lunedì 31 gennaio 2011

Un altro mercato

Poco prima di Natale, ho comprato su eBay alcuni albi della Marvel: si tratta della trasposizione a fumetti delle storie di Anita Blake.
Si tratta di albi sottilissimi di 22 tavole, fatti di carta patinata scarsissima tipo guida TV, che costano più o meno come un Bonelli ed escono con cadenza mensile. Questo significa che un lettore americano, a fronte della stessa spesa di un appassionato di Dampyr, legge circa un quinto. Altrimenti può armarsi di santa pazienza e comprarsi il volume intero a pubblicazione terminata, alla modica cifra di 35 dollari per 320 pagine (pensiamoci, la prossima volta che ci lamentiamo di un Romanzo a fumetti a 6 euro).
Se poi contate che un solo capitolo di 120 pagine costa quasi 20 dollari, esattamente la stessa cifra di un volume di Age of Bronze, beh, direi che mi sono spiegata.
Fin qui, non avrei nulla da obiettare: la storia di Anita Blake è tosta e originale. Non la solita storia d'amore tra il vampiro romantico e l'umana. Non la classica storia d'avventura in cui la fanciulla si fa salvare dal cavaliere di turno. Adoro il suo strano legame con Edward, che mi ricorda molto il modo in cui ho impostato il rapporto tra Viola e Stefan. Mi fa molto ridere il modo in cui tratta Jean-Claude, da cui è attratta ma che considera poco più che un vampiro sociopatico.
Insomma, Anita Blake è un giocattolone divertente, almeno fino al nono romanzo. Più in là non ho letto, ma, visti i riassunti degli sviluppi successivi, temo che stiamo degenerando.
Quindi non mi stupisco che l'autrice di Anita stia cercando di sfruttarla in ogni modo: io farei lo stesso, fosse anche soltanto per la soddisfazione di vedere i miei romanzi trasposti in fumetto o in serie TV.
Quello che mi irrita e stupisce è il contesto in cui si sviluppa questa operazione. Prima di tutto, gli albi da edicola sono zeppi di pubblicità: 10 pagine su 22 tavole. E non stiamo parlando della pubblicità di Topolino, messa tra una storia e l'altra: qui la pubblicità è davvero invadente e sgradevole. Tanto più che l'albo non te lo regalano.
Inoltre, il tipo di pubblicità mi irrita e nello stesso tempo mi pare fuorviante: si tratta o di altri prodotti Marvel (e qui ci starei anche) o di giocattoli tipo Big Jim che praticano wrestling o di pubblicità dell'esercito USA. Ma allora a chi ci stiamo rivolgendo? Anita Blake - romanzo è letto principalmente da donne, si presume che il fumetto sia per ragazzini? È solo pigrizia mentale o un consapevole tentativo di allargare il proprio target? E come si concilia il marchio "Adult content" con i giocattoli? E come si conciliano i giocattoli con l'esercito?
Non sto scrivendo queste cose per dire che gli editori di fumetti italiani sono più corretti e attenti alla qualità o per denigrare il pubblico americano.
È solo che, tempo fa, c'era un dibattito in rete: gli e-book possono contenere pubblicità? Se sì, questa dovrebbe abbassare il costo? Ci può essere scelta tra e-book gratis zeppi di pubblicità e e-book a pagamento ma vergini?
Un dibattito del genere ha un senso diverso, se riferito alla nostra realtà o alla loro. Gli americani accettano cose che per noi sono impensabili, salvo poi magari strapparsi i capelli davanti alle conseguenze.
Per esempio: se io conoscessi i fumetti solo tramite l'editoria americana, mi verrebbe da pensare che sono destinati a un pubblico di bambini deficienti. Quindi, se fossi un autore americano che accetta di fare parte di questo sistema, non potrei più di tanto lamentarmi se il mio lavoro venisse svilito.
Certo, leggere 100 pagine di Bonelli o StarComics prive di pubblicità (o al limite con qualche segnalazione di libri da acquistare) cambia completamente la prospettiva. Soprattutto se si pensa che le grandi case editrici in Italia vengono considerate schifosamente commerciali, di contro ai piccoli editori autoriali. Ma che cosa succederebbe, se per poter pubblicare fumetti d'autore StarComics o Aurea mettessero una pubblicità ogni 3 pagine di un bonellide da edicola?
Questo non è una questione che riguarda solo il mondo del fumetto: teniamola a mente anche quando parliamo di marketing in generale e del fenomeno dei blog professionali.

giovedì 27 gennaio 2011

Se non parlo

Se non parlo della Shoah, non è per indifferenza. Anzi.
È un evento che mi tocca molto nel profondo, ma non mi sento in diritto di parlarne. Io non sono ebrea, non sono omosessuale, non sono zingara.
Non riesco a capire come ci si possa basare sulla genetica delle persone per sterminarle.
Sulle idee e sulla religione, ancora ancora sì, lo capisco. La genetica mi sembra una follia, anche se fu una follia ben redditizia per chi sequestrava i beni dei deportati.
Persino l'Inquisizione, che incriminava sulla base del credo, lasciava una via di salvezza (che magari in alcuni casi non era preferibile alla morte o si concretizzava in una morte più misericordiosa): se ti convertivi, se abiuravi, se baciavi il crocifisso e prendevi la comunione, se ti confessavi.
Ma la genetica non lascia scampo: le conversioni non ti salvano, puoi solo andare e morire. E in realtà la scelta di uccidere della gente sulla base della loro nascita ci coinvolge tutti: e se domani decidessero di sterminare chi è sotto il metro e sessanta? Io sarei fregata.
Per molti ebrei che sono morti nei campi di sterminio, essere ebreo non era molto diverso dal mio essere bassa: molti di loro erano discendenti di ebrei convertiti o indifferenti alla propria religione, alcuni hanno ignorato o non si sono curati di avere antenati ebrei fino alla promulgazione delle leggi razziali.
Il pensiero dell'assurdità che è stata perpetrata con la Shoah (così come con il genocidio degli armeni e tante altre stragi che non ci riguardano così da vicino) mi rattrista e mi spaventa.
Ecco perché non parlo volentieri della Shoah, ma preferisco ascoltare gli altri.

martedì 25 gennaio 2011

Coerenza senza sforzo

MdiMS loda la mia coerenza. E a me vien da pensare che non è che io faccia molto sforzo per mantenere la mia coerenza in materia di religione: io e mio marito siamo atei, non ci siamo mai trovati nel dilemma di iscrivere i nostri figli a una scuola confessionale (per necessità o comodità), alla materna nessuno ha mai fatto pressioni perché scegliessimo di avvalerci dell'IRC, i miei figli sono ancora piccoli o immaturi e non mi fanno grandi domande sui massimi sistemi.
In più, i miei figli non sono i soli a non frequentare religione, quindi non si sentono isolati. E, anche se si sentissero "diversi", non credo che, col carattere che hanno, ciò si trasformerebbe in un problema generalizzato. Dal mio punto di vista, potrebbero sentirsi diversi perché hanno una famiglia atea così come perché hanno un papà bizzarro o una mamma che non si mette i tacchi. Anzi, almeno in certi ambienti essere atei fa figo, mentre pulire resti di topo dal pavimento o non essere antiOGM sono attività e atteggiamenti più out.
Il fatto è che io sono coerente perché da questo punto di vista sono una pessima madre: non riesco a pensare più di tanto alle conseguenze delle mie convinzioni sulla vita dei miei figli. O forse, se proprio dovessi trovare una scusa alla mia indifferenza su questo punto, direi che trovo più educativo mantenermi su una certa posizione (comunque non fanatica, ma netta) piuttosto che cercare una conciliazione.
Anche perché non sono una pecorella pigra che non va più a messa o una persona dilaniata tra spiritualità e chiesa: sono atea. Dio per me è come Babbo Natale o la fatina dei denti: una bella favola raccontata per consolare o per passare valori positivi. Ma non riesco a crederci. E non ne sento neppure il bisogno, perché l'esistenza di uno o più dei non cambierebbe per niente né la mia vita né il modo in cui la vivo: se un domani dovessi morire e scoprire che hanno ragione i credenti, penso che un'eventuale divinità non avrebbe molto da rimproverarmi, se non il fatto che non ho creduto in lei.
Per i morti stesso discorso: a parte che credere in Dio non significa necessariamente credere all'immortalità dell'anima e viceversa, io non riesco proprio a pensare che, danneggiato il corpo, qualcosa possa sopravvivere. Sopravvivrà il mio ricordo, magari legato a oggetti che possano aiutarlo (foto, cose che ho scritto, cose che ho posseduto). Ma penso proprio che la mia coscienza si spegnerà per sempre, e ciò mi mette addosso una paura fottuta della morte, ma anche una grande determinazione a vivere la mia vita al meglio.
Ovvio che ai miei figli non dico "il tale è volato in cielo" ma "il tale è morto". Non mi sono ancora trovata nella necessità di spiegare la morte di qualcuno che loro hanno conosciuto da vivo e spero di trovarmici il più tardi possibile, ma non penso che potrò edulcorare la realtà per i miei figli.
È noncuranza? Pigrizia? Sincerità? Un misto. Dopotutto, ritengo che la cosa peggiore da perdere sia la fiducia dei miei figli, motivo per cui anche un solo piccolo tradimento come quelli che tanti fanno (vedi alla voce "scappare di nascosto da scuola su sollecitazione della maestra") mi scoccia da morire.
Per la stessa ragione, niente Babbo Natale a casa nostra: per i miei figli è una figura che si vede a scuola e per la strada, ma i regali li portano le persone che ci amano. Babbo Natale è un simbolo e una fiaba, punto.
Ripeto: può essere pigrizia, solo perché non ho voglia di fingere. Ma perché nel nostro mondo la sincerità è così importante, tranne che con i bambini?

venerdì 21 gennaio 2011

Non capisco

Avvertenza: questo è un post di seghe mentali narrative, pieno di spoiler. Quindi, se non siete interessati e passate oltre, avete tutta la mia comprensione.


Come avrete intuito dal mio ordine Amazon, sto leggendo il ciclo di Troy di David Gemmell. Non sono una grande fan del fantasy, ma conoscevo Gemmell per avere letto 5-6 anni fa uno dei suoi pochi romanzi autonomi (ovvero non facente parte di una saga o di un ciclo), "Eco del grande canto". Mi era piaciuto abbastanza, nonostante fosse più nelle mie corde adolescenziali che in quelle adulte: un bel drammone di avventura con condimento di amore, valore, amicizia e altri valori altisonanti.
Quindi, uno scrittore così mi sembrava adatto a ri-raccontare la guerra di Troia. Mi sbagliavo.
Già la recente rilettura dell'Iliade avrebbe dovuto suggerirmelo: Omero è molto meno retorico di quanto ci ricordiamo (probabilmente colpa della traduzione di Vincenzo Monti). Sotto gli strati del linguaggio epico e dei suoi tic (gli epiteti, gli elenchi, le divagazioni), i personaggi di Omero emergono nella loro verità. Sono eroi in battaglia (ma molto meno di quanto ci aspetteremmo, abituati come siamo a supereroi e videogiochi), ma nella vita di tutti i giorni sono esseri umani che cercano di fare del loro meglio. Sono persone dai rapporti poco complicati, che vivono a tutto tondo la loro umanità. Probabilmente ciò è il risultato del fatto che la società di allora era ancora molto semplice e poco stratificata: parliamo di un tempo in cui il principe Anchise da ragazzo faceva il pastore e i lavori specializzati spesso erano appannaggio di chi non poteva fare altro (i ciechi diventavano aedi e gli zoppi facevano i fabbri o i vasai). Parliamo di un tempo in cui, non potendo andare alla fiera del bianco a comprare la biancheria di casa, regine e popolane tessevano e cucivano ciò che serviva.
Nel mondo di Omero, gli stereotipi del nostro tempo sembrano sfumare l'uno nell'altro. Ettore è un forte guerriero, ma non si vergogna di essere tenero con suo figlio né si fa problemi a rimproverare suo fratello Paride. Achille è un eroe, ma si impunta per una questione d'onore e si abbrutisce fino alla follia per la morte di Patroclo (salvo poi intenerirsi di fronte a un padre che lo implora di restituirgli il cadavere di Ettore). Insomma, nessuno sembra essere troppo stretto nella sua figurina.
Altra cosa importante: nel mondo di Omero, la gente vive nel presente. Paride è stato abbandonato perché un indovino disse che avrebbe portato rovina a Troia, ma non lo rinfaccia a nessuno. Elena è l'unica che ogni tanto ravana nel passato, chiamando se stessa "cagna" e ricordando di essere la causa della guerra, ma Ettore la tratta come se niente fosse, tanto sa benissimo che son tutte scuse per attaccare Troia. Se sono stati fatti degli errori, la gente cerca di rimediare superandoli: la sega mentale è bandita.
Forse è per questo che gli angloamericani sono geneticamente inadatti a raccontare le vicende omeriche: se non c'è un'infanzia triste o un conflitto col padre, lo scrittore/sceneggiatore angloamericano non si sente soddisfatto.
Ed ecco che in Gemmell Anchise si trasforma da saggio paterfamilias, custode di Lari e Penati, in spietato padre manipolatore, che disprezza Enea e cerca di farlo uccidere, lasciandoci lui le penne. Perché? L'eroe non poteva voler bene a suo padre e aver avuto un'infanzia felice? Evidentemente no. Va' a capire perché.
Stesso discorso con Priamo, che diventa un re avido e furbo, odiato (a ragione) da quasi tutti i figli tranne Ettore. Ci sta che tra tutti quei figli ce ne fosse qualcuno che tramava, ma perché dovergli dare anche la giustificazione morale / affettiva? Anche se Priamo fosse stato buono e gentile, era assolutamente plausibile che uno dei suoi figli minori o bastardi cospirasse contro di lui, per avere il potere.
Poi, altra cazzata suprema che piace tanto agli angloamericani: il matrimonio d'amore. Se vuoi vedere due che si sposano per amore, ambienta la tua storia nel XX secolo o in un mondo di fiaba. Nel 1200 a.C., ci si sposava per procura e nessuno aveva niente da obiettare. L'amore veniva dopo, se era il caso. Se no, ci si consolava con i figli.
Invece Enea giura che non si sposerà se non per amore. Ulisse ed Ecuba gli accennano al fatto che l'amore non è previsto prima del matrimonio, ma lui si comporta come un adolescente (vedi alla voce Twilight). Poi si innamora di Andromaca.
E questo mi dà l'occasione di dirvi l'ultimo motivo per cui non mi piace l'operazione di Gemmell: si comporta come uno scrittore di fanfiction. Non rispetta il vero spirito delle vicende omeriche e della mitologia greca, né cerca una verità storica al di là del mito (come invece mi dicono faccia The Age of Bronze). Usa i personaggi di Omero come figurine, rimescolandone e spesso rovesciandone specularmente le caratteristiche. Anche in cose minime, tipo rendere biondo un Ettore che Omero ci descrive come moro.
È un giochino che ci sta, ma a questo punto perché non trasferirlo del tutto su un piano di pura invenzione? Perché mantenere il riferimento alla guerra di Troia, quando ormai hai stravolto tutto? La storia in sé non è brutta né scritta male. Però, leggendo quei nomi familiari, mi sento come se qualcuno un giorno raccontasse la storia della mia vita cambiando i miei sentimenti e le mie relazioni con tutte dico tutte le persone che ho conosciuto. Per carità, quando sarò morta chiunque potrà dire qualunque cosa su di me, ma mi scoccerebbe se raccontassero che ho avuto una relazione lesbica con la mia maestra di danza e che disprezzavo mio marito: se vuoi raccontare la storia di una che ha avuto certe vicende, non usare il mio nome perché questa non è la mia storia.
Comunque penso che nemmeno gli dei abbiano gradito l'operazione di Gemmell, che è tristemente morto in modo abbastanza simile a quello che i Greci chiamavano "il dardo di Apollo". Scherza con i fanti...

lunedì 17 gennaio 2011

Vendere gioia

Ieri ho fatto un'esperienza molto bella: ho lavorato a un chioschetto che, all'interno di Eataly, distribuiva assaggi dei formaggi dell'azienda dove lavora Luca. Eravamo in 4: lui ed io, il titolare e la moglie.
Abbiamo venduto tantissimo (ma pare che in questo genere di promozione si venda 5 volte di più del normale), abbiamo parlato con un sacco di gente e abbiamo scoperto un mondo che mi era stato nominato più volte, ma che avevo solo sfiorato.
Per chi non lo sapesse, Eataly è una specie di superstore della gastronomia di qualità, legato ai presidi Slow Food e a iniziative di promozione dei prodotti tipici e genuini. Da pochissimi giorni, Eataly vende anche i formaggi delle Cascine Orsine ed è per presentare i nostri prodotti che ci è stata data la possibilità di promuoverli nello scorso weekend.
Eravamo posizionati ovviamente nella zona salumi&formaggi, al confine con la zona della carne e con una buona visuale sul banco delle verdure.
Ecco, io non so chi sia Farinetti e perché al proprietario dell'acqua Lurisia possa convenire mettere su Eataly invece di vendere tutto alla prima multinazionale e andare a godersi i soldi alle Bahamas. E non voglio neppure stare a speculare sul giro d'affari di Slow Food, di cui condivido la filosofia di fondo ma non sempre il modo in cui viene attuata, tantomeno le battaglie.
Mi limito a raccontarvi quello che ho osservato ieri e a spiegarvi perché mi sono sentita bene, nonostante le 6 ore in piedi e la sfacchinata di andare e venire da Torino in 24 ore con figli a carico (gentilmente babysitterati dai nonni locali).
La mia prima impressione, entrando nel negozio alle 10 del mattino, è stata di serenità e armonia. Mutatis mutandis, lo paragonerei a IKEA: una comunicazione pacata, la cura del dettaglio anche nel disporre le cipolle, la spiegazione delle scelte aziendali (per esempio, quella di non mettere il numerino al banco dei formaggi).
La seconda impressione, data dal giro di "perlustrazione" prima che cominciasse ad arrivare il grosso della gente, è stata quella di essere nel paese dei balocchi: che bella carne, che bel pesce, che belle verdure, quanti formaggi, che figata l'angolo dei libri (alcuni tra l'altro molto economici, nonostante fossero rilegati), oddio quanti utensili meravigliosi, impazzisco per la gazzosa e il chinotto della Lurisia, che profumo dall'angolo pizze e focacce, il chioschetto della gelateria San Pè.
Poi abbiamo cominciato a darci sotto con assaggi e vendite: tra le 10.30 e le 12.30 c'è stato un afflusso pazzesco di gente, sembrava che tutti volessero i nostri formaggi. Credo che, se avessimo messo all'asta le ultime vaschette di spettinato o l'ultima fetta di nostrano, le avremmo vendute per una bella cifra.
Il contatto con la gente è stato di due tipi: da un lato i clienti e dall'altro i dipendenti di Eataly. Questi ultimi erano tutti mediamente giovani e davano l'impressione di trovarsi proprio bene a lavorare lì, nonostante fosse domenica: sorridenti, gentili, non mancavano mai di scambiare due parole con i clienti (tipo la ragazza del banco verdure, vedendomi tirare fuori la borsa-palla di Decathlon: "Che figata! Dove l'hai presa?"), sembravano formare una squadra affiatata. Mi hanno ricordato il clima che si respirava nel mio master o nel mio primo posto di lavoro.
I clienti non mi sono sembrati molto diversi da quelli che vedo nei supermercati, ma con una differenza: tutti i loro bambini, da neonati a grandicelli, mi sono sembrati educatissimi, contenti e curiosi. Un'atmosfera molto diversa da quella dei bambini lagnosi trasportati nei carrelli della spesa al Bennet o all'Esselunga. Insomma, erano bambini in grado di non risvegliare l'Erode che c'è in me, nonostante fosse quasi ora di pranzo (e quindi un po' di nervosismo poteva starci, da parte mia e loro).
All'ora di pranzo, attirata da una tagliata bellissima, ho insistito brevemente con Luca per andare al ristorantino della carne. Io ho preso la famosa tagliata (ottima, ma secondo me di qualità leggerissimamente inferiore a quella delle Cascine Orsine) e ho molto apprezzato che fosse accompagnata non da una foglia di insalata simbolica, ma da qualche patata arrosto e da una bella insalatina di valerianella (volgarmente detta "galinetta" in dialetto pavese). Luca ha preso il goulash, ma ne è stato un po' deluso (abituato ai miei stufati e spezzatini, l'ha trovato un po' duretto).
Alla fine della giornata, mi sono ritrovata a pensare di aver sbagliato tutto il mio percorso professionale: forse non sarei tagliata per produrre cibo, ma venderlo è veramente il mio mestiere. Lo vedo come una missione, perché vendere buon cibo significa garantire agli altri un momento di piacere e di gioia.
E mi sono ritrovata a pensare con nostalgia alla macelleria di mio nonno.

giovedì 13 gennaio 2011

Customer satisfaction

Confesso: ho ceduto al fascino assassino di Amazon.it
Sono stata attirata dall'abbonamento annuale che annulla le spese di spedizione. E dal fatto di poter avere una scelta ben più ampia che su ibs o bol. Oltre al fatto che su Amazon ho passato un sacco di tempo in più che sui suoi omologhi italiani, quindi mi sento più a mio agio.
Nel mio primo ordine, tuttavia, ho fatto una cazzata: non mi sono accorta che la spedizione di default era quella a scaglioni (ovvero: invece di fare una spedizione unica, ti spediscono la roba man mano che vien pronta). Risultato: 3 pacchetti per 4 oggetti (3 libri + 1 DVD). Oltretutto, i 3 pacchetti sono arrivati tutti e 3 oggi, nonostante la cosiddetta "tentata consegna" di ieri.
Dico "cosiddetta" perché sul sito del corriere ieri risultava che il corriere era passato alle 12 e, non trovandoci, aveva lasciato l'avviso. Peccato che nella mia cassetta delle lettere l'avviso non ci fosse. E peccato che sulla mia porta ci sia un cartello taglia A4 che dice "Se non siamo in casa, i pacchi per Lanterna e famiglia vanno consegnati al caseificio o in negozio" con tanto di cellulare di Luca. Va da sé che consegnare in ufficio o in negozio comporta lo stesso sforzo che in un residence corrisponderebbe al consegnare in portineria. Altrimenti non mi permetterei di chiedere una cosa simile.
Per segnalare che il corriere non aveva lasciato l'avviso, vado sul sito di UPS. Non è contemplato il mio caso: ogni volta che cerco di segnalare qualcosa riguardo il mio pacco, mi fornisce solo le informazioni che già so e non mi dà la possibilità di comunicare alcunché.
Allora chiamo, dopo aver cercato un numero verde ed essermi rassegnata a chiamare direttamente il numero della filiale di Milano. Al primo tentativo, sbaglio percorso e mi ritrovo a ricevere di nuovo le informazioni sul pacco, senza poter segnalare nulla. Allora vado su un generico "altri problemi" e finalmente parlo con un'operatrice. Gentilissima, professionale.
Le faccio presente l'accaduto e inoltre le dico che è strano che il corriere non abbia seguito le indicazioni del cartello sulla porta: lo fanno tutti, anche solo per evitare di rifarsi lo sterrato il giorno dopo. Lei in un primo tempo mi dà la risposta standard ("i nostri autisti non sono tenuti a seguire indicazioni che non vengano dalla ditta"), in seguito quando riaccenniamo alla cosa le scappa un "eh, ma sa, molti sono stranieri". Boh, a me questa scusa l'hanno data un po' troppe volte. Capisco se uno facesse il bracciante o l'uomo delle pulizie. Ma, se fai il trasportatore, non ci credo che non sai leggere il cartello ben visibile sulla mia porta.
In sostanza, io credo che il trasportatore non avesse tempo/voglia di arrivare a casa mia e abbia detto la balla di essere passato. Lo dico anche all'operatrice, e lei in parte concorda in parte mi dice che, se domani il trasportatore trova un'altra scusa per la mancata consegna, si segnala la cosa in direzione.
L'operatrice si segna le indicazioni da dare al trasportatore (identiche a quelle sulla porta) e chiude la telefonata.
Da un lato, sono soddisfatta perché ho parlato con una persona gentile e attenta, che ha risolto efficacemente il mio problema.
Dall'altro, mi faccio due domande:
1 - perché è stato così difficile trovare il modo per far presente il mio problema? Secondo me c'erano altri modi, senza dovere per forza parlare con un operatore (il che, mi rendo conto, fa lievitare i costi della customer care)
2 - perché i trasportatori dei corrieri sono così mostruosamente impreparati e non professionali, rispetto ai trasportatori di tutte le altre categorie (e badate che, con Luca che lavora in un caseificio, ne conosciamo di trasportatori)?
A questi due dilemmi amletici, se ne somma un altro. Premetto che i 3 pacchetti erano trasportati 1 da UPS e 2 da SDA. Quello di UPS, come detto, è stato consegnato al secondo tentativo e dopo il mio intervento, mentre quelli di SDA sono arrivati al primo colpo. Che cosa significa? Che il singolo corriere UPS era meno sveglio o meno volenteroso del singolo corriere SDA? Che le istruzioni date ai corrieri UPS sono più rigide e meno orientate al risultato? Che UPS ed SDA hanno diverse politiche di retribuzione e/o "premio", e quindi magari il corriere UPS ha meno interesse a consegnare al primo colpo?
Fatto sta che la mia prima esperienza di consegna con Amazon Italia non è stata perfettamente felice e che sicuramente, se ne troverò l'occasione, segnalerò che mi sono trovata meglio con SDA. Sarebbe bello che anche le aziende online (e gli acquirenti online) avessero i punteggi di feedback come su ebay...

PS: in tutto questo, ho preso la trilogia di Troy di David Gemmell. Questo vi da un piccol(issim)o indizio su ciò che sto scrivendo adesso. Il prossimo passo saranno alcuni volumi della Osprey.

mercoledì 12 gennaio 2011

Basta un raggio di sole

Non è stato un brutto rientro, questo. A parte l'inserimento di Ettore, che dopo quella brutta impressione iniziale sembra andar bene, il lavoro c'è ma non è frenetico, gli orari non sono da cardiopalma, tutto è serenamente inquadrato nel suo tran tran. Ho due cose da scrivere al più presto, ma non sono ancora in ansia da scadenza.
Oddio, forse qualcuno direbbe che sono troppo rilassata. Può darsi. Probabilmente, da quando ho il part-time e Ettore non va più al nido, non sento più quell'eterna morsa ai garretti, tipica di chi in 15 km deve fermarsi almeno 2 volte e quindi finisce a metterci quasi un'ora ad arrivare a casa/lavoro, nonostante non debba andarci a piedi.
Oppure può essere semplicemente che 19 giorni di vacanza (uniti al fatto che per tutto dicembre i bambini sono stati a casa) mi abbiano fatto davvero bene. Mi sono goduta mio marito, i figli, gli amici e i parenti, la casa, il mare. Nonostante i 6 giorni di antibiotico in mezzo, oltretutto. Mi sono anche goduta una botta di creatività che lévati.
In più, oggi il sole è riuscito a bucare la nebbia e speriamo che il bel tempo ci accompagni per un po'. Sì, lo so che il sole l'ho visto anche a Levanto, per ben 3 giorni, ma questo ultimo anno e mezzo è stato talmente brutto e piovoso da farmi aggrappare ad ogni raggio di sole.
E speriamo che i prossimi mesi siano un po' più asciutti, con buona pace degli agricoltori e dei bonsai di mio marito.

lunedì 10 gennaio 2011

Il primo giorno

Eccomi, sono tornata in ufficio e sono qui, in attesa di una telefonata. Quella di Luca che è andato a prendere Ettore dopo il primo giorno di scuola materna.
Sono un po' in ansia, perché stamattina non è andato tutto come avrei voluto. Sono arrivata a scuola con i due bambini e la nuova maestra di Ettore non mi ha dato molto margine per poter gestire la situazione come avrei voluto. Me ne sono "dovuta" andare via quasi di nascosto, in un momento in cui lui non era pronto (ed eravamo arrivati da 2 minuti al massimo, secondo l'orologio). A tradimento, contro i miei principi (e contro ciò che ho visto essere efficace con i miei figli). Ma ho pensato che fosse più controproducente mettermi a discutere con la maestra.
Se conosco bene mio figlio, penso di poter affermare che per lui questo episodio sarà senza gravi conseguenze: è un bambino abituato al nido, c'è sua sorella, ci sono diversi bambini che conosce. E in più ha una mamma bastarda, che domani se ne fregherà delle indicazioni delle maestre e porterà i due bambini alle 8.30, ovvero a un'ora in cui potranno stare insieme per un po' nel salone comune (e sono quasi certa del fatto che in questo modo il distacco sarà ben diverso da quello di oggi, ben più naturale e sereno).
Però mi viene da non giudicare bene questa maestra, da ritenerla presuntuosa e incompetente. Mi viene da chiedermi perché non si è fidata di una mamma che ha già una figlia a scuola e ha portato i suoi bambini al nido per 4 anni, senza alcun problema di inserimento. Mi viene da chiedermi perché non mi abbia fatto completare il piccolo rito di inserimento (ovvero il trasferimento della roba di Ettore nel suo armadietto) che avrebbe ricordato a Ettore il rito di entrata del nido (dove le sue cose andavano nell'apposito cassetto): era roba da 30 secondi, dopodiché l'avrei salutato e me ne sarei andata.
Così, mi ritrovo a dover trovare una mia via per inserire Ettore, NONOSTANTE le maestre e non grazie a loro. Ché poi lo so benissimo che Ettore si inserirà senza problemi, l'ho visto tante volte e lo conosco bene. Ma mi chiedo perché, quando c'è di mezzo una struttura pubblica, ci si trovi sempre a dover fare contorsionismi e sacrifici, quando la via semplice sarebbe lì davanti a noi.

PS: per il prossimo anno scolastico, avevo pensato di far ripetere a Ettore la prima, dal momento che cambierebbe scuola e si ritroverebbe così a pari con i suoi coetanei del 2008. Ma or ora, pensando di dover riaffrontare un inserimento, mi vien così voglia di iscriverlo direttamente alla seconda e vaffanculo al mondo...