mercoledì 27 ottobre 2010

Il fascino del male

OK, lo confesso, non sono molto originale: adoro i personaggi negativi, come milioni di adolescenti nel mondo.
Ho cominciato con Darth Vader, per continuare con Dracula, Voldemort, Moriarty, Hannibal, eccetera. Anche quando scrivo, il cattivo lo trovo sempre più divertente del buono, al punto che spesso faccio comportare da bastardi anche i buoni, per non annoiarmi.
Ecco, il cattivo che prediligo ha delle caratteristiche ben precise. Prima di tutto, non deve essere cattivo per finta o redimersi alla fine, sennò non c'è gusto. Secondariamente, deve essere lucido e razionale, non il Dottor Morte che farnetica di conquistare il mondo mentre James Bond ha tutto il tempo di sciogliersi le corde, farsi un caffè e una pennichella e poi eliminare la Spectre. Corollario: deve essere intelligente e un minimo sgamato, anzi, l'ideale è che sia un grandissimo intrigante col gusto per la manipolazione delle persone. Terzo: deve dimostrarmi di essere cattivo, ovvero fare qualcosa di orrendo durante la narrazione. Epperò le azioni orrende non devono essere commesse a casaccio solo per dimostrare di essere il cattivo (tipo la classica scena in cui il cattivo uccide uno qualsiasi per pura crudeltà) ma devono essere utili nell'economia degli scopi del cattivo, altrimenti rientriamo nel caso del cattivo psicopatico, che non ci interessa. Quarto, sarebbe meglio se fosse gnocco o se almeno potessimo immaginarcelo così.
Il mio ultimo acquisto in fatto di cattivi proviene da True Blood, che mi sto guardando in questo periodo (sono quasi alla fine della seconda serie, che goduria).
Prima di tutto devo spezzare più di una lancia a favore della serie, che inizialmente avevo snobbato. Certo, non parte da un'idea originale come Dexter o Six Feet Under. I vampiri sono di gran moda e per di più la serie si ispira a un ciclo di romanzi di quelli pubblicati sulla scia del successo di Twilight. Le premesse della serie si possono ritrovare in ennemila altre produzioni. Per esempio, il fatto che i vampiri si rivelino agli umani e reclamino gli stessi diritti civili dei mortali è preso paro paro dal ciclo di Anita Blake. Anche la struttura gerarchica dei vampiri ha forti assonanze con quella del ciclo di Anita (con la differenza che i capizona si chiamano sceriffi anziché master). Come nel ciclo di Anita, parte della vicenda ruota intorno a un locale di vampiri (il Fangtasia in True Blood, il Guilty Pleasures nel ciclo di Anita). Come nel ciclo di Anita e nella saga di Twilight, ci sono rapporti d'amore tra umani e vampiri. Come nei romanzi di Anne Rice, la vicenda è ambientata in Louisiana. Come in Twilight, nel ciclo di Anita e in altri prodotti, i vampiri non sono gli unici esseri sovrannaturali ad essersi nascosti per millenni. E così via.
Nonostante ciò, la serie è spettacolare: ben scritta e ben orchestrata, con un'impostazione più da giallo/thriller che non da horror, fa un uso irresistibile del cliffhanger e tratteggia i personaggi in modo originale e incisivo. Pare che la terza serie sia ancora meglio di ciò che ho già visto, quindi non vedo l'ora di passare a quella.
In un primo tempo, anzi, per tutta la prima serie, è abbastanza normale essere affascinate da Bill: a parte che fisicamente Stephen Moyer è proprio il mio tipo (uno vero, con i peli sul petto e la pelle non levigata, un bel fisico ma non la sagra della palestra), Bill è un bel personaggio, ben sfaccettato e ricco di sfumature.
Eric, invece, nella prima serie è bidimensionale come una figurina. Nella seconda serie, si anima e dà sfogo al bastardo che c'è in lui: trama per rubare a Bill la sua umana, Sookie, e s'inventa scuse fantasiose per legarla a sé in ogni modo. Diventa curioso e divertente, accentra la maggior parte dei movimenti della trama (a parte la sottotrama di Mary Anne, che fa da collegamento con i personaggi esclusi dalla trama principale). Se i vampiri cattivi nella prima serie erano disgustosi, con Eric ci avviciniamo al fascino del male: si succedono situazioni paradossali e dialoghi divertenti, con un ritmo più elevato rispetto a quello della prima serie.
Il mio timore è che alla fine Eric si riscatti, ma, se non lo fa, per ora sta andando alla grande.
Rimane un dubbio: perché questa passione per i cattivi? Non tutti i buoni sono piatti come il Principe Azzurro o Luke Skywalker.
Ecco, scavando nella memoria, sono arrivata a questa conclusione: il cattivo non può deluderti. Non può fare quello tanto carino ma che poi ha gli scrupoli ma che poi l'amicizia ma che poi eccetera. Da un autentico bastardo sai cosa aspettarti: cattiveria e dolore. Che non saranno un granché, ma alcuni li preferiscono alle bugie e all'ipocrisia.

lunedì 25 ottobre 2010

Inspiration point

Con l'inizio dell'anno (scolastico? accademico? boh) e dopo un intero anno di inattività, è tutto un fiorire di corsi per la sottoscritta: a parte che anche la famosa iniziativa di cui non posso parlare è legata all'apprendimento, ho ricominciato a danzare con la Pedretti (faccio un corso mensile pluridisciplinare: orientale moderna, tribal classico e tribal fusion) e contemporaneamente mi sono iscritta al Diegozillab, un corso di sceneggiatura online che mi sta già dando delle belle soddisfazioni prima di iniziare (l'avatar che mi è stato associato è una foto di Angelina Jolie da giovanissima).
La prima lezione con Francesca l'ho fatta questo sabato. Ero un po' intimorita, perché cominciare di botto con 3 ore di lezione dopo un anno di quasi totale inattività (a parte un miniseminario a luglio) mi faceva temere di non farcela. Invece è stato non riposante, ma sicuramente alla mia portata (a parte il fatto che il mio ginocchio ha messo in chiaro che di mezzapunta non se ne parla né ora né mai nei secoli dei secoli amen). Non mi ha massacrata come temevo, non mi ha imbottita di acido lattico. Mi ha invece riempita di entusiasmo, energia e ispirazione.
Penso che quest'ultima in realtà sia la parola chiave che distingue un buon maestro dagli altri: un buon maestro non si limita a insegnarti ciò che sa, ma ti spinge anche a cercare da te ciò che lui non sa o non ti dice.

venerdì 22 ottobre 2010

Tenetevi pure il Medioevo

Intendiamoci: il Medioevo mi piace. Mi piacciono l'arte e l'architettura medievale (anche quelle dei secoli tradizionalmente considerati più "bui"), mi diverto alle rievocazioni storiche, mi piacciono le melodie medievaleggianti, so benissimo che nel Medioevo sono state scoperte tante cose che fanno parte tuttora della nostra vita.
Tuttavia, sono ben contenta di vivere in un'epoca e in un luogo in cui ho un minimo rischio di morire di parto, i miei figli e mio marito hanno un'aspettativa di vita decente, per comunicare col resto del mondo mi basta comporre un numero o mandare una mail, per spostarmi di 15 km non ci devo mettere mezza giornata. E, soprattutto, ho diritto a un'anima, esattamente come un uomo (anche se poi ritengo che la cosiddetta anima sia solo la proiezione delle nostre attività cerebrali). Posso possedere 4 gatte di cui una nera senza essere bruciata. Ho potuto persino prendere una laurea senza vestirmi da uomo.
Insomma, capirete che in questo tempo io mi ci trovo particolarmente bene. I miei valori sono l'onestà, la magnanimità, la libertà e la dignità. Valori che si attagliano a me in quanto persona, non in quanto donna. Sono questi i valori che voglio passare ai miei figli, indipendentemente dal loro sesso.
Ché poi mi piacerebbe sapere quali valori possono essere esclusivi di un sesso. La modestia per le donne? Direi che non guasterebbe neanche negli uomini, anzi, una delle massime virtù di mio marito è proprio questa. La difesa dei deboli per gli uomini? Per carità, gli uomini saranno in media fisicamente più forti delle donne, ma c'è sempre qualcuno più debole di te da difendere e proteggere, fosse anche solo uno studente straniero stritolato dalla burocrazia di cui fai parte.
A questo proposito, ogni epoca ha elaborato i valori che voleva insegnare attraverso fiabe e favole. La storia di Nastagio degli Onesti raccontata da Boccaccio, per esempio, deriva da una fiaba popolare: Boccaccio è un maestro e la novella è molto godibile, ma oggi non possiamo accettare che una donna, solo per paura di una punizione nell'aldilà, accetti la corte di un innamorato insistente. Oggi, probabilmente, avverrebbe il contrario: sarebbe l'innamorato insistente e non ricambiato ad essere bollato come colpevole, poiché dovrebbe capire che non basta la perseveranza a far innamorare di sé una persona.
Forse nel caso di Nastagio degli Onesti la discrepanza tra la morale antica e la nostra è più evidente, o forse appare così lampante solo a me: magari qualcun altro la considera un saggio insegnamento contro le bisbetiche o le gattemorte.
Nel caso di fiabe che coinvolgano principesse e tutto l'immaginario fantasy, forse la discrepanza è meno evidente: invochiamo il diritto a sognare e a liberarci della nostra indipendenza almeno nelle fantasie.
Ma davvero tanta indipendenza è un peso? E allora perché l'abbiamo voluta? Non sarebbe ancora più meraviglioso che l'indipendenza e le pari opportunità facessero parte del nostro immaginario romantico?
Io, personalmente, anche nelle storie che mi piacciono, quando il protagonista maschile esagera nel fare il cavaliere errante, mi rompo le balle: ma vi immaginate che noia pazzesca dovevano provare le principesse rinchiuse nelle torri, senza connessione Internet né satellite? Hai voglia a ricamare, spesso erano pure analfabete...
Nelle mie fantasie romantiche, non sono mai stata il soggetto passivo, la parte da salvare. Ho sempre immaginato un ruolo attivo, di affiancamento al personaggio principale o di sostituzione al personaggio maschile.
Per esempio, ricordo di aver cambiato il sesso di uno dei personaggi di Dalla Terra alla Luna: la rivalità di Barbicane e Nicholl era basata su motivi un po' troppo sterili per una bambina di 9 anni (ovvero il fatto che uno era nordista e l'altro sudista, all'indomani della Guerra di Secessione), quindi ho trasformato il secondo in una donna e mi ci sono identificata. Non volevo il ruolo della dolce fanciulla che aspetta il suo eroe: volevo essere parte dell'azione e, se possibile, innamorarmi di un mio compagno di avventure.
Poi, se parliamo di tutto il corollario delle principesse (vestiti, acconciature, castello, ecc.) ci sto che sia affascinante e che ci sia un tempo anche per questo, purché non sia un intralcio all'azione, un'ancora che impedisce alla protagonista di agire "perché non sta bene" o perché le si sgualcisce il vestito: il principe azzurro se ne frega se gli si squarcia il farsetto o gli si ammacca l'armatura, perché noi dovremmo farci bloccare da un tacco rotto o da un tulle impigliato?
A proposito, riguardo al principe, qualcuna mi sa spiegare perché il principe azzurro, che sarà assediato di belle pretendenti, dovrebbe farsi un culo così per liberare una tanto scema da accettare una mela avvelenata o un fuso da una sconosciuta? Vediamola un po' anche dalla parte degli uomini: che attrattive hanno queste principesse (a parte la bellezza), per meritare un salvataggio? Io non vorrei che mio figlio rischiasse la vita per un'oca.
Dall'altro lato, io non so se gli uomini facciano fantasie romantiche (sicuramente sì, anche se non lo confessano) e in che forma le facciano. Mi piacerebbe che ci vedessero come compagne e non come bamboline di porcellana. Mi piacerebbe che anche per loro l'idea di condividere fosse eccitante, non castrante. E che magari fosse il loro turno di sognare di essere salvati, dopo tanto galoppare in sella al cavallo bianco.

giovedì 21 ottobre 2010

Esisterà davvero il karma?

Riguardo alla questione esposta qui sotto, mi aspettavo di trovare lunghe attese, risposte sbrigative e dottori impegnatissimi.
Invece, dopo un paio di mail e telefonate con persone gentili e premurose e una breve attesa, mi ritrovo in mano un appuntamento con un luminare della materia. Tra un solo mese, il che permette anche di organizzare il trasporto e sistemare la burocrazia.
Ho un magone pazzesco, perché forse, grazie a un mio minimo sbattimento, una persona malata avrà una vita migliore. E non mi importa più di tanto che io questa persona non la conosca, e che conosca a malapena suo fratello.
Sono scossa ed esaltata dalla piccolezza del mio intervento rispetto all'enormità delle sue conseguenze. Se ciascuno di noi provasse questa sensazione almeno una volta nella vita, non ci sarebbe bisogno di esortare alla generosità e all'empatia.

domenica 17 ottobre 2010

Karma e superstizione

Io sono atea. Non credo nel karma o nella superstizione: credo solo che fare la cosa giusta mi aiuti a stare bene con me stessa. Forse, egoisticamente, credo anche che essere generosa e compiere azioni nobili mi faccia da giustificazione per tutte le cose che evito di fare per pigrizia o per tutte le volte in cui ho agito male.
Fatto sta che è più forte di me: se so che posso aiutare qualcuno, anche sbattendomi e magari non ottenendo nulla, lo faccio.
Oggi, per esempio, una persona per cui provo simpatia ma che non posso considerare un'amica mi espone una sua preoccupazione: un ragazzo straniero che lavora per lei è molto in pena per la sorella, che ha una grave e rara malattia neurologica, a decorso degenerativo, poco conosciuta.
Caso vuole che io questa malattia la conosca, perché 15 anni fa sono andata in Grecia con una ragazza (amica di amiche) in cui si era manifestata da 2 anni.
So bene che questa malattia viene curata in una clinica di Pavia, con cui ho contatti per via del mio lavoro.
In breve, ho promesso di informarmi e di aiutare questo ragazzo a portare la sorella da noi, nella speranza che possa essere curata (ovvero che la degenerazione possa essere fermata a uno stadio accettabile, perché non si guarisce da questa malattia).
Dentro di me, una vocina mi chiede perché lo faccio. Sì, certo, perché mi piace sentirmi nobile e utile. Ma c'è anche dell'altro.
Facciamo un esempio, che forse fa capire meglio. Di solito, dalla pediatra le persone che devono solo fare una ricetta o un certificato passano davanti a tutte le altre. Per un motivo ovvio: non c'è motivo per cui debbano aspettare, dal momento che non necessitano di una visita, a differenza delle altre. Io non ho mai fatto storie per far passare queste persone, né per dare la precedenza a chi aveva bisogni particolari.
Una settimana fa, è toccato a me andare dalla pediatra per un certificato. La mamma che doveva entrare ha protestato per il fatto che volevo "passare avanti", mi ha detto che stava aspettando da un'ora il suo turno, che ne aveva fatta passare già un'altra solo col certificato, eccetera. Mi ha chiesto, ironicamente, che cosa doveva fare secondo me. Io le ho risposto serenamente che io ho sempre ceduto il passo a chi doveva solo fare una ricetta o un certificato, quindi mi aspetto che gli altri si comportino nella stessa maniera con me.
Ecco dove voglio arrivare: se ho sempre dato volentieri, non mi vergogno di chiedere.

lunedì 11 ottobre 2010

Nobody's Wife

Confesso: per vari motivi, non sono riuscita a vedere Munich tutto in una volta. L'ho centellinato lungo più di una settimana, con l'effetto (indesiderato) di assaporarne ogni sensazione.
Più di tutto, non mi colpiscono la violenza delle azioni rappresentate o l'insensatezza di un conflitto alimentato a tavolino dai protagonisti della Guerra Fredda. Mi colpisce che un uomo a cui sta per nascere una figlia accetti un incarico così pericoloso. Non tanto perché rischia di morire, quanto perché espone la propria famiglia al rischio di ritorsioni (e infatti nell'ultima parte del film se ne accorge).
A 18 anni, quando la mia famiglia era solo quella di origine, non mi sarei fatta tanti scrupoli. Dieci anni dopo, tutto era già cambiato: amavo Luca e aspettavo Amelia. Avevo già perso la libertà.
Perché di questo si tratta: di libertà.
Facciamo un salto indietro di più di 10 anni: ho 23 anni, mi sono laureata col massimo dei voti nel minimo dei tempi, faccio un master con altre 29 persone interessanti, giovani e appassionate. Mi devo sposare, lui si tira indietro. Io ne soffro, OK. Ma, ripensandoci, non riesco a credere che nel mio dolore ci fosse più di un 10% di autentico rimpianto per quell'uomo contro un buon 90% di orgoglio ferito.
Riprendo ad uscire oltre le 23 (sic), e stavolta ho un gran bel gruppo di amicizie con cui farlo: serate in discoteca, weekend al mare, giornate a scorrazzare per le cantine dell'Oltrepò. Sul lavoro le cose cominciano a girare bene: faccio cose interessanti, ho colleghi piacevoli con cui lego, mi sento brava. Non sento il bisogno di un uomo. Non di uno solo, almeno: me ne prendo quanti ne voglio, a seconda del mio umore.
Mi sento come la fenice: dalle ceneri di una ragazza spenta in un rapporto di comodo, nasce una donna che si sente potente e invulnerabile, più che umana. Non un malanno, non fastidio.
Vivevo una sensazione di straniamento: mentre intorno a me molte amiche puntavano a fidanzamento e matrimonio, io mi sentivo fluttuare al di sopra di quella quotidianità, non mi interessava. Non a caso mi identificavo nelle parole di una canzone di Dido: I want to be a hunter again, I want to see the world alone again, to take a chance of life again.
Io lavoravo, scrivevo, vivevo da sola: non desideravo niente di più.
In quel periodo, se ne avessi avuto le doti fisiche e mentali, avrei potuto facilmente dedicarmi a una professione che mi esponesse al pericolo: mi sentivo non tanto come una che non ha niente da perdere per disperazione, tutt'altro, piuttosto come una che non può perdere perché ha la buona sorte dalla sua.
Poi la vita mi ha tirato qualche scherzetto: qualcuno brutto, ovvero quando la società per cui lavoravo nel 2003 è fallita. E qualcuno veramente orribile, ovvero quando ho conosciuto Luca e ho istantaneamente desiderato fare una figlia con lui.
Da quel momento, sono ritornata umana e vulnerabile. Se fossi una persona con una professione pericolosa, non sarei preoccupata tanto per me: sarei terrorizzata all'idea che qualcuno possa ferirmi attraverso mio marito o i miei figli.
In poche parole, ho perso per sempre la mia libertà. Niente più deliri di onnipotenza, niente più azzardo se non attentamente calcolato. Ho fatto il Concorso per avere il Posto Fisso. Non posso dire: tra 6 mesi, se non trovo niente di interessante in Italia, mollo tutto e cerco fortuna altrove.
Non fraintendetemi: non mi sto lamentando. Ci ho guadagnato in ricchezza interiore, in modo incommensurabile. Sono felice di amare così tanto.
Ma, da qualche giorno, la me stessa di 10 anni fa mi sta fissando. Mi dice che anche lei era felice, e per lei tutto era facile, tanto che a volte si costruiva qualche complicazione sentimentale per non annoiarsi. Mi dice che la libertà e la solitudine erano il mio elemento, che ero felice di lavorare 12 ore al giorno, che potevo fare qualsiasi cosa senza pensare alle mille conseguenze.
Vorrei che un giorno quella me stessa trovasse pace, che andasse a incarnarsi in qualcun altro più adatto di me a realizzare i suoi sogni.

lunedì 4 ottobre 2010

Il caos fuori

A volte il weekend è davvero un momento di calma, per stare a casa, fare biscotti con i bambini e lunghe passeggiate nel bosco o nelle stalle. Ci si coccola un po' di più, si vede un bel film, si dorme di più.
E poi invece ci sono i weekend in cui ci si diverte, ma si arriva al lunedì pronti per dormire due giorni.
Guardate le mie occhiaie e indovinate a quale tipologia apparteneva lo scorso weekend.
Esatto, la seconda.
Abbiamo cominciato venerdì sera andando a una fiera enogastronomica. Abbiamo proseguito sabato mattina preparandoci per andare a Voghera per un'occasione particolare, che poi abbiamo scoperto essere saltata. Allora, dal momento che la casa lo esigeva, abbiamo dedicato la mattina a riordinare e pulire. Meno male che è passata un'amica per un tè, così ho fatto volentieri quattro chiacchiere e le ho rifilato una bella quantità di vestiti che ormai non vanno più bene ai miei bambini (sono diabolica: con la scusa di fare un favore, mi tolgo di casa l'ingombro).
Nel pomeriggio siamo andati a Vigevano per la mostra di bonsai dell'associazione dove Luca frequenta un corso. E io mi sono fatta intortare da un ex parà ed ex mercenario che mi ha raccontato un pezzo della sua vita (ovviamente mio marito, che lo conosce da ben più tempo di me, non sapeva nulla di questo suo passato).
Da Vigevano, a tutta velocità, eccoci arrivare in zona Fiera per l'inaugurazione della scuola di danza dove frequenterò il mensile della mia maestra. E qui mi fermo, perché ho notato una cosa dei miei figli che mi innervosisce.
In aula, stavano facendo attività specifiche per bambini. Non dissimili dal corso propedeutico di musica che avevamo fatto due anni fa, dove avevo già notato questa tendenza.
Il nocciolo del problema è tutto qui: quando ci sono attività che coinvolgono altri bambini e contemporaneamente ci siamo noi, i nostri figli ci si attaccano addosso come patelle e si rifiutano di partecipare alle attività. Quando poi le attività cessano e c'è tutt'altro, si sciolgono e si scatenano (vedi sabato, quando si sono impossessati dei veli delle varie ballerine e ci hanno giocato per una buona mezz'ora dopo la fine dello spettacolo).
Al di là del mio nervoso, che è istintivo e me lo tengo, quello che mi dà da riflettere è: ma siamo sicuri che le attività "per bambini" siano proprio come le vorrebbero i bambini? Se fossero così irresistibili, i miei figli vincerebbero in tempi ragionevoli la ritrosia e ci si butterebbero.
A me personalmente, di queste attività dà fastidio che non ci si comporti come ci si comporterebbe come con degli adulti. Il che da un lato va bene, perché adulti non sono, però trovo vagamente inquietante questo cambiare faccia quando si parla con i bambini, come se loro vivessero in un mondo ovattato e facessero fatica a capire espressioni diverse dal sorriso. Temo che a volte non ci rendiamo conto che siamo noi a far fatica ad entrare in contatto con loro, non il contrario.
Con questo non voglio dire che, quando insegno, non sorrido. Anzi, lo faccio spesso per smorzare la fatica dell'apprendimento. Ma non ho quel sorriso tra l'ebete e il recitato che molti usano quando si rapportano ai bambini. E non uso musiche in funzione dell'età delle mie allieve, ma di quanto sono adatte a ciò che voglio insegnare (sentita da una mamma, sabato: "ma non usano musiche da bambini").
Poi, per quanto riguarda il "problema" specifico dei miei figli, mettiamoci dentro una dose di timidezza, il posto e le persone ancora da conoscere, il fatto che ci fossero 3 bambini più grandi che facevano un po' banda.
Il giorno dopo è stato ancora più caotico: c'era la festa del paesello e contemporaneamente venivano i miei suoceri a pranzo. Con la scusa di prendere burro e pecorino per i ravioli, ci siamo fatti un primo giro prima che arrivassero gli ospiti. Poi, con i bambini tutti esaltati dal fatto che ci fossero i nonni, ne abbiamo fatto un secondo (anche per vedere gli asini che avrebbero corso più tardi). Partiti i nonni e arrivata una mia amica da Milano, ce ne siamo fatti un terzo, con tanto di giostre incorporate (la prima volta che i miei bambini vanno sulla calcinculo, che emozione!).
Una bella giornata in tutti i sensi: sia perché abbiamo coltivato un po' la famiglia sia perché con questa amica riusciamo a vederci fuori dall'ambiente di danza una volta ogni secolo ed è proprio piacevole quando ci riusciamo.
Siamo tornati a casa all'ora di cena, con nessuna voglia di cucinare (per fortuna c'erano in casa mozzarelle e verdure per fare l'insalata) e con un bel mal di pancia da ciclo (io). Mi sarei aspettata che i bambini fossero morti di stanchezza, e invece abbiamo dovuto convincerli per metterli a letto, ciascuno con il suo palloncino legato al letto. Poi siamo svenuti anche noi.
Stamattina pioveva.