pubblica solo perché è il cugino di. Nel primo caso, sono solo contenta che qualcuno prenda spunto da me per confezionare un prodotto bello e ben fatto. Nel secondo caso, è come se non mi avesse rubato niente, perché quella schifezza che lui è riuscito a farsi pubblicare non c'entra niente con quello che ho concepito io. La faccio un po' facile, è vero, ma questo è il pensiero che mi ha fatto scegliere di condividere con voi quello che scrivo, nella speranza non solo di farvi piacere, ma anche di trovare un aiuto nella ricerca del disegnatore e dell'editore.
Qualcun altro mi ha fatto presente che sul web ci sono persone che, di fronte a foto innocenti come quelle di bambini o di mamme in allattamento, si arrapano perché sono dei pervertiti. Io penso che i pervertiti lo siano anche fuori dalla rete, ma che non ce ne accorgiamo perché non lasciano traccia del loro passaggio. Personalmente, anche se non ci trovo niente di male, non pubblicherei mai una foto di me a seno nudo, così come difficilmente mi farei vedere da un estraneo. Ciò non toglie che, se mi devo spogliare in spiaggia per indossare il costume e non c'è una cabina, non ho particolari problemi a farmi vedere nuda per quei pochi attimi, ma nemmeno pratico il nudismo integrale su una spiaggia non nudista.
[Apro una parentesi: non ho niente contro il nudismo integrale, ma non potrei mai praticarlo. Se non c'è il sole, sono freddolosa. Se c'è il sole, ho paura di scottarmi le parti mai esposte. Chiusa la parentesi.]
Per gli stessi motivi non lascio volentieri che i miei figli si aggirino nudi, se ci può essere qualche estraneo. Lo so che le spiagge sono sempre state strapiene di bambini nudi, ma a me non va. Preferisco che i miei figli sappiano che c'è una differenza tra quello che si può mostrare in casa e quello che si può mostrare "fuori". Senza ridursi a cose ridicole come il bikini per bambine di 2-4 anni, per carità. E senza giudicare male chi fa diversamente, lungi da me.
La verità è che sul web non dico e non mostro più di quello che mostrerei nella mia vita reale, quindi non mi sento di tutelarmi molto di più di quanto faccio nella vita reale.

domenica 10 gennaio 2010

La peggio

Flashback sulla me stessa del lontano 1996: eravamo in traghetto greco, io e la mia amica N. che poi è diventata la mia testimone di nozze. Andavamo a Mykonos con un gruppo di ragazze modenesi conosciute a Rodi l'anno prima. Le ragazze modenesi, che erano brave e buone (proprio di loro, non per posa), erano probabilmente sottocoperta. Io e la N. invece stavamo all'ultimo ponte a conoscere due bei ragazzi, uno di Bologna e uno di Empoli, uno biondo e uno moro. Anche se giorni dopo io sono quasi finita a letto con quello moro e la N. ha limonato duro con quello biondo, tra noi 4 non c'è mai stato nient'altro che un bel rapporto di amicizia, scherzi e goliardia.
Tra me e la N., era la N. ad essere la pià appariscente: esplosiva, sboccata, rumorosa. Però il moro mi addocchiò subito e mi disse, con cadenza toscana: Anche se non sembra, sei tu la peggio.
Fine del flashback.

Oggi, 13 anni e mezzo dopo. Spediti i bambini dai nonni e assente giustificato il marito per un giretto da Viridea, potrei approfittarne per mettere un po' a posto, pulire o almeno disfare l'albero di Natale. Ma dalla finestra filtra un bel sole, dopo due giorni di piogge monsoniche. Le mie gatte sono tranquille, dopotutto la casa è ancora in un disordine controllato. Ho messo su una lavatrice, tanto per mettermi a posto la coscienza. E allora a malapena mi lavo e mi vesto, tra un giro e l'altro su Internet.
Capito su un blog di alimentazione vegetariana e penso sconsolata al mio peso. Penso che già raggiungere il peso che ero quando sono andata dalla dietologa un anno e mezzo fa sarebbe un successo. Mi consolo pensando che questo è l'effetto dell'aver abbandonato la danza, se riprendessi perderei tutto in un attimo. Ma chi voglio ingannare? Non ho più voglia di sbattermi ad andare a Milano, ho voglia di restare imbozzolita in casa mia. Ho voglia di scrivere Viola, di rivedere quello che ho scritto e immaginare un futuro per lei. Ho voglia di rileggere pigramente le cose del passato, e accorgermi che, con un ritocco qua e un puntello là, hanno ancora un valore: non mi capita più di vergognarmi di ciò che ho scritto tipo 10 anni fa, mentre invece da adolescente mi vergognavo di ciò che avevo scritto 6 mesi prima. Credo di essere diventata vecchia, accidenti: infatti stamattina le pieghe del cuscino mi sono rimaste parecchio tempo dopo essermi alzata.
Vecchia, sì, ma con l'appetito e la gola di una bambina. Penso alle rinunce culinarie che mi aspettano nei prossimi mesi. Lo so che con una dieta vegana e integrale ci metterei un attimo a perdere gli infiniti chili che mi si sono affezionati. Ma, diciamocelo, la vita è già dura così com'è: perché togliersi la consolazione (badate che non ho detto gratificazione) del cibo? Io non riesco a coccolarmi con un'insalata. Per me coccolarmi significa concedermi una colazione tè al limone e focaccia (ehi, però questo sarebbe vegano!). Oppure (si chiudano le orecchie gli amici vegetariani all'ascolto) mangiarmi un etto di trita cruda di cavallo mentre faccio le svizzere da surgelare. Oppure spalmare un buon pane morbido e bianco di gorgonzola cremoso. Non lo faccio tutti i giorni, ma l'idea di non poterlo fare mi spiazza. Una vita senza gorgonzola non mi pare degna di essere vissuta.
Certo, quando ero a casa in maternità con Ettore sono riuscita a seguire una dieta senza che mi pesasse e a perdere qualche chilo. Ma, a parte che penso che il più l'abbia fatto il soggiorno a Chiavari, con i quotidiani km a piedi, non posso ignorare che ero a casa con i miei bambini, ignara dello schifo che avrei trovato di ritorno al lavoro, senza ritmi né obblighi se non quello di godermi un po' di mare.
Oggi mi sveglio alle 5.30 e sono sempre di corsa per riuscire a fare tutto, fino alle 16.15 quando esco dall'ufficio, corro a prendere i bambini e, una volta a casa, mi dedico a loro e/o alla cena e/o a quello che mi interessa fare. Non riesco proprio, come facevo allora, a dedicare al cibo gran parte del mio tempo libero: mi sembra uno spreco.
Comunque sappiate che sono le undici, i bambini sono usciti di casa da un'ora e mezza, Luca è tornato da circa mezz'ora e nessuno dei due ha ancora mosso un dito per fare il nostro dovere.
A 13 anni di distanza, sono ancora la peggio. E mi sono pure accompagnata a uno che se la gioca con me.

giovedì 7 gennaio 2010

Di ritorno

Siamo andati e siamo tornati, anche se avremmo voluto rimanere là. Non tanto per l'ozio o per il bel tempo (le avete viste le notizie sulle mareggiate in Liguria? e la neve? e gli acquazzoni?). Per il mare, ché già a sapere che ce l'hai vicino ti senti meglio.
Siamo stati bene, ci siamo rilassati, abbiamo camminato tanto, abbiamo mangiato tanto e abbiamo visto cose vecchie e cose nuove.
I bambini hanno visto che si può vivere in un altro modo, e non solo d'estate. Sono scesi con noi a comprare il pane (e la focaccia e le trofie) tutti i giorni, anziché vederselo fare in casa. Hanno vissuto il piacere di andare a piedi a prendere il giornale, di fare le commissioni senza mai salire in macchina (al massimo in passeggino). Hanno avuto la possibilità di giocare con la sabbia senza essere in costume e di guardare a bocca aperta i surfisti (infatti Ettore per una settimana appena sveglio diceva "mare, onde", per indicare che voleva andare al mare a guardare le onde). Hanno riso e applaudito con noi, vedendo 85 persone coraggiose buttarsi in mare per il primo bagno dell'anno.
Hanno rimpianto con forza un solo aspetto della loro casa "di pianura": le gatte. Amelia ha cominciato a chiedermi delle gatte già due giorni prima di partire. Io invece ho preso quest'assenza come un'occasione per disintossicarmi da tutto ciò che stava raggiungendo i livelli di guardia: le marcature, i furti di cibo, i vomitini e/o i resti di prede sparsi in giro, le incursioni nel rudo.
Oggi sono in ufficio e faticosamente rientro nella routine. Stasera mi piacerebbe riuscire a caricare le foto di questi giorni su Flickr: niente di spettacolare, ma una bella occasione per rivederle insieme a Luca e ai bambini.

Aggiornamento: ecco le immagini.