Già qualche mese fa avevo parlato di un libro che non mi ha lasciata convinta neanche un po': La via dell'artista di Julia Cameron.
Non che dicesse cose sbagliate, per carità. Però penso che il successo di questo libro (e il mio conseguente fastidio) nasca da un malinteso linguistico: nel mondo anglosassone, "artist" ha un significato non esattamente sovrapponibile a quello italiano.
Quando studiavo storia dell'arte, la distinzione era questa: artista è colui che nelle sue opere porta qualcosa di innovativo, altrimenti si è artigiani. Poi, per carità, la distinzione a volte è sottile: sugli artisti minori è davvero difficile pronunciarsi, e probabilmente ha anche poco senso, fino al Romanticismo circa.
Per intenderci su quello che intendo io, per me J.K. Rowling è un'artista, Laurell K. Hamilton non lo è neanche nei romanzi meglio riusciti. Le leggo entrambe, ma, anche nelle opere migliori della Hamilton, la distinzione mi è sempre stata molto chiara.
Io mi ritengo un'artigiana. Di livello potenzialmente professionale per quanto riguarda la narrativa, amatoriale per quanto riguarda la danza.
Tra le persone che conosco, ci sono alcuni artisti: la mia maestra Francesca Pedretti, per esempio, e alcuni dei maestri che ho incontrato a festival e stages.
Tutti gli altri sono artigiani. Di vari livelli, ma sempre artigiani restano. E già il fatto che si punti invece sulla parola "artista" per solleticare l'ego del lettore mi urta terribilmente.
L'altra cosa che mi dà fastidio del libro della Cameron è la presunzione che tutti siamo artisti tali da poter vivere della nostra arte. Ora, un conto è dirsi: ho lavorato per 10 anni, ho messo da parte un po' di soldi che mi permettono di non morire di fame, posso provarci. Dipende anche molto da come si esprime la tua "arte": ho sempre detto che, se Luca vivesse vicino a qualche posto turistico, una bancarella sul lungomare tutte le sere gli permetterebbe di guadagnarsi un altro stipendio nei mesi estivi con i suoi lavori di ceramista. Se nelle stesse sere si mettesse sul lungomare a suonare la darbouka, probabilmente entro qualche sera ne ricaverebbe un paio di costole rotte, nonostante sia più bravo come musicista che come ceramista.
La verità è che Luca non è un professionista né della ceramica né della darbouka perché l'unica bravura che gli rende abbastanza da viverci è quella di fare formaggi. Io potrei impegnarmi e diventare una vera insegnante di danza, ma di certo non riuscirei a mantenermici: l'unico modo per vivere di una mia abilità creativa potrebbe essere fare il content manager come un tempo, ovvero scrivere per attività business.
Purtroppo siamo sempre vissuti in tempi in cui l'arte, a qualsiasi livello, è sempre stata un lusso: in tempi di crisi anche i grandi artisti patiscono la fame, figurati quelli piccoli e "inutili".
Non penso che non ci si debba provare, per carità, ma trovo criminale incoraggiare chiunque sulla via del tentativo: è sacrosanto e giusto che solo pochi possano vivere di arte, perché il lavoro deve essere utile e l'arte raramente lo è. Va benissimo trovare una propria nicchia di creatività, ma alla fine il grano e il riso saranno sempre da piantare e non è che chi guida il trattore sia potenzialmente meno artista degli altri. Se tutti siamo potenzialmente artisti, allora tutti siamo potenzialmente lesi nei nostri diritti quando facciamo lavori non artistici: questa tesi mi sembra inaccettabile, anche se capisco il contesto "American Dream" da cui nasce l'esortazione della Cameron.
Cosa scriverei io, se dovessi "correggere" il libro della Cameron? Direi che non è sbagliato sentire impulsi creativi e assecondarli, anzi, ma che dobbiamo anche farci qualche domanda di marketing: in che cosa sono più bravo? Su che cosa conviene che mi concentri, dal momento che il tempo non è infinito? Quale bisogno soddisfo con la mia eventuale arte? Solo così posso finalizzare davvero la creatività, senza passare per un vanesio tuttologo che si sente artista ma non sa come realizzarsi.
E poi, Julia, hai toppato su una cosa: io una settimana senza leggere la posso anche passare, ma per la mia mente sarebbe come per il mio corpo digiunare per una settimana (l'ho appena fatto, e non è stata un'esperienza piacevole). Se leggere smorza i miei impulsi creativi, beh, vuol dire che quello che sto leggendo è meglio di quello che vorrei produrre. E allora tanto vale.
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Buongiorno! C'é un messaggio per te - o meglio per Jasna C. Lemanj - sul mio art blog: http://sybilletezzelekramer.wordpress.com/
RispondiEliminaMi sono appena riletta la recensione che ne avevo scritto io... insomma, ho passato più tempo a dire cosa dice di fare invece di dire cosa ne penso io.
RispondiEliminaSono ancora a metà come giudizio. Diciamo che sono d'accordo con te, è molto basato sul sogno americano... però essendone consapevole mi son presa quello che di buono ne veniva (costringermi a guardarmi dentro e dedicarmi tempo per essere creativa, una cosa che allora avevo lasciato perdere) e il resto l'ho scartato appunto con l'etichetta di "americanata" (anche questa concezione che la creatività ti venga da Dio... mbabbeh).
Per la distinzione fra artista e artigiano ti dirò... ultimamente sentirmi artigiana mi piace assai! :)
Ecco, questo mi dà l'occasione per dire una cosa: non uso certo il termine "artigiano" con disprezzo, anzi. Sono fiera di essere un'artigiana: significa comunque valorizzare il proprio talento attraverso lo studio, la pratica e l'umiltà. È solo che non sono un'artista. Così come non sono riccia o mora o tettona, indipendentemente da quello che vorrei o no.
EliminaSono molto d' accordo per quanto riguarda il contesto americano del libro su cui ovviamente non si può non riflettere a dovere. Io non ho ancora finito di leggere il libro ma sulle altre cose che hai scritto riguardo l' arte e il mantenercisi sono così in disaccordo che penso ci scriverò anche io un post che se no ti intaso i commenti ahahah! XD Magari prima finisco di leggere il libro però...! XD
RispondiEliminaDai, finiscilo, non vedo l'ora di leggere la tua recensione!
EliminaNoi ci siamo già confrontate via mail su questo argomento... :D Sono perfettamente d'accordo su tutta la linea. Io mi ritengo un'artigiana, magari discreta, ma cmq un'artigiana della danza, e ho cercato di mettere a frutto le mie doti nel relazionarmi con gli altri per diventare un'insegnante. Secondo me un'altro distinguo da fare è sul talento... si può nascere dotati di un certo talento, ma cmq al talento si devono abbinare studio, impegno e dedizione. E sono anche convinta, perchè nel mio caso è così, che anche non avere particolari doti innate non sia di ostacolo perchè tutto si può supplire con la volontà di imparare e migliorarsi. Tutto. Baci!
RispondiEliminaIl talento può essere un aiuto ma anche una rovina, perché a volte ti fa "sedere" e non ti permette di migliorarti. Penso a tante ragazze che ballano per un anno o due, gli viene bene e pensano così di essere "arrivate", di non dover migliorare. Ma migliorare si può sempre, basta volerlo
EliminaPS: in ambito culinario: hai presente quelle che sono "brave a cucinare" ma in definitiva fanno sempre le stesse 4 cose? Per me puoi avere delle preferenze, ma non concepisco l'idea di ripetere pedissequamente una ricetta, senza provare ad adattarla o migliorarla o semplicemente variarla.
Era questo che intendevo infatti... il talento da solo non fa "l'artista". Può essere una base di partenza... i danni cominciano quando ci ha ballato un anno o due si sente "arrivata" e pensa di poter insegnare o tramutarlo in un lavoro... E secondo me non bisognerebbe mai, proprio mai sentirsi "arrivati" da qualche parte...
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