venerdì 30 aprile 2010

Senza famiglia

In questo periodo, seguo un ciclo di terapie per il collo, che si è tutto contratto in seguito all'abbandono della danza (quando fai un'attività fisica, abbandonarla ti fa più male che lasciare uno psicopatico picchiatore). Il mio fisioterapista è un gran chiacchierone, un uomo con un sacco di interessi e che ama parlare di tutto. Un po' narcisista e saputello, ma piacevolissimo.
Commentando con lui la cronaca di questo periodo, siamo finiti a parlare della pedofilia dei preti. Ora, io su questo argomento non ho proprio da dire niente di personale: l'unico pedofilo che ho conosciuto (per fortuna superficialmente) era il papà di un mio compagno delle elementari, mentre i preti che ho frequentato fino ai 14 anni sono sempre state persone esemplari. In particolare, ricordo il parroco del mio paese, don Anselmo: una persona coltissima, ricca di umanità, sempre disposta al dialogo e alla comprensione, ma anche molto pratica nel raccogliere i soldi per ristrutturare il vecchio cinema e farne un oratorio come si deve. Una persona che si azzardò pure a farsi parecchio criticare dalle beghine perché offriva agli adolescenti gli spazi per fare feste tipo discoteca, proprio sotto la chiesa (c'era una specie di cripta non comunicante con la chiesa).
Insomma, non si può proprio dire che io mi sia allontanata dalla religione per colpa dei preti. Penso però che i preti si siano allontanati da me e da gran parte delle persone normali. Perché? Perché essenzialmente hanno un capo a cui interessa più la politica che non un'azione reale sulla società: altrimenti parlerebbe di mafia, di legalità, di diritti umani e di immigrazione, anziché continuare a menarla sull'aborto e sulla contraccezione. Non contesto il diritto del papa a pensarla come la pensa, intendiamoci. Solo penso che un parroco abbia a che fare con tutti i problemi del proprio territorio, e che in un territorio qualsiasi le persone in difficoltà per motivi legali o sociali siano molte di più di quelle che devono decidere in merito a un aborto.
Oltretutto, spesso la gente di oggi non si rivolge al prete perché spesso ha problemi di famiglia, e un prete una famiglia sua non ce l'ha. Per non intralciare la vocazione, dicono. Ecco, questa mi sembra un'obiezione davvero ridicola.
Lasciando perdere i sacerdoti e simili di quasi tutte le altre religioni, che si sposano senza scandalo di nessuno, mi chiedo: ma la vocazione di sacerdote richiede più impegno di quella di un medico? Dopotutto, un sacerdote medio ha da fare come se fosse un impiegato di sportello: dice la messa, si divide tra chiesa e oratorio, magari rimedia qualche insegnamento di religione o di altre materie. Ci saranno, per carità, situazioni in cui viene chiamato a tarda notte per dare l'estrema unzione a qualcuno. Ma vogliamo mettere con la fatica, la dedizione e l'impegno che vengono richiesti a un medico, fin dall'università? Sei anni di studio, e insieme i tirocini, e poi la specialità, e poi i turni e/o la libera professione. Certo, alla fine di tutta questa trafila, il medico ha la speranza di guadagnare bene, ma nel frattempo si è fatto un culo così. Molto di più di un sacerdote medio.
Eppure, nessuno si è mai sognato di pensare che i medici farebbero meglio a non avere una famiglia. Certo, sarà difficile averne una e starci dietro, soprattutto se si tratta di un medico donna, ma non mi risulta che qualcuno abbia rinunciato ad avere un coniuge e dei figli solo per il fatto di essere medico.
Oltretutto, così come io sono più contenta che la mia ginecologa abbia dei figli, magari una persona che si vuole confidare è più contenta di farlo con un prete che può immaginare che cosa significhi avere una famiglia, una compagna, dei figli. Insomma, l'obiezione di tutti al corso prematrimoniale è: che cosa può insegnarmi un prete sulla vita coniugale, se non ne ha mai avuta una? Per carità, facendo un paragone molto stretto, dovremmo preferire un oncologo che ha avuto il cancro e un allergologo che soffre di asma. Ma perché no? Forse un medico che ha provato quella malattia sarà migliore nel trattare la nostra, o almeno ci metterà più umanità.

giovedì 29 aprile 2010

I figli insegnano

Anche se non ho intenzione di cercare un altro lavoro (annidata come sono nel posto statale), ho aderito all'iniziativa Il CerVello di mamma e papà.
Onestamente, non ho ancora cercato un'azienda a cui mandare il mio CV, ma ho una gran voglia di farlo, anche solo per vedere quanto "valgo" ancora nel mondo là fuori.
In questi giorni, quindi, ho cominciato a chiedermi qual è stato l'insegnamento più grande che ho tratto dalla maternità. E la prima cosa che ho pensato è che i figli mi hanno insegnato qualcosa sì sui miei pregi, ma anche sui miei difetti. Per esempio, su quell'opportunismo che Luca conosce bene tutte le (poche) volte in cui c'è da alzarsi di notte e io prometto mari e monti pur di non farlo io. Oppure su quell'insofferenza che è pronta ad esplodere ogni volta che la mia corda è troppo tirata. Ecco, però questi sono difetti che ho sempre rintuzzato sul lavoro, e che probabilmente da qualche parte si devono pur sfogare.
Le cose belle, d'altro canto, ci sono e sono tante.
La prima che mi viene in mente è che la famiglia nella mia testa è come una squadra e come tale viene gestita. A differenza di una squadra "classica", la mia famiglia non ha un leader, ne ha due, perlopiù intercambiabili. Io e mio marito abbiamo opinioni differenti su molti argomenti, discutiamo spesso e a volte arriviamo al litigio vero e proprio. Ma, di fronte alle esigenze della famiglia o di un suo membro, facciamo squadra mettendo da parte ogni dissapore: diventiamo efficienti, veloci, lucidi.
Siamo anche consapevoli delle spinte interne della famiglia, ovvero del fatto che le "lotte di potere" non coinvolgono solo noi grandi: ogni membro della famiglia, pur magari non aspirando consapevolmente al comando, cerca sempre di imporre la propria volontà e la propria opinione sugli altri. Mantenere l'equilibrio senza scatenare una guerra perenne impone doti di organizzazione, negoziazione e tranquilla fermezza che a 25 anni non possedevo di certo.
Questa impostazione ha una ricaduta anche sul lato casalingo: vivere la famiglia come una squadra significa che non sono io povera schiava a sobbarcarmi tutti i lavori domestici, ma ciascuno è almeno minimamente responsabile per la sua parte. Al momento, ciò significa essenzialmente che io e Luca ci dividiamo i lavori. Però ci sono le basi perché in un futuro spero non lontano i figli riempiano la lavastoviglie, passino l'aspirapolvere almeno dove è più facile, aiutino a mantenere la casa in modo decoroso.
Quindi, avere una famiglia mi ha anche aiutato ad avere una visuale più lunga, a relativizzare il presente in funzione del medio e lungo periodo. È una dote che è indispensabile applicare nei momenti decisivi, quando si fanno scelte (tipo la scuola) che avranno conseguenze per molti anni a venire.
Si sbaglia, eccome, ma si impara anche a non avere paura di sbagliare e a riparare senza dover ricominciare da capo per forza. Si impara soprattutto a non prendere lo sbaglio sul personale ("sono una frana, non ne faccio mai una giusta" oppure "ma non dipendeva da me"), bensì a osservarlo freddamente e capirne le ragioni oggettive (tipo "ho fatto questo perché non avevo una certa informazione, la prossima volta mi informerò anche su questo argomento prima di agire").
Infine, c'è qualcosa che i miei figli non sono ancora riusciti a insegnarmi? Penso che, anche se sono migliorata parecchio, la pazienza non sia ancora una dote che posso vantarmi di avere. E nemmeno la costanza, se devo proprio dirla tutta.
Ci lavoreremo: c'è ancora un pezzo di vita per farlo.

mercoledì 28 aprile 2010

Il blues del casellario

Ci sono giorni, nella vita di una come me, in cui sarebbe tanto comodo e rassicurante avere un posto in una casellina, e in una sola.
Mi chiedo come sarebbe, per esempio, essere come la Fata del Bosco [vicina di casa ribattezzata così per la sua mania di notare quando, chi e come fa rumore, lei compresa - N.d.A.]. La Fata del Bosco è per me l'immagine del mainstream: lavoro statale, bambine affidate a sua madre quando non vanno a scuola, in procinto di traslocare in casa di proprietà vicina a quella di sua madre, mai un cinema o un teatro al massimo una pizzeria, in casa presto perché bisogna cucinare e lavare le bambine (di 4 e 7 anni), mai vista con un libro in mano ma in compenso sa tutto di TV e gossip. Lei la spesa la fa al supermercato e non gliene importa una beata fava di vivere nella cascina biodinamica: sì, c'è un'aia bella grossa dove le bambine possono andare in bici, ma il paese è meglio. Ca va sans dire che le sue figlie vedono le mucche con la stessa frequenza dei bambini di città, perché le stalle puzzano e ci si sporca.
Normalmente non la invidio, anzi, però ci sono giorni in cui la testa mi fuma per lo scontro delle mie tante anime. La sua testa, invece, sa sempre cosa pensare: la cena, i compiti, la pediatra, le vacanze da prenotare.
Alla diversità, lei reagisce nel modo meno faticoso: la elimina, la ignora. Io invece ne sono attratta, la studio, la faccio mia. Qualsiasi diversità, anche quella del pulotto che mi fa la piazzata contro gli extracomunitari senza sapere che ho una cognata africana e ne sono ben contenta.
Mi andrebbe bene anche una qualsiasi altra casella: quella della direttrice del nido di Ettore che dedica anima e corpo al lavoro e in questo si realizza, oppure quella dell'amica alternativa in contatto con l'anima dell'universo che abbraccia gli alberi.
E invece io sono lì davanti al casellario, con un pezzetto in quasi tutte le caselle, sempre affannata ad evitare di perderne qualcuno e sempre un po' preoccupata che qualcuno mi prenda per falsa: com'è possibile che tu mi dia ragione su una cosa e che poi tu decida di fare quell'altra? Gesù Cristo, in cui non credo ma che stimo abbastanza, dice che non si può servire Dio e Mammona contemporaneamente. Beh, in effetti non servo nessuno se non me stessa. Con tutte le conseguenze del caso.
E così chi si aspetta che io usi farmaci omeopatici si trova nei miei armadietti ibuprofene e antibiotici. Chi si aspetta che io guardi la TV la trova muta e limitata, senza neanche un decoder. Chi si aspetta che io ami gli animali (ed è così) mi trova ad abbuffarmi alle grigliate. Magari c'è persino qualcuno che si aspetta che io sia una maliarda orientale, e si trova una rotondetta con occhiali e Birkenstock.
La casella per me non c'è. O meglio, ci sarebbe se demolissi tutti i tramezzi tra le caselline, facendo di tutto il casellario un'unica grande casella. Per me non c'è una casella: c'è un open space.
E dire che, sedere a parte, non occupo neanche tutto questo spazio.

giovedì 22 aprile 2010

Bianco e nero

Recentemente, mi è capitato di rivedere su YouTube dei brani di un Otello che ho molto amato: quello di Zeffirelli, diretto da Lorin Maazel e cantato da Placido Domingo e Katia Ricciarelli (che, al di là di quello che ha fatto in TV negli ultimi anni, è stata una cantante spettacolare - cercatela nell'Aida di Karajan per scoprire di quali eleganze vocali è capace).
Ecco, per me Otello, nonostante abbia letto anche l'originale di Shakespeare, è quello verdiano. Forse perché la musica è di un livello inarrivabile: ricca, sontuosa, capace di variare tema ogni 2 minuti ma anche di usare dei leitmotiv "alla Wagner". O forse perché l'Otello di Verdi estremizza le situazioni narrate da Shakespeare: qui Iago è un vero e proprio manipolatore, che non si limita ad accendere la miccia della gelosia ma guida Otello per mano fino alle estreme conseguenze. Un po' quello che succede con Lady Macbeth: suggeritrice in Shakespeare, regista in Verdi.
Molti vedono Otello come un'opera che parla di razzismo, quindi magari un po' lontana, superata: a parte alcune frange di deficienti, credo che tutti siamo d'accordo sul fatto che un nero possa fare la stessa carriera di un bianco e che un africano possa sposare una veneziana, se lo desiderano entrambi.
Io vedo Otello come un'opera che parla di tutti noi: dei mostri che possono essere generati dall'insicurezza e dalla mancanza di comunicazione, nella nostra vita di tutti i giorni.
Otello, al di là di essere un rinnegato moro del '500, è l'emblema di molte persone che conosco, me compresa per certi versi: partito da una posizione svantaggiata (essere ex schiavo e di un'altra razza non doveva essere proprio agevole nella Venezia dei Dogi), ha conquistato una posizione di spicco solo con le proprie forze e inanella un successo professionale dietro l'altro. Nella vita privata, ha sposato dopo diverse traversie una donna splendida, che gli viene invidiata da molti.
Eppure, basta un niente per insinuare in lui il tarlo della gelosia, che non è altro che l'altra faccia dell'insicurezza.
Otello non è un geloso da Cavalleria Rusticana: dell'onore non gli interessa nulla. Lui è ossessionato dall'idea di non meritare la propria felicità, ha sempre un retropensiero del tipo "un giorno lei aprirà gli occhi e vedrà che non sono altro che un selvaggio dalle gonfie labbra, e se ne andrà col primo che passa".
Ovviamente, per lui non conta niente il fatto che Desdemona sia stata rinnegata dal proprio padre, potente nobile veneziano, per aver voluto sposare (non scopare) il "selvaggio", quando avrebbe potuto tranquillamente sposare un qualsiasi belloccio veneziano e tenersi l'amante africano. L'insicurezza gli benda gli occhi, Otello non riesce ad essere razionale su questo punto.
E ovviamente non bada neanche a fatti che in un giallo sarebbero fondamentali, tipo: ma come potrebbe il famoso fazzoletto essere stato donato da tempo a Cassio come pegno d'amore, se poco più di due ore fa Desdemona l'ha usato per fasciarti la fronte? E perché Desdemona avrebbe dovuto seguirti a Cipro, mentre avrebbe potuto restarsene a Venezia a farsi sbattere indisturbata da Cassio? E ancora: ma perché una che si è appena sposata con te, lottando contro il mondo per farlo, dovrebbe avere già un amante? Ma dalle almeno un annetto di tempo!
Dall'altro lato, certo che Desdemona è il classico esempio di un personaggio che non fa altro che fomentare questa incertezza, trincerandosi dietro questa esagerata ingenuità. Insomma, parliamoci chiaro: se vostro marito cominciasse di punto in bianco a fare allusioni, in crescendo, arrivando a chiamarvi "puttana" in pubblico, non lo affrontereste a muso duro chiedendogli che diavolo gli è preso? Desdemona no, subisce senza capire, come se fosse una cosa normale che uno il giorno prima ti ama alla follia e il giorno dopo ti butta per terra davanti agli ambasciatori di Venezia. E qui, secondo me, si genera un forte equivoco: una che subisce un certo comportamento senza fiatare magari sa di meritarselo. O almeno sa perché la tratti cosù. Lei invece no, sta lì, piange e basta. Cerca la spiegazione quando ormai è troppo tardi, perché lui ha deciso di ucciderla.
Ecco, un'altra cosa che non ho mai capito di Desdemona: hai capito che tuo marito ti vuole uccidere, hai capito anche perché e sai di essere innocente. Ma allora perché non cerchi di sfruttare quel breve tempo a tua disposizione per farti spiegare in modo circostanziato le accuse che ti rivolge? Accidenti, se la mia vita fosse a rischio, penso che in 10 minuti terrei un'arringa difensiva che neanche Perry Mason! E lui magari mi ucciderebbe per farmi tacere...
Desdemona invece si limita a dire di essere innocente, Otello non ci crede (se fossimo in un thriller americano, ci starebbe bene la frase "lo dicono tutte", il che trasformerebbe Otello in Barbablù) e la strangola nel suo talamo nuziale. Poi arrivano tutti gli altri e lui scopre di aver fatto un'enorme cazzata, tanto più che, ragionandoci un attimo, poteva arrivare da solo alla verità.
A questo punto, verrebbe da chiedersi perchè tanta fretta. È che Otello "sapeva" che sarebbe andata a finire così. Se lo aspettava: sapeva di non meritare quella felicità, sapeva che doveva finire in un modo o nell'altro. L'insinuazione di Iago è stata per lui come quando conosci bene una malattia e ne senti il primo sintomo. A quel punto, Otello ha avuto tratto le sue affrettate conclusioni per paura di soffrire. Un po' come quando senti dolore a un dente e, se ti proponessero la soluzione più radicale, saresti disposto ad approvarla pur di fare in fretta e non soffrire più.
Poi penso che abbia giocato anche un altro fattore: Otello vuole uccidere Desdemona quasi per impedirle di infangare l'immagine angelicata che aveva di lei. Lui, nella versione di Shakespeare, dice qualcosa del tipo "Io ti ucciderò e poi ti amerò ancora". Come se dovesse eliminare la peccatrice reale (nella sua testa) per continuare ad amare la sposa ideale.
A me 'sta cosa manda fuori di testa, per la grandezza di chi ha immaginato una storia del genere: Shakespeare doveva essere un profondo conoscitore di persone per immaginare motivazioni simili 400 anni prima di Freud.
Poi, per carità, magari noi oggi vediamo nella storia di Otello elementi che Shakespeare non voleva sottolineare e travisiamo, credendolo più moderno di quando fosse.
Ma quegli elementi, voluti o no, ci sono. E forse anche questa casualità rende grandi i geni.

domenica 18 aprile 2010

Esterofilia

La prima volta che sono venuta in contatto con Biligue per gioco ero molto scettica: OK chi ha un compagno straniero e/o vive in un Paese straniero, ma chi vive in Italia con compagno italiano come può cercare di crescere dei figli bilingue? Non è un po' artificioso?
Leggendo le risorse all'interno del sito, mi sono convinta che è possibile, se c'è passione. Così com'è possibile che una bambina di 9 mesi faccia lo shimmy di spalle sull'onda della passione di sua madre per la danza orientale. O com'è possibile che la stessa bambina impari a riconoscere e ballare lo zar.
Noi questa passione non l'abbiamo, non abbiamo neppure una conoscenza così perfetta di una lingua da poterla passare ai nostri figli. Abbiamo però la fortuna di avere diversi bambini bilingui nella scuola di Amelia.
La mamma di uno di questi, Caroline, è madrelingua inglese e ha scelto di fare un corso settimanale con i bambini di 3-4 anni. Inizialmente non me ne ero interessata, credendo che Amelia non fosse ricettiva. Invece, dopo qualche settimana dall'inizio del corso, Amelia stessa mi ha chiesto di partecipare (probabilmente per divertirsi un'ora in più con i suoi amici e con Caroline, che è un'animatrice nata).
Da lì, Amelia è stata sempre più interessata all'inglese: oltre a ripetere le cose imparate durante le lezioni, guarda volentieri programmi in inglese, al punto ogni tanto di chiederci di mettere i DVD nella versione in lingua originale (non è la prima volta che lo facciamo, ma è la prima volta che lo facciamo con lei).
Appena dopo il periodo British (che comunque non si è concluso - spero anzi di organizzare degli incontri di conversazione anche per adulti l'anno prossimo), è tornato in auge un cartone che vedevamo spesso quando lei era piccola e che poi abbiamo lasciato un po' cadere (nonostante a me piaccia sempre da impazzire), ovvero Azur e Asmar. La passione le è tornata perché Ettore si è innamorato dei djinn e ha cominciato a chiedermi ossessivamente di vedere il film (della storia non gli frega poi molto, vuole vedere i djinn e gli elfi). Inoltre, a suo tempo, io avevo imparato le parole della Chanson d'Azur et Asmar, in francese (che conosco a livello poco più che scolastico - lo leggo benissimo, lo capisco così così, lo parlo e scrivo male) e in parte anche in arabo (che capisco molto poco, ma un pochinino mi oriento).
Insomma, che è che non è, ci siamo trovati con Amelia che canta la canzone in arabo e vuole vedere il cartone in francese (ma il cartone ha anche parti in arabo).
Luca riesce a seguire il film in francese, perché lo conosce praticamente a memoria, come me.
Recentemente, sull'onda del successo del francese in casa mia, ho comprato un cofanetto DVD di una serie che ci era molto piaciuta su RAI3, Cacciatori di draghi. Siccome la versione inglese è solo per USA e Canada e la versione italiana non esiste in commercio, ho optato per quella originale francese. Che è tosta da capire (soprattutto perché alcuni personaggi parlano o velocemente o con voce alterata), ma mi sta dando delle belle soddisfazioni. Prima fra tutte, quella di suscitare in Luca il desiderio di conoscere meglio il francese (si sa mai che ci decidiamo finalmente ad emigrare in un caseificio francese).
E così arriviamo ai miei più recenti acquisti online: su Amazon.fr, ho preso due libri appartenenti al merchandising di Azur et Asmar, per accontentare Amelia che sente la mancanza di un libro su cui farsi raccontare la storia.
Ecco, non so quanto durerà questa passione per le lingue straniere e non so quante energie potremo/vorremo spendere su questo fronte. Per ora, ci entusiasma l'idea di imparare quasi insieme e quasi ad armi pari.
In realtà, se le cose continuassero così, non mi interesserebbe neppure più di tanto che i miei figli imparino benissimo una lingua straniera (intendiamoci: ne sarei contenta). Sull'onda di quello che rivedo in me, mi interessa di più che capiscano i meccanismi di interpretazione di una lingua straniera e li applichino per capire lingue che non hanno mai studiato.
Per esempio: il fatto di sapere bene il latino e di aver studiato filologia romanza mi consente di capire abbastanza bene (almeno nello scritto) la maggioranza delle lingue neolatine (fa eccezione il rumeno, lì son messa peggio che col tedesco).
Oppure: anche se sono ben lontana dal dire che capisco l'arabo, il fatto di ricordare un pochino di lessico mi fa ripetere la mia strofa in modo meno meccanico.
Mi basterebbe che i miei figli arrivassero a questo: mi basterebbe che l'idea di dover imparare una nuova lingua non li bloccasse, che non condizionasse le loro scelte. Vorrei dare loro una chiave per aprire molte porte, dal momento che non posso permettermi la casa intera.

mercoledì 14 aprile 2010

Il blog ci guadagna?

Come dicevo all'inizio dell'avventura, questo blog ha solo un anno, ma la mia permanenza nella blogosfera risale al 2004.
Su Splinder non c'erano ancora né titoli né categorie, non potevi caricare immagini o contenuti multimediali (li dovevi mettere su siti esterni e poi linkare), Internet era ancora un covo di pervertiti e nerd per la maggior parte della gente.
Eravamo in pochi, le donne non erano in così netta maggioranza, i nostri blog avevano grafiche spesso un po' naif e bastava una cena per incontrarci, altro che BarCamp. E sì che io non sono stata proprio della primissima ora: c'era gente che postava da uno o due anni prima di me (e che purtroppo oggi non scrive quasi più).
Perché scrivevamo? Alcuni di noi già vedevano il blog come una vetrina della propria attività lavorativa (magari erano giornalisti o lavoravano nella comunicazione), ma i più lo usavano come diario online, più o meno intimo. Per me, era una specie di "almanacco delle cose buffe" (soprattutto quelle che nascevano dalla recente convivenza con Luca). Per altri/e, era più un taccuino degli appunti e/o un mezzo di comunicazione con amici sparsi in tutto il mondo e/o un diario quasi segreto. In buona sostanza, per quasi tutti era un hobby, al pari della danza o della lettura o della palestra: era già buono che fosse gratis.
Poi il fenomeno è esploso, ci siamo trovati nel Web 2.0. Siamo diventati un fenomeno di costume e un target di mercato. Ci siamo divisi in categorie, a seconda dell'argomento trattato.
Io, che nel frattempo avevo figliato ma non avevo cambiato di una virgola l'impostazione del mio blog, mi sono ritrovata nella categoria "mommyblogging". Se pensate che nella stessa categoria ci sono anche "mammadolcecuore" e "darklady72", capite già quanto sia sciocco pensare che esista davvero questa categoria e che sia omogenea.
Perché le mamme blogger hanno cominciato ad essere interessanti per le aziende? Perché le statistiche dicono che le donne decidono gli acquisti di una famiglia: da quelli minuti (come la spesa settimanale) a quelli importanti (tipo che l'80% delle volte è la donna ad avere la parola finale sull'acquisto dell'auto di famiglia).
Improvvisamente, da mezze casalinghe un po' sfigate, veniamo portate in palmo di mano come illuminate capitane di'impresa, esperte di gestione economica, maghe dell'acquisto intelligente.
Qualcuno ha cominciato a proporre alle mamme blogger banner da esporre, prodotti da provare, scambi di link. C'è stata pure una famosa conferenza stampa di Danone che scatenò l'irritazione di molte (io non ero invitata, per fortuna: perché ci sarei andata con mio marito, noto oppositore di Actimel e similari, che avrebbe posto domande molto circostanziate all'esperto, dal momento che è esperto anche lui).
Alcune persone, disgustate, hanno proprio lasciato perdere. Altre, nella prospettiva probabilmente di ripagarsi i costi, hanno accettato qualche banner qua e là. Altre ancora hanno visto una concreta opportunità e hanno detto: se le aziende vogliono entrare in contatto col Web 2.0 e sono però troppo imbranate (o mal consigliate) per farlo, perché non le aiutiamo noi? È nato così il progetto The Talking Village, che ho seguito fin dal primo momento perché mi piaceva la filosofia: cercare di influenzare la comunicazione (e magari i comportamenti) delle aziende dal basso, attraverso il contatto con un gruppo di portatori di determinate istanze.
Faccio un esempio: il primo incontro l'abbiamo avuto con Barilla. La prima cosa che abbiamo detto nell'incontro è stata: basta con l'immagine della famiglia da Mulino Bianco. Già il loro team di creativi si stava muovendo in questa direzione, per carità, però credo che parlando con noi (e leggendo questo post di Piattini) si siano fatti un'idea di dove andare. O meglio, di dove NON andare più.
Qualcuno ha detto di essere stato deluso, perché dopo aver scritto per 5 settimane nei diari delle Spighe non ha ricevuto un feedback. Qualcuno ha detto che tutto si è risolto nello sfruttamento (!) delle povere blogger per un tozzo di Spiga. Io dico che mi sono divertita, ho visto il marketing di una grande azienda da vicino, ho preso qualche caloria di troppo e i risultati li vedo ogni volta che vedo una pubblicità Mulino Bianco o che trovo qualche iniziativa innovativa come questa.
Nessuno mi ha chiesto di pubblicizzare l'iniziativa, nessuno ha creduto di sfruttarmi come opinion leader. Mi dispiace di non aver dato più rilievo all'iniziativa quando ho partecipato, ma era la mia prima esperienza e non sapevo bene come gestirla.
Nel frattempo, ho continuato a pubblicare le mie ricette di biscotti, plumcake e dolci. Ho continuato a dire la mia su tutto ciò che mi veniva in mente. Ho continuato a vedere entrambi i miei blog come luoghi di piacere e non di lavoro o guadagno.
La mia di blogger non è una professionalità. Scrivo bene, lo so benissimo, ma resto una brava dilettante. La mia professionalità è altrove, sebbene sempre nell'ambito della scrittura e della comunicazione.
Mi stupisco invece che alcune (molte?) blogger, che oltretutto non hanno una formazione paragonabile alla mia, credano di poter usare il proprio blog per guadagnare.
Ancora ancora se si tratta di un blog che rispecchia la loro formazione e le loro abilità. Tipo: sono un'artigiana che confeziona oggetti di un certo tipo e uso il blog per mettere online le foto dei miei lavori, proporre un listino e segnalare i miei contatti. Esempio: Fux, che seguo quasi sempre in silenzio ma riscuote la mia ammirazione.
Oppure se si tratta di un blog di supporto a un'attività reale, tipo quello della Farmacia Serra di Genova, dove consigli e segnalazioni su prodotti in vendita si alternano a informazioni utili, news su Genova e/o sul mondo delle mamme, racconti quotidiani, ecc.
Se invece si tratta di mettere in piedi un mommyblogging all'americana e vivere sul rapporto con le aziende, lo ritengo poco realistico. Ma proprio molto poco.
Soprattutto, però, non mi interessa.
Qualcuno mi dirà: ma come? Tu che ti sei venduta per un pacco di pannolini? Oh, molto peggio: mi sono regalata, perché di pannolini non ne ho visti né richiesti nemmeno uno, e oltretutto credo che la scorta di pannolini LIDL che mi sono comprata tempo fa mi coprirà fino allo spannolinamento di Ettore.
Mi sono regalata un'esperienza interessante, che difficilmente avrei potuto vivere altrimenti. Nessuno mi ha chiesto un'opinione sullo sponsor o sui suoi prodotti, altrimenti avrei risposto adeguatamente. Oltretutto, sono ancora qui a chiedermi se il guadagno dello sponsor sia poi così imponente, a fronte dell'aver speso un bel po' di soldini per mettere in moto la macchina di Zelig e dei teatri milanesi: non faceva prima a girare uno spot molto carino e farlo circolare su Youtube? Evidentemente gli interessa un lavoro di più ampio respiro, che può riscuotere solo la mia stima come tutti i progetti lungimiranti, volti a "preparare" il terreno presso i consumatori.
(A questo punto, sponsor, una preghiera: per essere veramente lungimirante, leggiti i commenti di questo e questo post, grazie. Così, tanto per tenerti informato proprio su tutto il mercato possibile.)
Pare però che la mia posizione sia di minoranza. Che le mamme blogger ritengano di poter fare del proprio blog un lavoro e per questo pretendere dalle aziende il giusto salario. OK, provateci, vi auguro ogni bene. Ma io non mi illuderei: credo che solo poche, altamente preparate e selezionate, possano aspirare a tanto.
In questo clima, è inevitabile che l'aver messo di mezzo i soldi (veri o presunti) abbia alzato i toni e reso le polemiche più aspre. I posti in cui si può esprimere la propria opinione senza dubitare della buona fede del tenutario o senza essere aggrediti dalla parte avversa (intesa come allattanti vs non allattanti, pro marketing vs contro, ecc.) stanno diventando sempre meno (grazie momatwork, per esempio, da te si parla sempre con grande tranquillità e senza ipocrisia anche di questioni che altrove sono spinose). Mi sembra che ci sia una corsa all'assolutizzazione delle posizioni, al voler dividere tra buoni e cattivi (magari più sulla base delle interpretazioni che dei fatti), al tenersi d'occhio reciprocamente per evitare che l'altro arrivi prima di me. Temo si scivoli nel pollaio o, peggio, nei combattimenti di polli, come è successo in molti forum.
Ecco, da questo punto di vista il blog non ci guadagna. Ma proprio per niente.

lunedì 12 aprile 2010

Solidale con chi?

Tempo fa, mi è capitato di arrivare per vie traverse su un blog di una ragazza italiana che si è trasferita con il marito in Israele e là hanno avuto il loro primo figlio. L'ho contattata via mail e, giocoforza grazie al lavoro di mio marito, siamo finite a parlare di kasherut. È un argomento vastissimo e affascinante, ne parlerei all'infinito per tutte le sue implicazioni antropologiche, storiche, sociali, biologiche e nutrizionali.
In particolare, mi hanno colpito due aspetti della kasherut.
Prima di tutto, lo spirito con cui mi è stato spiegato il senso della kasherut: una forma di disciplina e di rispetto verso il proprio corpo e verso le risorse della natura, di cui non dobbiamo disporre a nostro piacimento e senza criterio.
Secondariamente, ho scoperto che un aspetto importante della kasherut è che il cibo sia stato prodotto nel rispetto delle regole del mondo del lavoro, senza sfruttare nessuno e pagando i dovuti stipendi + contributi.
In quest'epoca che sembra aver scoperto l'equo e solidale, gli ebrei alzano la manina e dicono: ma veramente noi ci avevamo già pensato da un po', e non solo per i Paesi poveri.
Già, perché noi il concetto di equo e solidale lo applichiamo a due ambiti: il Terzo Mondo e i fornitori dei gruppi d'acquisto solidali. Come se i cattivi fossero solo le multinazionali e le regole dei mercati generali.
Capita invece che il settore agricolo, insieme a quello dell'edilizia, sia quello dove il lavoro in nero e il mancato rispetto delle norme di sicurezza sono più diffusi. Oltre al lavoro sommerso vero e proprio, ci sono produttori che stipulano falsi contratti di lavoro occasionale e falsi contratti di apprendistato, per poi integrare in nero. Non parliamo poi del lavoro straordinario, che solo in rari casi (e in questo devo rendere onore ai nostri feudatari) viene dichiarato in busta paga.
Il fatto di essere aziende bio non fa nessuna differenza: nessuna certificazione garantisce il rispetto delle regole per quanto riguarda i lavoratori.
È vero che, almeno nel pubblico, l'esigenza oggi viene più sentita: le PA sono tenute a richiedere alle aziende fornitrici un certificato (chiamato DURC) in cui le aziende dichiarano di essere in regola con il pagamento dei contributi ai dipendenti.
Non mi risulta però che i gruppi d'acquisto o i distributori di prodotti bio chiedano garanzie di questo genere. In più (mi baso sulla mia esperienza di gruppo d'acquisto, risalente ormai al 2005-2006) mi risulta che la maggior parte dei fornitori dei GAS non emetta fattura o documenti equivalenti a fronte degli acquisti fatti, nemmeno quando sono ingenti o continuativi.
Probabilmente, forti della loro buona volontà e del pregiudizio positivo nei confronti del produttore, i gruppi d'acquisto pensano che basti conoscersi di persona e andare a visitare le aziende per evitare malintenzionati e non si pongono il problema di evadere le tasse.
Niente di più sbagliato: molti produttori vedono nei gruppi d'acquisto l'opportunità di bypassare i controlli di mercato e di applicare un margine impensabile nel mercato convenzionale. Non dico che siano tutti così, per carità, credo anzi che ci siano parecchi produttori che credono in un'economia alternativa e in un mondo di solidarietà reciproca. Ma ce ne sono anche molti altri che sono solidali solo col proprio portafogli, e che vedono i GAS come un'opportunità di smaltire i prodotti rifiutati dal mercato (anche solo perché fuori pezzatura o in esubero) e di guadagnare di più e con più sicurezza.
Ricordo per esempio un nostro fornitore di ortaggi: forniva una cassetta a peso e prezzo fisso, ma di cui non si poteva scegliere il contenuto. E c'erano periodi in cui ti ritrovavi 5 chili di insalata ogni settimana. Se cercavi di chiedere maggiore equilibrio, cercava di impietosirti con la storia del tipo "sono un povero ortolano dell'Oltrepò, qui non viene nient'altro, se mi metto anche ad accontentare le richieste di ognuno ci smeno...". Noi ci siamo stufati e ci siamo tirati fuori dal gruppo d'acquisto, ma mi risulta che molti siano andati avanti per anni ad essere clienti fissi di questo fornitore, che avrebbe avuto a questo punto anche la sicurezza economica per migliorare il meccanismo, ma non aveva nessun interesse a farlo.
Con questo, non voglio demonizzare i produttori né presentare i gruppi d'acquisto come degli allocchi. Voglio solo riflettere sul fatto che siamo molto svelti a stigmatizzare la multinazionale di turno (magari sulla base di un sentito dire che non tiene conto dell'effettiva realtà di un Paese - o magari con piena ragione, perché no?), ma non ci soffermiamo a valutare con occhio più critico la realtà che ci sta intorno. Bio ci sembra garanzia di un mondo meraviglioso e ideale, ma purtroppo nessun organo certificatore tiene conto di qualcosa che non sia la mera tecnica di coltivazione.
Pensiamo alle condizioni in cui vivono i raccoglitori di pomodori, pensiamo a Rosarno. Crediamo che invece i raccoglitori di pomodori bio vivano in ville con l'aria condizionata?
Pensiamo al costo della manodopera nei Paesi poveri. Sapete che in certi posti costa meno pagare le mondine che dare i diserbanti? È possibile che, se compriamo delle banane o del riso bio (ma non equi e solidali) dal Terzo Mondo, siano stati coltivati sfruttando in questo modo la popolazione locale. O magari non sfruttandola, perché un salario che a noi sembra miserrimo là è garanzia di sopravvivenza.
Credo però che sia ora di pretendere di più dai produttori, prendendo spunto dalla kasherut ebraica: non basta che coltiviate senza far male alla terra, voglio che coltiviate senza far male alle persone. Altrimenti vado a comprare dalla prima multinazionale che passa, che almeno non vanta aspirazioni di santità.

domenica 11 aprile 2010

In bilico

Ultimamente, mi capita di frequentare (più online che dal vivo, purtroppo) essenzialmente due tipi di madri, entrambe molto fuori dal mainstream.
Uno è il tipo della madre-mamma: una che si documenta su tomi di puericultura che neanche all'università (e parlo con cognizione di causa, purtroppo), dedica quasi tutto il proprio tempo libero ai figli (magari ha anche rinunciato al lavoro per stare con loro). Di solito tutto ciò è accompagnato da una grande attenzione alla natura e all'ambiente (che prende magari la via dei pannolini lavabili), una certa cura per l'alimentazione (che prende la via dell'allattamento "prolungato", dell'autosvezzamento e dei cibi biologici) e dalla preferenza per le attività all'aria aperta (sulla falsariga degli insegnamenti di Steiner).
Badate che non sto parlando di decerebrate che sorridono dagli spot del prodotto Taldeitali: parlo di persone con una cultura generale e specifica che la maggior parte degli educatori se la sogna, molto consapevoli di tutto ciò che vivono, capaci di critiche intelligenti e costruttive.
Se cito come esempi momatwork e Claudia, direi che ho detto tutto, no?
L'altro è il tipo della mamma il cui obiettivo principale non è essere mamma. Detto così, sembra una che se ne frega dei figli: niente di più sbagliato. Questo tipo di madre è contentissima di esserlo, magari anche lei ha rinunciato al lavoro per stare con i bambini o magari ha deciso di togliersi dalle logiche di carriera tradizionale. Semplicemente, non le interessa più di tanto parlare di cose che riguardino i bambini. Io non so se segue un particolare metodo educativo, non so se ha una posizione particolare riguardo all'alimentazione dei suoi figli, non so nemmeno se gli fa vedere la TV o no. Suppongo che nell'educazione dei figli sia tendenzialmente mainstream ma senza cadere nel qualunquismo. Conosco però le sue passioni oltre i figli, conosco il suo pensiero riguardo alcuni temi: confrontarmi su alcuni temi con questo genere di donna è stimolante e divertente. Penso a Manager di Me Stessa o a Bianca, ma sono solo esempi tra le tante.
Spesso queste due categorie si guardano con diffidenza, spesso si commentano a vicenda con pareri poco lusinghieri, a volte (ma son rari casi, che non riguardano certo le persone che ho citato) arrivano addirittura a farsi la guerra.
Io mi sento in mezzo. Ho una passione forte, la narrativa, ma ho messo a cuccia la danza perché toglieva troppe energie al resto. Dedico una gran parte del mio tempo libero ai figli, non mi sognerei mai di andare in vacanza con una tata, ma nello stesso tempo sono gran pronta a cioccare i bambini a chiunque li tenga per ritagliarmi uno spazio tutto mio una volta ogni tanto, con le amiche e/o con mio marito. Vivo uno stile di vita fatto di autoproduzione e alimenti bio, ma sono ben felice di dialogare con multinazionali senza pregiudizi. Aspetto il part time come la manna dal cielo ma poi sono prontissima a farmi tutti i weekend in una fiera diversa per promuovere Viola, quando uscirà (stanchezza a parte).
Non è che io desideri sentirmi per forza ingabbiata in una categoria. È semplicemente che a volte mi sento come se avessi una doppia personalità: mi rendo conto che lo stesso tema, presentato da una parte o dall'altra, mi provoca pensieri, sentimenti, posizioni diverse.
Faccio un paragone forte: a volte mi sento come quei leghisti che "a casa terroni e negri" e poi il loro migliore amico è di Avellino e si trovano benissimo col collega senegalese.
Tradotto: a volte faccio affermazioni assolute per amore di battuta o sull'onda di un'impressione del momento, salvo poi riconsiderare la questione se mi viene proposta "dall'altra parte" in modo circostanziato e pacato.
Ciò non toglie che su alcuni temi non c'è storia, la mia opinione è quella: posso enunciarla in modi differenti per non ferire il mio interlocutore, al massimo.
Del resto, tutti mi dicono che la mia dote migliore è la schiettezza. Spero sempre di essere all'altezza di questo complimento.

sabato 10 aprile 2010

Ogni volta

Qualcuno potrebbe dire: ma accidenti, ci devi raccontare proprio tutte le volte che ti incontri con le altre blogger? Non te lo puoi tenere un po' per te?
Anche no. Per due motivi:
1 - è stato un pomeriggio bello e divertente, in cui ho imparato un sacco di cose
2 - quando si incontrano persone in gamba, dedicate a un progetto intelligente, vale sempre la pena di segnarselo.
Ora vi svelo l'arcano: le blogger del progetto Mammacheridere Lab hanno finalmente incontrato di persona gli altri attori coinvolti nel progetto, ovvero lo staff dell'agenzia di comunicazione, lo sponsor e il team creativo che trasformerà i nostri post in uno spettacolo.
OK, lo confesso: a me incontrare le aziende piace. Forse perché mi ricorda la mia vita precedente, o forse perché nella mia vita precedente non potevo rapportarmi con tanta libertà (fosse mai che perdi il cliente). O forse semplicemente perché mi piace molto andare a vedere come lavorano gli "altri", nel senso di tutti quelli che fanno lavori diversi da quelli che ho fatto io.
Quindi, già essere lì per me era una goduria. Se poi contiamo che gli interlocutori erano simpatici e brillanti, potete immaginare.
Non pretendo di fare una cronistoria della giornata, non penso spetti a me. Mi piacerebbe però fissare alcuni particolari che mi hanno colpita.
Per esempio, mai mi sarei immaginata che il giovane creativo seduto accanto a me fosse un papà. Con la mia solita delicatezza, mi sarebbe venuto da dirgli: ma se sei appena diventato maggiorenne! E invece...
Oppure, mi sarei aspettata un approccio più formale da parte del rappresentante di Huggies, che invece si è presentato in modo simpatico e disinvolto, disponibile al dialogo ma forse più in veste di ascoltatore.
Oltretutto, la mia esperienza (quella breve di blogger e quella antica di content manager) mi aveva insegnato che in incontri del genere si spende qualche parola sull'azienda e sul prodotto. Invece ieri Huggies è stata nominata solo in relazione con la sua immagine e con le precedenti campagne pubblicitarie basate sull'ironia (io lo spot del bambino-geyser me lo ricordavo, ma non lo collegavo ormai più ad Huggies). Anzi, si è parlato più di spannolinamento (a che età, con quali modalità, ecc.) che non di pannolini!
L'ultima cosa che mi è piaciuta moltissimo è stata imparare come funziona la creazione di uno spettacolo di cabaret e vedere l'autrice in azione.
Per mia natura, sono appassionata di ogni forma di scrittura, anche se non penso di praticarla. Il teatro, in particolare, mi è proprio estraneo, non ci ho mai pensato neanche lontanamente. È stato interessante capire come il comico interagisce con gli autori, a cosa servono gli autori se già il comico scrive le proprie battute, come vengono testati i pezzi (guardate qui, voi che potete uscire durante la settimana senza crollare di sonno), come si arriva sul palco di un teatro. Sono tutte cose che non sapevo, così come non avevo neppure idea che esistesse una tecnica ben precisa di scrittura (OK, me lo potevo immaginare ma non me lo ero mai chiesto).
Ad un certo punto, poi, l'autrice (che, da quello che ho capito, è più una specie di editor dei testi del comico che non un autore ex novo) ha preso in mano la situazione e ha cominciato a elencare i temi (quelli ufficiali e altri), chiedendoci se pensavamo che funzionassero e se credevamo ci fosse materiale sufficiente. Ha saputo tenere testa al nostro brainstorming (più storming che brain), senza essere sopraffatta dalle nostre voci. Ha preso appunti, ha fatto domande, ha tratto conclusioni. Con un polso e una professionalità sorprendenti, soprattutto dal momento che il suo atteggiamento e il suo aspetto non erano certo quelli di una donna di potere (e anche per questo l'ho apprezzata).
Poi, per carità, ci sono anche i momenti informali legati alle chiacchiere tra persone che non si vedono spesso o non si erano mai viste prima, e che ogni volta confermano l'impressione avuta tramite web.
Mi ha fatto molto piacere incontrare Yeni Belqis, che avevo visto incinta quindi potete immaginare quanto tempo era passato dall'ultima volta. Ho rivisto con molto piacere le blogger milanesi, a cui avevo recentemente dato buca in un'altra occasione. Ho reincontrato Wonder, sfiorata nel primo MaMCamp milanese. Ho conosciuto Paola di Margherita e il Lappio, Silvia di Genitori Crescono e Paola di Erounabravamamma. Mi è dispiaciuto che BStevens non abbia fatto la magnifica follia di portarsi dietro Puk.
Poi suonano i rintocchi dell'ora di cena e tutte noi via, verso le nostre case. Senza sentirci delle Cenerentole: piuttosto rientrando nei panni delle nostre identità quotidiane, come nei fumetti DC e Marvel. Con una differenza: Superman e l'Uomo Ragno non si divertivano tanto come noi.

venerdì 9 aprile 2010

The Real Thing

Mi capita di leggere sporadicamente blog che raccontano una prima gravidanza. Donne che dal test al parto assumono un'aria sognante e ricamano la tela dei sogni immaginando meravigliose scene di maternità. E donne che le leggono e commentano, dicendo che non vedono l'ora di provare anche loro.
Ecco, io sono contenta per loro e un po' le invidio per i meravigliosi ormoni di cui la Natura le ha dotate. Io in gravidanza ero nervosa, inappetente, incazzosissima e alquanto spaventata dalla prospettiva di avere la responsabilità di un essere umano. Nella prima come nella seconda, intendo.
Ma a volte mi fanno un po' di rabbia e paura, perché temo che, caricate di aspettative eccessive, cadano miseramente nel baratro del post partum, in cui non tutto è rose e fiori. In cui può capitare che un bambino abbia le coliche o che semplicemente non sia molto affettuoso. In cui può esserci fatica, sofferenza fisica, senso di oppressione per le tante responsabilità e aspettative.
Mi fanno rabbia perché tutto quello che a me è parso un immenso dono a loro potrebbe apparire "poco".
Mi spiego: quando aspettavo Amelia, credevo che, non so per quanto tempo, la mia vita sarebbe stata principalmente fatica e frustrazione, deprivazione di sonno, eccetera. Animalmente avevo desiderato una figlia, ma razionalmente credevo sarebbe stata una palla colossale per un sacco di tempo. E invece Amelia mi ha sorpresa e conquistata in ogni momento del nostro rapporto: ogni suo aspetto positivo era per me una sorpresa, per cui provavo tantissima gratitudine, mentre ogni aspetto negativo era stato messo in conto.
Pian piano, superando le mie aspettative, avere figli mi è parsa una cosa bellissima. Perché l'ho vissuto sul campo, anziché anticiparlo nelle mie fantasie.
Forse è stato un po' lo stesso processo del matrimonio: quando mi sono staccata dall'idea dell'uomo perfetto, ho trovato un uomo meraviglioso e ho costruito con lui una vita che nel complesso mi piace proprio.
Ogni tanto l'uomo perfetto ricompare nei miei pensieri, del tipo "oh cazzo ho sposato uno che non sa le date della seconda guerra mondiale" (storia vera, eh), ma sono tentativi destinati a fallire sul principio, perché, oggi che ho provato cosa vuol dire stare con un uomo che ti piace sotto tutti i punti di vista e con cui funzioni bene, me ne frego di chissà quale dandy colto e affascinante.
Ecco, io auguro a tutte coloro che vivono la maternità futura in modo idealizzato di riuscire a liberarsi di quell'immagine di perfezione prima che sia troppo tardi, per confrontarsi con la realtà.
Dove la realtà non è quella di madri sfigate con le occhiaie, no davvero. La maternità non è solo un luogo di dolore.
È quel momento in cui tua figlia dice "mamma" e tu quasi la spaventi urlando di gioia.
È quella giornata in cui siete andate a mangiare insieme al bar.
È quel momento in cui lei ti permette di tenere suo fratello per i prossimi 30 anni.
È la volta in cui lei ti chiede di proseguire il libro della sera prima.
È la mattina in cui lui fa la pipì nel vasino, con te e sua sorella che fate il tifo.
È come quando hai passato giorni o settimane a immaginare come conquistarlo e poi tutto si svolge in modo completamente diverso. Più bello, perché inatteso.

giovedì 8 aprile 2010

Mare mare

Lo so: la Liguria non è la Polinesia. E so anche che non è la Sardegna né la Grecia. È solo il posto di mare più vicino a casa mia. Solo una lingua di terra dura e sterile, abitata da gente scorbutica e sempre scontenta, che mugugna in un dialetto per niente trendy.
Eppure mi rapisce il cuore, molto di più di altri posti. Forse perché è così facile immaginare di abitare lì, senza stravolgere il mio stile di vita. O forse perché ho un'affinità con i liguri: schietti, un po' duri, anche bruschi, pessimisti, ma amabilissimi con chi entra nelle loro grazie, amici veri e leali.
Ecco, già arrivare a Levanto e poter passare il tardo pomeriggio in spiaggia, al sole, mi ha ripagata delle code intorno a Genova e del mal di denti che mi era esploso tra mercoledì e giovedì. Sabato e domenica non sono stati giorni splendidi, lo ammetto, ma ci hanno dato qualche soddisfazione tra una pioggia e l'altra: un pomeriggio con amici a Vernazza, una mattina al parco giochi e sulle giostrine, uno spettacolo di sbandieratori per le vie di Levanto.
Gli altri giorni sono stati di sole e vento: non un caldo tale da prendere il sole in serenità, ma sufficiente per leggere con tranquillità un paio di libri e fumetti, mentre i bambini giocavano con la sabbia e i sassi o guardavano le evoluzioni dei surfisti.
Cedendo alle lusinghe del consumismo, abbiamo speso una cifra imbarazzante tra giostrine a gettone e distributori di palline (come resistere ai personaggi di Shaun the Sheep?).
Cedendo alle lusinghe della gola, abbiamo mangiato quantità imbarazzanti di focaccia, ravioli e dolci.
Ieri pomeriggio, ci siamo concessi una lunga chiacchierata con gli amici dell'Erba Persa e poi siamo tornati a casa. Non torneremo probabilmente fino alla metà di agosto, e stiamo già contando i giorni. Nel frattempo, metteremo a posto le foto e cercheremo di non pensarci troppo.

sabato 3 aprile 2010

Naturale e idilliaco

Come ormai sanno anche i muri, io vivo immersa nella natura. Quando c'è la nebbia o le zanzare premono sulle nostre finestre o devo prendere l'auto per andare a prendere il pane, preferirei vivere in piazza del Duomo, di qualsiasi città. Quando invece il tempo è piacevole, c'è il sole e i miei figli giocano felici insieme ai vitelli, mi sembra il posto migliore del mondo.
La verità è che io sono sempre vissuta in posti poco più civilizzati della cascina: sì, la strada era asfaltata, ma bastava arrivare alla fine della via e lì si apriva la campagna. Oltretutto, il mio nonno preferito (ma non ditelo all'altro, se no si offende) era nato e vissuto in campagna fino a 45 anni, in una cascina sperduta nella Lomellina, di cui mi dispiace molto di non conoscere l'esatta ubicazione. Da lui ho imparato ad addomesticare una gazza, per esempio. Il resto l'hanno fatto i libri: quanti di voi sanno che i bruchi di macaone, che si nascondono in mezzo alle carote, se minacciati, tirano fuori due cornini che sanno di carota, per depistare gli aggressori? Io li ho visti con i miei occhi, e mi dispiace tanto che mio nonno (l'altro) non coltivi più le carote.
Questo per dire che, anche se sarei più comoda e felice di vivere in città, sotto sotto sono fiera delle mie competenze di campagnola.
Proprio perché la campagna l'ho sempre vissuta, odio che ne venga tessuto l'elogio in modo astratto. In particolare, non sopporto chi cerca di applicare le proprie categorie mentali alla realtà che io conosco bene.
Per esempio, chi tesse le lodi della natura provvida e materna dovrebbe ascoltare le urla delle manze che partoriscono, soprattutto se si tratta del loro primo nato. Molte sono spaventate e doloranti, non hanno più la forza di spingere. In chi cercano conforto? Nell'uomo, che ficca tutto un braccio dentro di loro e risolve situazioni che in natura sarebbero state mortali. Lo stesso uomo che poi separerà la madre dal figlio, che altrimenti si berrebbe tutto il latte che invece vogliamo berci noi. Lo stesso uomo che, sentendo la madre e il figlio che si chiamano, va a fare una carezza a entrambi perché si sente in colpa ed esorta i miei bambini a tenere compagnia al nuovo nato.
A chi mi dice che la televisione veicola immagini cruente, rispondo che è molto peggio vedere di persona un vitello neonato morto, con la madre legata accanto, che attende il macellaio perché il parto l'ha rovinata e quindi non potrà più figliare. Ma dico anche che intorno alla vacca da macello gira l'uomo che l'ha fatta partorire, che si assicura che la povera bestia non soffra mentre aspetta.
Vivere in una cascina significa spiegare ai tuoi figli perché i vitellini non possono vedere le loro mamme, e fa sì che i tuoi figli non colleghino i topi da cartone animato con i resti sanguinolenti sul pavimento della cucina, perché c'è troppa differenza. Significa anche che i tuoi figli, se vedono un vitello immobile sulla paglia, ti chiedono se è morto, perché sanno che è possibile.
Vivere in campagna significa capire bene la legge del più forte, perché la vedi applicata ogni giorno da chi ti circonda: dagli umani sugli animali, dai predatori sulle prede, negli scazzi gerarchici all'interno di ogni specie. E, che tu sia adulto o bambino, ti senti in bilico tra l'abbandonarti al tuo istinto e il rispettare le regole del vivere civile che ti hanno inculcato.
Vivere in campagna ti aiuta però anche a liberarti dalle ipocrisie: i miei figli sanno perfettamente che cosa mangiano, in casa mia non girerà mai la pietosa bugia del coniglietto che però non è lui o cose del genere. Certo, se dovessi uccidere io le mucche che mangio, lo farei piangendo, perché queste mucche mi hanno fatto compagnia quando i miei figli erano piccolissimi e mi rispecchio in loro, oltre al fatto che sono animali bellissimi. Difficilmente ucciderò una gallina, perché spennarla e mondarla è una menata pazzesca (il coniglio molto meno, ma non ne abbiamo e non mi piace!), ma ricordo senza nessun trauma mia zia che tirava il collo alle galline quando ero piccola.
Ecco, una cosa che a ricordarmela mi fa un po' impressione (ma forse mi incuriosisce più che disgustarmi) è mia zia che pelava le rane: staccava la testa con un coltello e poi toglieva la pelle con un solo movimento abile. Poi le buttava in un mastello, dove la rana morta e scuoiata si agitava ancora un po'. Vi sembra idilliaca questa visione? Ciononostante, le rane stufate mi piacciono molto (quelle fritte dei baracchini un po' meno, ma temo che sia perché si tratta di rane cinesi, di scarsa qualità).
Questo non vuol dire che io sia una donna da corpo dei marines, tutta d'un pezzo: se una serpe mi attraversa la strada, salto in braccio al primo che ho accanto.
E questo non vuol nemmeno dire che io non accolga le istanze dei vegetariani. Solo, mi limito a dire che do più ragione ai vegani: in un allevamento per la produzione di latte, la morte è parte integrante del meccanismo. Di più: anche se i vitelli maschi venissero liberati in natura anziché essere mandati al macello da grandi (tranne i più fortunati, che finiranno a fare gli inseminatori), il meccanismo di riproduzione a comando e di separazione delle madri dai vitelli sarebbe comunque crudele e doloroso. E badate che parlo di un allevamento "umano", non intensivo.
Mi fanno un po' di tenerezza, invece, coloro che a Pasqua si battono contro la mattanza degli agnelli. Sono d'accordo con loro sul fatto che mangiare un animale più adulto sarebbe più etico ed economico, ma teniamo conto del fatto che per un animale in natura è normalissimo che il suo piccolo abbia poche possibilità di diventare adulto: gli agnelli sono lenti e incerti, e i lupi li mangiano per primi, se il gregge non è in grado di proteggerli.
Del resto, appena fuori dalla nostra campagna umanizzata, le volpi e i gatti continuano a cacciare i più deboli e malati, i cinghiali attaccano tutto ciò che si muove e gli aironi si contendono rane e pesci con i cormorani.
Ed è giusto così: siamo noi, con la nostra etica e le nostre sovrastrutture, a complicare tutto. Per fortuna, mi vien da dire.

venerdì 2 aprile 2010

La sfiga ci vede benissimo

Rispondendo a un commento di Ondaluna, mi sono resa conto di quante volte, ultimamente, piango per un film. Spesso per un cartone animato. Io che prima del 2005 avevo pianto solo per Nel nome del padre, mica per Ghost o Scelta d'amore!
Ho cominciato con la serie TV di Lilo e Stitch, ogni volta che saltava fuori la storia dei genitori di Lilo (che non ci sono più, penso per un incidente). E ovviamente in Lilo e Stitch 2 singhiozzo.
Poi c'è stata l'Era Glaciale, in cui la mamma si butta da una cascata per salvare il bambino dalle tigri. Non parliamo di Nemo, in cui la mamma si sacrifica nella prima scena.
Da lì La Gabbianella e il Gatto ha avuto gioco facile: ogni volta che vedo la sequenza della morte di Kenga, mi nascondo in bagno per la vergogna.
Piango per i genitori della Bella Addormentata che devono affidarla alle tre fatine, e poi mi incazzo perché, se una strega maledicesse mia figlia, andrei a cercarla ben prima del principino di turno.
Sono stata capace di piangere per uno sceneggiato con Neri Marcorè e per diverse puntate di vari telefilm idioti ma con mamme come protagoniste.
Oltre a piangere, faccio anche gli scongiuri: la mamma è il personaggio con le più alte probabilità di morire giovane, e io sono una mamma che vorrebbe vivere a lungo!
Mi dicono che l'unica soluzione è staccarmi dallo stereotipo di mamma angelicata e diventare una strega (cosa che peraltro non mi riesce per niente male): l'erba grama non muore mai!

giovedì 1 aprile 2010

Sicur l'è mort

In dialetto (in qualsiasi dialetto) ci sono espressioni che mi fanno impazzire per la loro efficacia. Una di queste è quella che vedete nel titolo. È la classica risposta che si dà alla domanda "Sei sicuro?", come a dire che nessuno può essere sicuro al 100% di quello che dice, soprattutto se si tratta di fatti riguardanti altre persone, di teorie scientifiche o in generale di cose che non dipendono da lui. Non parliamo poi delle opinioni.
Mi viene da pensare a questa frase quando qualcuno pontifica su cosa è meglio per i bambini / la società / l'ambiente / eccetera. Mi si materializza davanti quando sento alcune persone formulare opinioni assolute con toni da Savonarola (e spesso lo fanno per partito preso, non per diretta e approfondita conoscenza dell'argomento). Mi verrebbe da proferirla di fronte a certi atteggiamenti da ducetto, di qualsiasi schieramento.
Ve lo immaginate voi uno dei nostri politici? Immaginatevelo in uno di quei salotti televisivi ovattati, abituato all'intervista "in ginocchio" (dove chi sta in ginocchio è ovviamente l'intervistatore). A un certo punto, il politico di turno enuncia solennemente un caposaldo del suo credo, dandolo per sicuro. E l'intervistatore, con faccia scettica: "Ah, guardi, sicur l'è mort".
Ecco, questa è la mia premessa: sicur l'è mort. Potrò avere un'opinione e difenderla a spada tratta, ma mi riservo di sottolineare che la mia è un'opinione, non la considero la verità assoluta e sono pronta a cambiarla, seppure magari a malincuore, nel caso in cui emergano nuovi fatti che mi danno torto.
Questa è la necessaria premessa per affrontare un ciclo di post su natura, agricoltura, alimentazione, economia e persino politica, dove non pretendo di enunciare verità assolute, ma solo di informarvi della mia opinione e delle motivazioni che la sostengono. Questi post saranno scritti a 4 mani da me e Luca, o almeno revisionati da lui, che è il mio esperto scientifico e controllerà che io non scriva castronerie.
Forse per alcuni questi post saranno sorprendenti, dal momento che il mio stile di vita sembra catalogarmi in uno stereotipo ben preciso. Per altri no, dal momento che abbiamo avuto modo di parlarne già in altre sedi.
Spero di cominciare presto: voi affilate le armi e buon divertimento.