martedì 28 giugno 2011

Distanza di sicurezza

Questo weekend è stato all'insegna delle amicizie e delle preferenze di noi come singoli e non come coppia.
Io sabato pomeriggio sono stata al mio corso di trucco, poi ho fatto una piccola esibizione in piazza con le mie ragazze (e qui Luca mi ha raggiunta per fare la parte di percussioni) e infine sono andata da sola a Milano per lo spettacolo / saggio di corso di teatro della mia maestra di danza, che ha scoperto una passione per la recitazione. Luca invece è rimasto in piazza e ha suonato per le improvvisazioni delle mie ragazze e di altre danzatrici, mentre i bambini si facevano coccolare dalle mie amiche.
Domenica poi io avevo un impegno nel pomeriggio, già fissato da settimane. Allora Luca ha colto la palla al balzo per andare a trovare suo fratello, insieme ai bambini: era una bella giornata e si era dato appuntamento anche con un cugino/amico. Io ho fatto quello che dovevo, con le mie amiche, e poi siamo andate allo spettacolo di fine anno di Metiss'Art, la scuola dove insegna la mia maestra di danza.
È stata una bella serata, anche se siamo tornate tardissimo. E anche per Luca e i bambini è stato bello passare una giornata esattamente come la volevano.
Il buffo è che in macchina, andando allo spettacolo, si parlava del fatto che alcune coppie non si separano mai, neanche per una serata o un pomeriggio. E io questa cosa la capisco e non la capisco.
Capisco che il tempo libero è poco e che ti fa piacere passarlo con la persona che ami. Capisco anche che i soldi sono pochi e che, se devo fare una vacanza, la faccio con tutta la mia famiglia.
Però capisco anche che ci sono cose che sono solo mie, e a cui Luca parteciperebbe solo per farmi piacere. Per esempio, a Lucca Comics sono stata ben contenta di essere con una persona appassionata di fumetti, che poteva guidarmi e che sapeva come muoversi. Oppure al convegno di Autunnonero: il secondo giorno Luca è venuto con me, ma giusto perché è una persona curiosa che non si nega niente, non ci sguazzava come me e l'altra ragazza che era con noi.
Per me è la stessa cosa con le manifestazioni di bonsai: spesso ci vado perché, per carità, sono pur sempre cose belle e c'è sempre qualche spunto interessante dalle attività collaterali (conferenze sulla cultura giapponese, laboratori di origami o simili, ecc.), ma se potessi sceglierei altro.
Se qualcuno mi invitasse al mare in un weekend in cui Luca deve lavorare, probabilmente andrei. Se qualcuno gli offrisse un'occasione a cui io non posso partecipare, lo inciterei ad andare. Anche perché, quando si torna, i figli per qualche ora smettono di essere anche un peso e diventano solo gioia. I lavori domestici restano sempre lì, ma intanto ti sei ricaricata/o. Per un breve periodo, rompi con il circolo vizioso di sempre e puoi dare il meglio di te.

venerdì 24 giugno 2011

Il peggio di me

Sono in ufficio. Squilla il telefono e rispondo. Mi fanno domande che esulano da quello che so e devo sapere, ma consiglio, fornisco riferimenti utili, do indicazioni. Entra un docente che ha bisogno di aiuto per compilare un modulo banale, gli do una mano. A uno studente manca la fotocopia del libretto per fare domanda per un tutorato, gliela faccio io sulla nostra fotocopiatrice. Tutti quelli che hanno a che fare con me (e con le mie colleghe, beninteso) lodano la mia gentilezza e la mia pazienza.
Torno a casa, stanca (anche se a volte, tra rispondere al telefono e indirizzare persone, mi sembra di non aver fatto niente). Anzi, prima di tornare a casa passo a prendere i bambini e alla minima bizza li fulmino. Appena in casa, spesso mi si presenta un buon numero di motivi per incazzarmi o almeno essere delusa: devo portare 4-5 borse (borsetta, pranzo, lavoretti dei bambini, magari spesa) e nessuno mi aiuta (magari perché Luca si è tumulato nell'orto) oppure ho fretta di ripartire e scopro che Luca non ha ancora fatto la doccia oppure mi aspettavo di trovare la lavatrice stesa e invece non ha nemmeno raccolto quella precedente. Altre volte scopro disastri fatti dalle gatte o non ho voglia di assecondare le richieste dei miei figli.
Forse la pressione non è superiore a quella che provo in ufficio, ma a casa sbotto. Faccio le cose di fretta e incazzata, mi trasformo in una specie di caporale abbaiante, recrimino con Luca e a volte faccio la vittima. Do il peggio di me, come già mia madre.
E mi dispiace, perché loro sono la mia famiglia e meriterebbero il meglio. Ma è anche vero che, a differenza degli utenti con cui sono gentile sul lavoro, loro sono la mia famiglia, abitano lì e dovrebbero avere più a cuore quello che è il nostro bene comune. Mi aspetto di più da loro, proprio perché mi vogliono bene.
Sono io la prima a rilassarmi in pausa pranzo, ma credo proprio che se a pranzo fossi a casa come Luca farei qualcosa in più per la casa, fosse anche solo sparecchiare dopo pranzo o far partire la lavastoviglie. Lui invece, appena il clima glielo consente (ovvero, quest'anno, dai primi di marzo), mangia di fretta e corre nell'orto. Anche di pomeriggio, quando finisce di lavorare, bisogna sradicarlo dall'orto con la motosega.
Possibile che io chieda così tanto? Capirei se lavorasse ancora quando torno, ma possibile che sia così difficile immaginarsi che mi farebbe piacere trovare a casa un marito pulito e profumato, pronto ad aiutarmi con le mille borse, anziché dover trascinare via dall'orto un uomo maleodorante, ovviamente dopo essermi smazzata borse e figli? È vero, lui non mi chiede quasi niente, a parte il fatto che gradirebbe che fossi un po' meno incazzosa. Ma vorrei vedere: i figli al mattino li smazzo io (lui è già al lavoro, per carità), li vado a prendere a scuola, alla cena penso io nell'80% dei casi, la maggior parte delle volte penso io a lavastoviglie, lavatrice e relativi svuotamenti/riordini (per carità, se gli dico "fai la lavatrice" lui la fa).
OK, non sono la moglie sorridente di Pleasantville. E mi dispiace, perché a me piacerebbe di più essere contenta. Non ci godo a incazzarmi o a lamentarmi, anzi, mi sento in colpa.
Mi piacerebbe dare il meglio di me in casa. Ma per farlo dovrei avere qualche aiuto in più.

domenica 19 giugno 2011

Nanosecondo di autocelebrazione

Non parlo spesso della mia attività di insegnante di danza. Anzi, davanti alla mia maestra e alle altre allieve evito proprio: mi vergogno di fregiarmi di questo titolo, pur non avendo voluto seguire i percorsi studiati per le insegnanti (a differenza di molte mie "colleghe", non ho un diploma ufficiale né ho seguito corsi ad hoc).
Sicuramente a Milano non avrei futuro né mercato: perché una ragazza dovrebbe venire a lezione da me anziché da Francesca Pedretti o Alessandra Centonze o Sabina Todaro o una delle tante bravissime insegnanti che conosco?
A Bereguardo, non ho concorrenza. Anzi, faccio una specie di servizio pubblico: insegno a persone che probabilmente non andrebbero a scuola a Milano o Pavia.
Due anni fa, quando ho cominciato, avevo una dozzina di allieve, tutte variamente motivate: c'era quella che si voleva sentire figa, quella che veniva per fare gruppo, quella che si era innamorata della danza orientale e via.
Poi per un anno mi sono fermata, e ho perso per la strada la maggioranza di quelle persone: alcune hanno proprio smesso, altre hanno cercato altre scuole (che si sono rivelate più in sintonia con i loro gusti, oltretutto).
Quest'anno ho ripreso senza grandi illusioni. Infatti non ho avuto molte allieve, solo 4. Sufficienti per ripagare i costi dell'assicurazione e della sala. Tre erano già state con me, la quarta invece era una principiante.
Sono persone che non potrebbero essere più diverse tra loro: una ragazza sui 27-28 anni, una mia coetanea con una figlia alle elementari, una signora con un figlio universitario e un'altra signora sui 50.
Le accomuna il fatto di essere curiose e non superficiali, di volersi mettere in gioco e accettare le sfide.
Quasi da subito, una volta gettate le basi, ho deviato dalla semplice danza del ventre. Io non sono una professionista e non formo persone che diventeranno professioniste, quindi ho pensato di farmi ispirare dalle attitudini e dalle esigenze delle mie ragazze e di modellare il corso in divenire.
Abbiamo mescolato i movimenti della danza orientale con gli esercizi di euritmia, ho applicato un po' di storytelling per migliorare l'interpretazione, ho dato fondo a tutte le mie risorse.
Ho cercato musiche che non fossero quelle classiche della danza orientale e che fossero un po' più "connesse" con l'immaginario musicale che ci circonda. Questo non significa che io abbia attinto alle programmazioni delle radio: ho cercato musiche particolari e inusuali, ma senza partire per forza dalla musica araba.
Ho cercato di costruire i pezzi insieme alle ragazze, incitandole all'improvvisazione (ove possibile) e mettendo l'accento più sull'interpretazione che sulla corretta esecuzione.
So benissimo che spesso avranno pensato che ero pazza o che chiedevo loro qualcosa di eccessivo.
E invece ieri sera mi hanno dimostrato che ero nel giusto, che ho fatto bene a insegnare loro lo spirito della danza anziché fossilizzarmi sulle sequenze e sui movimenti.
Ieri sera, le mie ragazze sono state ospiti del saggio di una mia amica, lei sì insegnante professionista, e hanno interpretato splendidamente i due pezzi che avevamo costruito insieme. Sono state ammirate, hanno ricevuto complimenti e soprattutto hanno fatto qualcosa di bello e piacevole per se stesse.
Io sono una ballerina mediocre, sono una che non pratica tutte le declinazioni della danza orientale, sono una che non otterrà mai un diploma di insegnante da un organo serio. Ma ieri ho avuto la prova di aver fatto qualcosa di importante per quelle quattro persone.
E loro hanno fatto qualcosa di importante per me, rendendomi fiera di averle portate su quel palco.

venerdì 17 giugno 2011

Se lo ami, raccontalo

Immaginiamo che una mamma vada a prendere i suoi bambini alla scuola materna. È tardi, la mamma ha avuto una dura giornata di lavoro ed ha dovuto fare in fretta e furia alcune commissioni prima di andare a prendere i suoi figli sul limitare delle cinque.
Appena in macchina, i bambini protestano: non vogliono legarsi le cinture. La mamma, presa per sfinimento, cede, come ogni sera: tanto la strada è una provinciale, deve fare pochi km.
Nel momento di immettersi sulla provinciale, la mamma non vede una macchina che sta arrivando a una certa velocità (diciamo 70 all'ora ma la strada prevede il limite dei 50): le erbe sul ciglio sono troppo alte e folte. Le due auto si urtano, finiscono entrambe in un fosso. Uno dei bambini viene sbalzato e muore. Il guidatore dell'altra macchina, un operaio agricolo rumeno che tornava dal lavoro, resta ferito.

Ecco, vediamo come il giornale locale darebbe la notizia:
"Incidente sulla provinciale, morto un bambino. Un rumeno, guidando ad alta velocità sulla provinciale, ha urtato un'auto che si stava immettendo sulla strada. Sull'altra auto c'erano una mamma e i suoi due bambini, di cui uno è morto. Sono in corso accertamenti per capire se l'extracomunitario fosse in stato di ebbrezza."

Invece vediamo come secondo me sarebbe giusto dare la notizia:
"Niente seggiolino: bambino morto in un incidente. Un operaio agricolo, guidando a una velocità superiore al limite dei 50km/h, ha urtato un'auto che si stava immettendo sulla provinciale ed entrambi i veicoli sono caduti nei fossi che costeggiano la strada. L'altra auto conteneva una mamma e i suoi due bambini, nessuno dei quali era legato all'apposito seggiolino. Le vittime sono uno dei bambini, sbalzato dall'urto, e l'operaio agricolo, ferito. Sono in corso accertamenti per verificare la presenza di ulteriori concause."

Non solo e non tanto perché mi dà fastidio veder sottolineare sempre la nazionalità di eventuali extracomunitari coinvolti in fatti di cronaca.
Ma soprattutto perché, invece della solita psicosi da batterio killer o da albanese stupratore, mi piacerebbe che i giornalisti suscitassero la psicosi da seggiolino: una psicosi utile, finalmente.

Per ulteriori informazioni sull'iniziativa "Se lo ami legalo", potete vedere qui, qui, qui e qui.

lunedì 13 giugno 2011

Come si cambia?

No, non è il titolo di una canzone, e non voglio parlare del passare del tempo e della sua azione su di noi.
È una domanda vera: come si fa a cambiare?
Quando si tratta di se stessi, è relativamente facile. Se voglio smettere di fumare, mi organizzo per farlo: chiedo al mio medico, cerco un sostegno, ci metto la mia volontà. Se voglio perdere peso, mi metto a dieta e faccio più sport. Se voglio cambiare lavoro, mi iscrivo a un corso, mando CV, partecipo a fiere di settore.
Non dico che voilà, basta volerlo. Ma cambiare me stessa è decisamente meno complicato di quello che vorrei cambiare ora.
Vorrei cambiare la politica italiana. E no, non mi basta che se ne vada Berlusconi: lui è solo un simbolo di un cancro che ci sta divorando da prima di lui. Incolpare Berlusconi è come scaricarsi la coscienza, soprattutto per la sinistra: se i suoi oppositori avessero saputo incarnare un ideale forte e trascinante quanto quello che ha incarnato lui, non staremmo qui a ipotizzare una sua dittatura.
Come molti, vorrei che tutto il sistema politico cambiasse o perlomeno che prendesse atto del cambiamento della società. Lo so che la società italiana, vista sotto certi punti di vista, sembra composta di burini la cui massima aspirazione è farsi il Cayenne come il buon Ranzani. E invece, proprio in questo momento, sul vituperato Facebook un gruppo di persone si sta interrogando su come dare un segnale forte riguardo alla volontà di cambiamento.
Non sono mosche bianche, ne vedo tanti come loro. E non solo su Internet, dove sembra che tutti i miei contatti siano antiberlusconiani, ecologisti, orientati al consumo critico e quant'altro.
L'altro giorno propongo a mio nonno di portarlo a votare. Lui nicchia, dice che tanto non cambia niente. Lascio perdere, ma poi lui mi dice una cosa che mi fa sbottare: ma scusa, vuoi pagare l'acqua dell'orto come quella in bottiglia? Vuoi che ci facciano una centrale nucleare a 50 km? (OK, ho semplificato, ma mio nonno ha 82 anni e ci sente poco!)
Lui mi dice no, e allora alla fine l'ho portato al seggio, spiegandogli che per dire no doveva votare sì.
Certo, a mio nonno in teoria non gliene frega niente se non ci sono asili, se le donne devono lasciare il lavoro e non riescono a rientrare nel mercato dopo i figli, se la scuola pubblica viene smantellata, eccetera. Ma è mio nonno, e gli interessa che io abbia una vita felice e dignitosa. È il bisnonno dei miei figli, e vuole che loro possano studiare invece di andare a lavorare nei macelli come lui fece a 6 anni.
Il fatto è che molti non partecipano alla vita politica del Paese per non essere delusi. Perché tanto hanno visto troppe schifezze, e si sono convinti che niente possa cambiare. Perché non sanno che in altri Paesi (penso alla Svezia) quello che vorremmo non è un'utopia: le vacanze della scuola tengono conto del lavoro dei genitori e in ufficio non si fa finta che i lavoratori non abbiano una vita.
In fondo, io vorrei "solo" una classe politica capace di mettersi nei miei panni e trovare le soluzioni ai problemi della gente. Alcune soluzioni sono di mero buonsenso, non richiendono grande dispendio di risorse. Altre soluzioni saranno impopolari anche per me. Altre ancora saranno impopolari per certe logiche di mercato.
Ora, se fossi realistica, mi abbatterei e direi che sono tutti sogni, che nessuno ci riuscirà mai. Beh, non voglio concludere così: se tutti condividono un sogno, magari il sogno prima o poi si realizza.

giovedì 9 giugno 2011

L'eterno ritorno

Stamattina, Amelia si lamenta di un minuscolo fastidio al mignolo del piede e io sospiro, per l'ennesima volta: "Quanto somigli a tua nonna!".
Sua nonna, che è anche mia mamma, è così attenta ai piccoli fastidi che un granello di sabbia nella scarpa potrebbe rovinarle una prima della Scala. Sua nonna, al contrario di me, che sono sua figlia e sono nata 6 giorni dopo di lei, è la rappresentazione perfetta del suo segno zodiacale, la Vergine: organizzata, ordinata, deve avere tutto sempre sotto controllo, non riesce a delegare.
Mia nonna, invece, mi somigliava di più. Infatti innumerevoli volte mia madre è sbottata con me: "Quanto somigli a tua nonna!".
Già, quanto somiglio a mia nonna. Forse perché, mutatis mutandis e per carità, io ho una vita più simile a quella che ha avuto lei.
Mia madre è cresciuta in un ambiente pronto ad aiutarla: i miei 4 nonni lavoravano in negozio e mi potevano tenere nel retrobottega, il suo lavoro era sicuro (e aveva trovato subito un posto statale, a 20 anni, appena uscita dall'ITIS), viveva in una casa dei miei nonni. Per dire: ha potuto permettersi di non mandarmi alla materna.
Io, pur con tutte le migliorie degli ultimi 60 anni, sono più simile a mia nonna: non ho nessun appoggio logistico fisso, a parte quelli che ho pagato. Mi trovo in balia della disponibilità dei nonni, che hanno necessità oggettive da anteporre alle mie (pure oggettive, ma mie). Mi trovo a vedere i miei bisogni disprezzati dallo Stato, esattamente come mia nonna nel dopoguerra.
E mi chiedo a volte se non valga la pena di fare fagotto e andarmene in un Paese civile.

domenica 5 giugno 2011

Profonda apparenza

Sarà il tempo, che ha fatto un salto indietro di 2 mesi e svariati gradi. Sarà che casa mia si è trasformata in un lazzaretto, con marito esantematicamente malato da lunedì e figlia gastroentericamente malata da martedì (e figlio sano attaccato alle balle della mamma, poveretto lui e poveretta me). Sarà che ho trascorso un bellissimo pomeriggio tra donne ed è raro che ore passate così non diano i loro frutti. Sarà anche che mi sono data lo smalto (color nerorosso, mentre l'aubergine l'ho appena tolto) e per un po' sono rimasta a far niente per evitare di rovinarlo. Sarà anche che ho deciso di inaugurare un nuovo regime alimentare e di movimento, per motivi estetici e di salute.
Insomma, in questi giorni ho avuto tempo e opportunità di occuparmi del mio aspetto e di stare a contatto con una persona che ne ha sta facendo un lavoro.
Frivolezza? Desiderio di evasione? Per niente: l'evasione l'ho avuta con le chiacchiere e il tè, e anche con le uscite da sola con Ettore, ammettiamolo.
Invece questa riconsiderazione del mio aspetto è una cosa molto seria. Molto profonda, perché sono convinta che, al di là dei vecchi adagi, il nostro aspetto rifletta la nostra condizione interiore.
Salto indietro di quasi 10 anni: inizio a lavorare in un ambiente prevalentemente maschile. Sono giovanissima (ho 24 anni) e il fatto di essere minuta e bassa mi fa sembrare una bambina. L'ambiente di lavoro è molto informale, ma ci sono gli incontri con clienti e partner. Dal momento che non mi è mai stato chiesto, non mi sono mai presentata a questi incontri in tailleur: pantaloni a sigaretta e una bella maglia d'inverno, abiti di lino dalla linea sobria d'estate. Ero a mio agio e questo mi permetteva di sentirmi alla pari.
Fast forward di un paio d'anni: comincia la primavera dopo un inverno bello tosto e io non me la sento più di ingessarmi in pantaloni classici e gonne dritte. Ho un'esperienza, non ho più bisogno di sentirmi alla pari. Comincio ad esplorare e a osare qualche gonna lunga, a evitare le camicie, a cercare uno stile più morbido. Ne parlo col mio collega di allora, che mi stava manifestando un desiderio di cambiare modo di lavorare, e lui mi liquida come "frivola". Non ricordo se sono rimasta a spiegargli che quella ricerca non era solo esteriore: a volte penso che gli uomini non abbiano gli strumenti culturali per capire.
Nel corso degli anni, ho variato spesso il rapporto col mio aspetto. Due volte sul lavoro mi sono sentita inutile e vuota, e per due volte ho perso il controllo della bilancia. Ho fatto due figli ed entrambe le volte sono dovuta scendere a patti con la me stessa della gravidanza e del post.
Ecco, con queste premesse, comprarmi due smalti nuovi e vistosi dopo 2 anni che quelli vecchi seccavano nel cassetto non è superficialità: è occuparmi di me stessa, farmi un piacere con un minimo sforzo. E regalarmi qualche seduta di un corso di trucco significa accettare il mio viso, anche se non sono più la silfide di 8 anni fa.
Comprarmi un paio di scarpe da corsa non vuol dire voler tornare indietro di 8 anni, ma accettare la sfida del futuro: invecchiare senza rimpiangere nulla, con un corpo sano pronto a servire la mia mente.
Mi manca solo di caricare le pile dell'mp3.