martedì 21 dicembre 2010

Regalo di Natale: Viola

È passato parecchio tempo dall'ultima volta che vi ho dato notizie di Viola. Ho preferito aspettare che il disegnatore, Luca Ferrara, finisse il lavoro preliminare e mi desse il permesso di pubblicare il book di presentazione.
Per farla breve, eccolo qui:

Viola - Pdf 21MB

Viola - Pdf 9MB

So che siamo tra amici, quindi sorvolo su tutta la tiritera che tutti i diritti sono riservati, eccetera.
Ora sta anche a voi: se il progetto vi piace, se lo volete vedere su carta, rompete le scatole a tutti i vostri amici che possono aiutarci. Ci conto.

venerdì 17 dicembre 2010

Di che cosa sono fatta io

Leggo sul blog di my un elenco stilato dagli allievi della scuola d'arte, che elenca alcune cose di cui siamo fatti. Mi trovo, ahimè, a non condividerlo: lo trovo un concentrato di banalità, di stereotipi che sì, derivano da fatti veri che ci hanno segnati, ma non fanno "parte" di me. Tanto meno dei giovani allievi di una scuola d'arte, che avranno 20-25 anni.
Mi sembrano elementi troppo politicamente corretti, troppo "giusti". Sarà che mi trovo in sintonia con lasimo (che leggo ma commento poco). Sarà che vengo da una famiglia che votava DC e da genitori che sono stati troppo giovani per il '68 e che nel '77 erano troppo impegnati a fare le notti con una neonata rompicoglioni e a lavorare per mantenerla.
Ma insomma, per farla breve, ecco le cose di cui sono fatta io:

martedì 14 dicembre 2010

La fiera del dubbio

In periodo natalizio, fioriscono i consigli per gli acquisti di regali, soprattutto ai bambini. Leggo ovunque buoni propositi sia in senso quantitativo (basta con quest'orgia consumistica che ci riempie le case di giochi) sia in senso qualitativo (no plastica sì legno, no marche sì qualità, no maschi/femmine, sì unisex).
Io faccio outing: quest'anno noi genitori regaliamo la settimana al mare e magari qualche cazzata (tipo un animaletto o dei braccialetti), ai miei e a mia zia ho chiesto espressamente di regalare dei pigiami caldi ed eventualmente qualche cazzata (tanto so che non resistono), i miei suoceri non mi ricordo se li ho indirizzati ma mi fido, gli altri amici/parenti tanto fanno quel diavolo che gli pare sia che mi vada bene (e penso in particolare alla famiglia di Luca e ai miei amici) sia che no (e penso in particolare a certi miei parenti).
In particolare, in questo periodo mi pare andare di gran moda la parola "educativo", come se fosse l'assoluzione da ogni nefandezza ("Ah, e mi regali una cucina da ristorante rosa di Hello Kitty scala 1:1?" "Eh, ma è educativa!").
A parte che devo ancora capire che cosa sia educativo e che cosa no (secondo me, anche pestare una merda di cane per la strada è educativo: ti educa a stare più attento a dove metti i piedi). A parte che Marguerite Yourcenar diceva "Qualsiasi cosa succeda, io imparo". A parte che il concetto di educazione è strettamente legato all'epoca in cui si vive: all'epoca di mio nonno la verga era educativa.
A parte tutte queste considerazioni, dicevo, io mi metto nei panni dei bambini. Mi sono incazzata come una iena quando una persona che si ritiene un grande intellettuale mi ha regalato il saggio Xxx "perché sai, ho saputo che ti sei messa a leggere Harry Potter". Ma come ti permetti? Non solo e non tanto perché dell'argomento in questione ne so e non lo vado a sbandierare come te. Non solo e non tanto perché il fatto che io non mi interessi ogni giorno ai teatrini di politica interna e cronaca nera che chiamiamo TG non significa che io viva fuori dal mondo. Più di tutto, perché il fatto che qualcuno pensi di potermi "educare" secondo i suoi gusti mi fa infuriare: non sono un animale da circo (e, anche se lo fossi, meriterei di fare ciò che è nella mia natura di animale e non di esibirmi in un circo).
Mi si dirà: ma è tuo dovere educare i tuoi figli. Appunto, mio dovere, non di un gioco.
Per carità, mi fa piacere che, grazie a un certo gioco, i miei figli acquisiscano certe abilità. Ma quello che non tollero è la presunzione che sta dietro l'etichetta di "educativo". Che suona un po' come "se tuo figlio non gioca con questo giocattolo, non imparerà mai a ... (e metteteci il verbo che vi pare: lavarsi i denti, andare in bicicletta, fare le "i" col puntino sopra...)".
Questa presunzione fa un po' il paio con la convenzione che vuole le armi giocattolo vietate in quanto diseducative a tutte le età e in tutte le loro forme, soprattutto le armi da fuoco. Secondo una mia illustre insegnante del master, noi occidentali post '68 abbiamo il tabù assoluto della violenza associata all'infanzia: i bambini non devono praticare né conoscere la violenza, nessun prodotto narrativo per bambini deve contenere nemmeno un minimo di violenza. Col risultato che la violenza non è certo scomparsa dalla nostra società, ma i bambini che vivono in certi ambienti crescono senza riuscire a gestirla (né la propria, che è inutile negare, né quella altrui), nemmeno quando si tratta di uno scontro verbale un po' più acceso e assolutamente legittimo. Ma non voglio fare una filippica sulla violenza nella società, perché le armi giocattolo non sono violenza, secondo me.
Ovvio che a noi adulti un bambino con in mano un fucile evoca immagini bruttissime: ho un amico scappato dall'Uganda, quindi sapete che so.
Ma per il bambino l'arma giocattolo è tutt'altro: è il veicolo simbolico attraverso cui può accedere a certe storie di genere, esserne protagonista. È la spada di San Michele che trafigge il Maligno, il martello di Thor che scaccia mostri e demoni, il bastone di Gandalf che ferma il demone di fuoco.
I bambini che negli anni '50 giocavano ai cowboy non è che ce l'avessero davvero con i pellerossa: sognavano di sparare sui pellerossa come simboli del male. Che poi non sia il massimo che un certo popolo diventi il simbolo del male, OK. Ma a questo punto il problema non sta nella pistola, direi.
Quando i miei bambini giocano alle Winx, combattono contro i mostri con palle di fuoco e incantesimi: queste sono le loro armi. Sono più etiche di una pistola o una spada o un bastone? Non mi sembra, anche se una palla di fuoco per finta non fa male come un bastone tirato per sbaglio in testa (ma, se è per questo, allora fa male anche la scopa se la maneggi in modo maldestro mentre la passi per imitare la mamma o il papà).
Io ho avuto le armi giocattolo di mio padre e poco altro. Ma ricordo benissimo che sparavo con le dita, imitando le Charlie's Angels o Magnum P.I. Eppure in casa mia non entrerà mai un'arma vera, e un'arma giocattolo in grado di far male sarà sempre attentamente sotto chiave, se mai capitasse. Però capisco i miei bambini quando usano la pistola sparabolle o una pistola fatta con i lego come arma giocattolo.
Sarà anche che ho negli occhi questa immagine, tratta dal prologo di Hellboy II (che ho rivisto recentemente per un compito del Diegozillalab). Siamo negli anni Cinquanta, è la vigilia di Natale, Hellboy è un bambino di 8 anni con tutti gli annessi e connessi del caso (la passione per i pupazzi animati da ventriloqui in TV, il desiderio di restare alzato per vedere Babbo Natale, la riluttanza a lavarsi i denti prima di andare a dormire). Suo padre (l'umano che l'ha allevato dopo il suo arrivo nel nostro mondo) gli legge una storia per convincerlo ad andare a letto. Alla fine della storia, vediamo HB a letto con tutto ciò che gli è più caro: il pupazzo come quello dello show in TV e una pistola giocattolo, un revolver come quelli dei cowboy (che oltretutto richiama l'enorme pistola che lui stesso userà da grande, nella sua attività di investigatore del paranormale). Ecco, a me questa immagine fa una tenerezza pazzesca, nonostante la presenza di una pistola: è l'immagine di un bambino che vuole sentirsi un paladino del Bene (nonostante la sua immagine sia quella del Male per eccellenza).

lunedì 13 dicembre 2010

Esserci

Vengo da un lunghissimo ponte che è stato piacevole e impegnativo: mercoledì Artigiano in Fiera insieme alla mia famiglia e a un fratello di Luca, giovedì e venerdì a casa con i bambini, venerdì lezione di tribal a una mia amica e poi cena con le vecchie amiche del liceo, sabato corso mensile con la Pedretti e cena pantagruelica, ieri pranzo di Natale dei bonsaisti e di nuovo Artigiano in Fiera (ma solo con Luca, perché da ieri pomeriggio i bambini sono dai nonni).
Nel mezzo, la notizia del mancato dottorato da un lato mi è dispiaciuta ma dall'altro mi ha anche tolto un sacco di ansia (a parte l'incertezza del futuro, avrei dovuto fare alla velocità della luce un sacco di pratiche e richieste per iscrivermi in tempo).
Oggi sono al lavoro. I bambini sono da mia mamma, quindi mi sono alzata e ho fatto colazione pensando solo a me stessa. Sono arrivata al lavoro alle 7.45, un'ora e un quarto prima di quello che sarebbe il mio orario, il che significa che uscirò intorno alle 15.30 e andrò a prendere i miei figli.
Domani non sarà molto diverso, perché Luca resterà a casa con loro (o meglio, sarà in ferie e li porterà con sé nei suoi molti giri). Per il resto della settimana, verrà mia mamma a casa nostra, per tenerli.
Forse è il fatto di non avere il peso dei figli. O forse è perché non sono più incerta sul mio futuro. Fatto sta che oggi è lunedì e io sono contenta di essere qui in ufficio. Posso fare progetti, pianificare il lavoro, pensare a ciò che mi aspetta. Ci sono con tutta la mia testa, non più con un piede sulla porta.
Non è il lavoro della mia vita, probabilmente torneranno molti dei dubbi che ho avuto nei mesi scorsi (ma non da settembre a oggi), probabilmente l'anno prossimo le rogne saranno numerosissime.
Ma ci sto bene, ci voglio star bene. Voglio essere qui, almeno per ora, e non più con la testa altrove.

venerdì 10 dicembre 2010

Prima fermata

Tra le tante cose che ho in testa, ce n'era una che avevo cominciato con molto entusiasmo e che man mano mi suscitava sempre maggiori perplessità. Non solo e non tanto per l'impegno e i trasferimenti che mi avrebbe richiesto, quanto perché, da quando avevo preso quella decisione a oggi, mi sembrava che la situazione non fosse più così propizia, soprattutto perché sul lavoro mi si prospetta di fare un certo percorso di crescita.
Tuttavia, dall'altro lato, anche fare quell'esperienza sarebbe stata un bel percorso di crescita.
Sono stata tolta dall'imbarazzo, perché mi è stata preferita un'altra persona. Il fatto che questa persona mi sia stata preferita per ragioni che esulano dal merito non mi causa nessun dolore, anzi: so di avere comunque le qualità per fare quel percorso, se e quando deciderò di riprovarci. E contemporaneamente ho tutto il tempo di godermi il mio minuscolo part-time e le nuove mansioni che mi si prospettano sul lavoro. Posso dedicarmi all'inserimento di Ettore alla materna. Posso programmare un piccolo intervento, che magari nell'altra situazione sarebbe stato un po' più fastidioso. Posso investire un po' di più in Viola e nel mio nuovo progetto. Posso dedicarmi alla danza con maggiore serenità.
E, soprattutto, momatwork può tornare a trovarmi senza temere una randellata da mio marito (questa mi sa che la capiamo solo io e lei). Son cose.

lunedì 6 dicembre 2010

Cose sagge e meravigliose

Che noi non siamo la famiglia del Mulino Bianco mi sembra assodato, nonostante la location bucolica. Anzi, ci sono momenti in cui magari fare un bel giro in centro sarebbe terapeutico e invece ti ritrovi bloccato dal maltempo in una landa sperduta.
Però, per fortuna, ci sono anche i momenti in cui, a prescindere dal posto in cui viviamo, riusciamo a prendere un tè con un'amica e discutere di danza, fumetto e miti del mondo arabo. Oppure in cui ci godiamo la vicinanza a Milano, raggiungendo in mezz'oretta (sbagli di percorso a parte) il luogo dove si esibisce la mia maestra con la sua compagnia.
Venerdì sera non era partita sotto i migliori auspici: nel pomeriggio Amelia ed Ettore avevano dormito davvero poco e temevamo che non arrivassero svegli allo spettacolo. Invece, nonostante l'abbiocco in macchina, appena arrivati al luogo dell'aperitivo si sono svegliati e hanno cominciato a giocare tra di loro e con i nostri amici presenti. Hanno assistito tutti contenti allo spettacolo e poi, quando io e Luca ci siamo improvvisati un quartetto insieme alla Pedretti e a sua figlia, si sono divertiti ad ascoltarci.
La cosa bella è che erano un sacco di mesi che non suonavo: pensavo di avere le mani di legno e invece ho suonato bene, mi sono divertita e ho fatto una cosa bella con mio marito. Saranno i cimbali magici della Pedretti (e infatti le ho chiesto di comprarmeli, la prossima volta che le capita)...
Dopo, quando un po' di gente è sciamata e il palco è stato tutto per loro, Amelia ed Ettore non ne volevano sapere di andarsene. Se non fosse stato che il giorno dopo volevamo alzarci presto per andare in fiera, sarei stata curiosa di vedere quanto avrebbero retto. Di certo Ettore non si sentiva intimidito dal posto sconosciuto, dal momento che a un certo punto ha preso le scale ed è salito al piano di sopra tutto da solo, scocciandosi pure quando l'ho ritrovato e gli ho detto di aspettarmi.
Il sabato in fiera è stato sicuramente pieno ma non stressante: ero ben decisa ad andarmene nel momento in cui la troppa gente mi avesse dato fastidio. Abbiamo guardato molto di più di quanto abbiamo comprato, non ci siamo lasciati trascinare dal consumismo ma abbiamo preso solo ciò che avevamo programmato. Alcune cose sono ancora in sospeso: pensiamo di tornare giovedì pomeriggio per prendere ancora una tovaglia provenzale e un po' di cibo vario.
La cosa che mi è piaciuta di più è stata proprio una sciocchezza. Pensavo che, come gli altri anni, avremmo pranzato a base di schifezze (e infatti in prima battuta ci siamo presi un panino al prosciutto portoghese). Invece siamo stati attirati da un chiosco allestito tipo taverna medievale, dove abbiamo preso un menu a base di zuppa di legumi. Di fronte a noi, c'era il banchetto di un gruppo scozzese, con una signora in costume che teneva un piccolo gufo sulla spalla. Ovviamente io e Amelia ci siamo sciolte per quanto era bello il gufo, e c'è voluto del bello e del buono per far capire ad Amelia che la convivenza tra le nostre gatte e quel piccolo rapace sarebbe impossibile.
Domenica poi sono stati qui i nonni di Torino e, subito dopo la loro partenza, Luca ha portato i bambini dai miei, dove sono rimasti anche oggi (ci stiamo alternando nello stare a casa perché abbiamo deciso di tenere Ettore a casa dal nido per il mese di dicembre, in attesa che poi a gennaio cominci la materna).
Ora, io ho un atteggiamento ambivalente nei confronti del "prendersi i propri spazi": a seconda di chi ne parla e come ne parla, mi parte una reazione di solidarietà o no.
Oscillo, anche per me stessa, tra il credere che avere degli spazi propri sia sacrosanto e il pensare che sia un mito sopravvalutato. In genere, propendo più per la seconda ipotesi: mi piace coinvolgere i bambini nella maggior parte delle cose che faccio. Venerdì sera, non mi sarei divertita così tanto se non ci fossero stati loro. E non riesco neanche ad immaginare di andare a fare un giro al Trebbia o al mare senza di loro senza sentirmi in colpa o comunque incompleta (nonostante poi si lamentino della strada o della sabbia o gli venga voglia di fare tutt'altro quando sono lì).
Dall'altro lato, ammetto che poter stare insieme come coppia, da soli, in momenti che normalmente sono dedicati a mettere a letto i bambini, ha il suo gran perché. Soprattutto se vieni da una full immersion di 4 giorni con i bambini e ti aspetta un intero mese così.
Non immaginatevi adesso chissà cosa: ci teniamo troppo ai nostri soffitti per appenderci ai lampadari. Diciamo che, a parte attività piacevoli che comunque di solito svolgiamo in altri momenti, la cosa bella è stata prepararci la cena con calma e senza pensare ai gusti di 4 persone, leggere a letto senza doverlo scontare con 500 pagine di favole, parlare senza essere interrotti.
No, non spenderei dei soldi per andare a fare un weekend romantico con mio marito. Sono la peggior cliente delle baby sitter perché non mi importa di cene romantiche o locali di tendenza: se si mangia fuori, si va in posti dove anche i miei figli hanno diritto di esistere.
Ma ammetto che tenere i miei figli una notte ogni tanto è il più bel regalo che i miei possano fare a me e a mio marito.

lunedì 29 novembre 2010

Il lieto fine

In questi giorni leggo, guardo e scrivo molto, come avrete capito e come sanno anche i sassi. Danzo, anche, ma nella danza il ruolo della narrazione è minimo e frammentario.
In particolare, oltre a pensare ai fatti miei, in questo weekend ho rivisto due prodotti a fumetti: i due volumi Magic Press di Hellboy e la saga di Morgana di Luca Enoch e Mario Alberti.
Comincio col dire che, pur essendo due produzioni che più diverse non si può, entrambe sono di qualità altissima.

Hellboy può ingannare più facilmente: grazie al fatto di essere un prodotto popolare, con un tono più "basso" e con qualche sketch umoristico, può sembrare di qualità inferiore. E in effetti come tale l'avevo avvicinato: avendo visto i due film, me lo immaginavo meno profondo.
E invece, già parlandone col mio disegnatore, ho capito che mi sbagliavo. Già la qualità del disegno basterebbe. E poi ha ragione lui: ogni storia, nelle mani di Mignola, diventa una poesia. Anche se volano pugni, parolacce, pezzi di mostri vari e chincaglieria esoterica. L'iconografia classica dei mostri e delle creature infernali viene piegata ad altri fini, reinventata per suscitare sentimenti diversi dallo spavento o dalla repulsione.
Penso alla figura stessa del protagonista: un vero diavolo dell'inferno, rosso, con le corna e la coda. Certo, se incontrassi un tipo così per la strada mi spaventerei, ma nella narrazione HB ci appare come un personaggio positivo, simpatico e rassicurante.
Penso anche a una storia breve su HB bambino, "Pancakes", in cui HB a 3 anni assaggia per la prima volta i pancakes e dice che gli piacciono. Nella città infernale da cui HB proviene, questo evento viene visto come gravissimo, perché il piccolo sta diventando sempre più umano: i vari demoni si disperano e uno di loro sentenzia "Questa invero è la nostra ora più scura".
Raccontata così, sembra una stronzata. E invece quelle 2 paginette giocano benissimo con una serie di stereotipi (il bambino di 3 anni, il militare che gli fa da baby sitter, il mondo infernale) e ne esce un senso di tenerezza e buonumore non banali.
Ecco, Hellboy ha questa caratteristica: ogni sua storia, anche drammatica e densa, ti lascia il sorriso sulle labbra. Nelle mani di Mignola, il lieto fine non è banale.

Morgana, invece, è tutta di un'altra pasta, seppur pregiatissima anche lei. A parte il disegno di Alberti, di una bellezza da non poterlo descrivere (potrei dire che si ispira al liberty e forse anche un po' a Manara, ma non renderebbe l'idea: si può solo guardare le sue opere). A parte il formato francese, che nasce per scopi editoriali completamente diversi dai comics americani.
Morgana, per definizione stessa dei suoi creatori, nasce come una space opera ispirata un po' a Star Wars, un po' a Dune e un po' alla tradizione tragica dai greci al melodramma.
C'è un personaggio che all'inizio cerca di alleggerire un po' il tono, ma dal terzo tomo in poi scivoliamo nel dramma puro, quello dei sentimenti assoluti e devastanti, in cui anche una battuta legittima suona troppo cinica.
Detto così, non è che l'opera ci guadagni granché. Invece una storia tutto sommato banale (due innamorati separati da bambini si ritrovano su fronti apparentemente opposti, fino all'agnizione) diventa veramente bella grazie alla caratterizzazione dei personaggi.
Lei, la protagonista, è bella e pura, e su questo non ci piove (vuoi che Enoch si faccia scappare l'occasione di disegnare un bel paio di tette? Non sia mai!). Però il suo innamorato perduto tanto era caruccio da bambino quanto invece ha tutta l'aria (e i metodi) del cattivo da grande: tratti duri ed espressione cattiva, occhi rossi, sguardo un po' da pazzo un po' da assassino, armi e vestiti non proprio rassicuranti. Già questo ci svia, oltre al fatto che i due non portano i nomi dei due bambini visti nel prologo, perché entrambi, per motivi diversi, li hanno cambiati.
Oltretutto, nel prosieguo della storia, non è che lui, ritrovato il suo amore perduto, cambi più di tanto metodi o atteggiamento: è sempre intenzionato a ottenere la propria vendetta, nonostante il motivo principale (ovvero la morte di lei) sia venuto a cadere.
Non vi racconterò il finale (che poi non è un vero finale: la serie è stata interrotta al quarto volume per problemi economici dell'editore francese), ma da tutte queste premesse si può capire che non è un bel lieto fine, tanto più che si viene da un climax emotivo devastante.
Probabilmente è l'unico finale possibile, e anche il più efficace, perché ti annoda le budella per giorni e continui a pensarci e tornarci su. Un finale che colpisce il kiai.

Ecco, questo per dire che ho avuto due modelli completamente diversi su cui meditare, entrambi validi ed efficaci. E ho deciso che, almeno per questo progetto in via di concepimento e per Viola, il finale non lieto non fa per me. Non mi importa che il lieto fine sia facile, commerciale, autoconsolatorio e tutte le balle che mi possono raccontare i Grandiscrittori. Io mi voglio portare a casa tutti i miei personaggi, possibilmente interi e funzionanti. Voglio momenti anche drammatici, anche seri, anche profondi. Ma voglio anche una soluzione finale positiva. Voglio che il mio lettore continui a rileggere le mie storie per emozionarsi ancora e sentirsi sollevato della conclusione, non per tormentarsi e risvegliare le proprie paure.
Con tutto il fatto che a "quella" scena di Morgana forse ci sto pensando così tanto proprio perché so come va a finire qualche tavola più in là.

mercoledì 24 novembre 2010

Il difetto di fondo

Lungi, ben lungi dall'essere perfetta, ho una miriade di difetti e un difetto di fondo. Il difetto di fondo è quello che mi caratterizza e che non potrò (né vorrò) mai correggere: è parte di me, prendere o lasciare.
Per lungo tempo ho creduto che il mio difetto di fondo fosse la pigrizia. Invece c'è, ma la vinco più facilmente di quanto si pensi. Ultimamente, in realtà, mi annoio ad essere pigra.
Per tutta la mia infanzia e adolescenza ho pensato che fosse l'egoismo. Boh, sì, può essere che quello che io considero un sano istinto di conservazione in altri suoni come egoismo. Però parliamone: per preservarmi non mi sembra di aver mai fatto mancare niente a nessuno di quelli che contano.
Vivere con Luca mi ha portata a pensare che il mio difetto di fondo fosse il mio carattere esplosivo: in confronto a lui e a tutta la cultura torinese che si porta dietro, io sono una fabbrica di fuochi d'artificio, soprattutto quando mi passa accanto qualcuno con un cerino acceso.
In realtà, temo che il mio difetto di fondo non abbia un nome ben preciso. Alcuni lo chiamano passione, ma è un termine un po' troppo tiepido. Altri lo chiamano ossessione, ma è un termine un po' troppo medico. I romantici lo chiamerebbero "il sacro fuoco", ma poi vedrebbero come lo tengo a bada tra il lavoro, la famiglia e la casa e mi direbbero che non può essere sacro qualcosa che releghi nei ritagli di tempo. Ma si sa, i romantici avevano questo afflato adolescenziale verso l'assoluto, salvo poi doversi arrabattare a rimediare qualcosa per cena pure loro.
Questo per dire che ci sono molti temi che mi appassionano in questo periodo: mi piace il tema di genitoricrescono, mi piacciono i post sulla comunicazione di momatwork, mi piace il dibattito tra persone con figli e child-free, vorrei commentare un sacco di eventi del mondo là fuori.
Ma non ce la faccio, la mia testa è avvitata altrove. Non tanto a quel risultato che aspetto (e che, dopo un'iniziale illusione di poterne sapere qualcosa intorno al 17 novembre, riceverò serenamente il 1° dicembre, compleanno di Amelia), quanto a quel nuovo progetto nato da uno scambio scherzoso di SMS e ora liberamente galoppante nella testa mia e di un'altra persona.
Soprattutto, vorrei potervene parlare e registrare i vostri commenti. Invece io e l'altra persona coinvolta abbiamo deciso di comune accordo di non parlarne pubblicamente finché non ci sarà qualcosa di più definito.
Nel frattempo, scrivo febbrilmente in qualunque momento libero e arrivo al punto di sognare delle storie.
In realtà, stanotte ho fatto un sogno che banalmente potrebbe essere interpretato come il desiderio di avere due uomini, totalmente agli opposti tra loro e consapevoli l'uno dell'altro. E invece io lo interpreto come il mio desiderio di conciliare le mie due anime: la famiglia e...? E cosa? Anni fa avrei detto il lavoro. Oggi direi me stessa. Voglio stare con loro e con me stessa.

martedì 23 novembre 2010

Che ne dite?

http://lanternaincucina.blogspot.com/

Come dicevo nei commenti al post precedente: non aspettatevi belle foto né ricette elaborate. Questo è il ricettario che vorrei tenere in cucina, ma sono troppo pigra per scriverlo a mano.

lunedì 22 novembre 2010

Anche la pioggia serve

No, non voglio fare quell'odioso discorso che fanno sempre i contadini quando ci si lamenta del brutto tempo: a me la siccità piace, con buona pace di chi coltiva la terra e riesce a lamentarsi della siccità anche in una pianura dove ogni 5 metri c'è una risorgiva.
Però, se penso al weekend appena trascorso, mi vien da credere che anche la pioggia abbia il suo fascino. Per esempio, se hai appena lasciato entrambi i tuoi figli dai nonni e sei insieme a tuo marito, la pioggia fa venir voglia di stare al caldo e al chiuso persino a un animale selvatico come tuo marito. Oppure, se tuo marito ha un corso di bonsai per tutto il giorno e tu sei chiusa in casa con i bambini, fa un sacco di piacere ricevere per il tè (portato da lei, oltretutto) un'amica con cui stai facendo nascere un progetto e parlare per ore di danza, personaggi a cui ispirarsi e atmosfere.
E poi ci sono le idee che bussano alla tua porta all'ora in cui la sveglia non è ancora suonata. E ti ritrovi in camicia da notte, con una coperta buttata sulle gambe, a scrivere a raffica l'ultimo sogno o l'ultima pensata, mentre fuori infuria il monsone padano.
Oppure ci sono le verdure della biocesta in bella mostra nella tua cucina, che ti invitano all'ennesima maratona culinaria, fatta di sformato di spinaci alla pancetta affumicata, guacamole e patate lesse per accompagnarla, macedonia di frutti autunnali e vellutata di carote allo yogurt e zenzero. E pensi, per l'ennesima volta, che sarebbe ora di aprire un foodblog, fosse anche soltanto per tenere traccia delle tue ricette.

lunedì 15 novembre 2010

Di mostri, castelli e danza orientale

Non so come succeda alle altre persone che hanno botte di creatività, ma qui si va ad accumulo ed esplosione. Ovvero: ci sono periodi in cui non scrivo quasi nulla, neanche un'idea, e però leggo, guardo, ascolto nudi fatti che percepisco come potenzialmente utili a un progetto creativo. E periodi in cui erogo (stavo per scrivere "vomito") a flusso quasi continuo sogni, spunti, progetti, idee. Perdipiù, nei periodi di "espulsione" (e non fate facili allusioni al fatto che scrivo cagate), non è che io diventi sorda e cieca al mondo esterno.
Da quest'estate, ovvero dall'avvio del lavoro preparatorio per i disegni di Viola, sono preda di un potente flusso creativo: sogno spesso storie già strutturate, ho un sacco di idee per narrativa e danza, metto in atto strategie alternative per l'insegnamento, ho persino abbozzato insieme a una mia allieva di danza (disegnatrice in erba) un progetto per una serie a fumetti.
Anche solo esaminare la giornata di ieri mi dà un sacco di spunti: insieme a mio marito e alla mia disegnatrice, sono andata al Castello d'Albertis, a Genova, per un convegno molto interessante. A parte che solo con gli appunti presi durante gli interventi si potrebbe produrre un'intera collana dedicata ai mostri, mi è piaciuto molto il taglio degli interventi (soprattutto quelli dedicati al folklore e alle leggende): professionale, sintetico, con molte indicazioni per un eventuale approfondimento.
Inoltre, nella pausa tra mattina e pomeriggio, abbiamo potuto partecipare a una mini visita guidata al castello: a parte la bellezza delle sale (consiglio di visitare la Photogallery del sito, una meraviglia che rende benissimo l'atmosfera del luogo), è stato interessante scoprire la figura del capitano D'Albertis, personaggio avventuroso ed eccentrico. Da approfondire.
In più, dall'incontro e dalle chiacchiere tra me, la disegnatrice e mio marito sono nati nuovi spunti narrativi da inserire nel nostro progetto. Che sarà tutt'altra cosa rispetto a Viola: per la prima volta nella mia vita, mi cimento seriamente con un progetto dai risvolti (ho detto risvolti!) fantasy. Non vedo l'ora di buttare giù un'idea di trama e il trattamento.
La cosa che mi piace di più in questo progetto è che l'idea di base è sì mia, ma l'introduzione dell'elemento fantasy è dovuto alla mia disegnatrice e l'idea si è sviluppata durante una chiacchierata-fiume delle nostre. Chiacchierata in cui si sono toccati gli argomenti più vari: dalla fata dei Djinn a Wasabi, da Rachel Brice ad Agatha Christie, passando per i videogiochi e il diritto d'autore nella distribuzione di mp3, oltre a parlare delle qualità dell'olio ligure rispetto a quello machigiano e della biocesta che io avevo appena ricevuto.
Insomma, mi si prospetta un inverno denso. E non chiedo di meglio.

giovedì 11 novembre 2010

Se rinasco

Purtroppo non credo nella reincarnazione. Piuttosto, mi vien più facile credere nella teoria dell'Eterno Ritorno o, ancora meglio, nell'eterno riposo.
Eppure ogni tanto, come tutti, fantastico su che cosa mi potrebbe succedere in una possibile futura reincarnazione.
Se rinascessi animale, mi piacerebbe reincarnarmi in una bestia che non ha problemi. Tipo una delle mie gatte o uno dei ragni con cui convivo pacificamente.
Se per disgrazia dovessi rinascere di nuovo umana, vorrei rinascere uomo. Niente ciclo, niente gravidanza, niente parto, niente allattamento. Anzi, per evitare proprio del tutto queste menate e non viverle neppure di riflesso, non sarebbe male rinascere uomo gay. Magari in un Paese dove la tua vita sessuale non è sottoposta al codice penale, sarebbe il massimo. Ma anche rinascere uomo etero mi andrebbe bene, sicuramente più che rinascere donna.
Oltre ai motivi che ho elencato, rinascere uomo mi piacerebbe per un altro motivo fisico: vuoi mettere fare la pipì in piedi, senza sporcarsi con i sanitari pubblici? Per non parlare del fatto che passare tutto quel tempo a pensare al loro pistolino impedisce agli uomini di annoiarsi. Anzi, come fanno ad avere tanto tempo libero per il lavoro, lo sport e i videogiochi? Non stupisce che molti siano troppo impegnati per dedicarsi alla famiglia e alla casa.
Ma il vero, verissimo motivo per cui mi piacerebbe rinascere uomo è che mi piacciono un sacco di cose che sono tradizionalmente da uomini, mentre la maggior parte delle mie amiche sono donne a cui piacciono le cose da donne.
Tipo: festa con uomini e donne. Quando potevo ancora bere senza star male, mi si poneva un orrendo dilemma: resto con le mie amiche a parlare per ore di carte da parati e tende oppure vado in cantina con gli uomini a bere e ascoltare storie divertenti, facendo magari anche la figura di quella che tacchina i mariti delle altre?
Oppure: quando andavo al ristorante, spesso il cameriere faceva assaggiare il vino prima alla persona che era con me (se era un uomo). E io spesso, per incompetenza dell'altro, mi son bevuta vini non all'altezza.
Oppure ancora: scommetto che nessun uomo è stato trascinato dagli amici a vedere "I ponti di Madison County" o "Scelta d'amore". Mentre non ho ancora trovato nessuno con cui andare a vedere "Salt" (lo guarderò in streaming o DVD, come ho fatto con gli ultimi 007 e con Hellboy).
Insomma, non mi dispiacciono alcune cose "da donna" come la danza orientale e i gioielli etnici, ma mi sembra che quelle più tipicamente "da uomo" siano molto più interessanti e divertenti.
Per carità, non che mi sia mai negata niente per il fatto di essere donna. Però come tale vengo sempre identificata, quindi i maschi non sbracano mai completamente quando ci sono io. E invece spesso mi vien da pensare che sarebbe divertente vedere come sono quando non ci sono io, far parte del branco, essere esattamente come loro.
Insomma, non mi dispiacerebbe poter partecipare a una gara a chi piscia più lontano. Magari nella prossima vita...

sabato 6 novembre 2010

A senso unico

Quest'estate, nei miei giri in cascina insieme ai bambini, ho conosciuto un manzo. Toro o bue, non sono andata ad indagare sulle sue capacità riproduttive.
Era bello e massiccio, color champagne, con le corna ridotte a moncherini (non è una pratica dolorosa, praticamente si spezza il virgulto appena nascono - alle frisone allevate in ambiente non biodinamico lo fanno regolarmente, tanto che molte persone pensano che le frisone non abbiano le corna). Era mite e dolce, tanto da farsi accarezzare per un tempo infinito mentre Ettore e Amelia giocavano con i vitelli della stalla accanto. Era anche un vizioso: quando mi vedeva, mi riconosceva subito e si metteva in posa per farsi accarezzare in mezzo alle corna, dove il pelo è un po' più lungo e un po' più riccio.
Quando ho saputo che il 14 novembre ci sarà a Roma (Villa Borghese) una manifestazione contro la macellazione dei cavalli, ho pensato a lui.
Sarà che io in una macelleria equina ci sono cresciuta, sarà che in mio nonno ho sempre visto un enorme rispetto delle bestie e della carne, sarà che le mucche della stalla accanto sono state una grande compagnia durante i primi tempi con Amelia e che tuttora i miei figli giocano con i loro vitelli.
Io non ci sto a questo gioco ipocrita del "povero cavallino, la mucca invece mangiamocela". Gli animali hanno tutti una loro dignità e una loro intelligenza. Se le mucche venissero allevate con lo stesso amore con cui vengono allevati i cavalli o i gatti, ci darebbero lo stesso affetto e la stessa comprensione.
Davanti alla questione della macellazione, secondo me l'unico bivio possibile è tra l'accettazione della macellazione (regolamentata, sana, senza crudeltà) di tutti gli animali e la scelta vegana. Neanche vegetariana, perché un allevamento di mucche da latte o di polli da uova produce sempre degli "scarti" (i maschi, tipicamente) che vanno eliminati in qualche maniera.
Tertium non datur, soprattutto quando questa terza via corrisponde con un'ipocrita e soggettiva difesa di una specie a favore delle altre. È il trionfo dello stereotipo sulla vita e sulla natura.

Per la cronaca: oggi, sull'onda di queste riflessioni, sono andata a trovare il "mio" manzo. Non lo vedevo da una quindicina di giorni. Ho trovato la stalla vuota: probabilmente il suo periodo di ingrasso è finito e qualcuno, magari io stessa, se l'è mangiato.
Mi dispiace da morire, mi verrebbe da piangere perché gli ero davvero affezionata. Sublimerò questo dolore mangiando la sua carne (o quella dei suoi simili, non ci è possibile sapere esattamente da quale bestia proviene la nostra carne) con un rispetto ancora maggiore del solito. Era una brava bestia, e scommetto che era anche buona.

venerdì 5 novembre 2010

Chi non muore si rivede

Mi piace scrivere sul blog: dal momento che per me non è un lavoro ma un piacere (quasi un bisogno, a volte), non mi sono data una linea editoriale, a costo di risultare dispersiva e indecisa.
Difficilmente resto più di una settimana senza scrivere, se ho una connessione a portata di mano. Sicuramente non resto mai senza argomenti, con tutti gli stimoli che mi bombardano in ogni momento. Casomai, può succedere che resti muta per eccesso di stimoli, per fare chiarezza prima di metterli nero su bianco.
Come molti sanno, è stata una settimana bella ma intensa: due giorni a Lucca, due a Torino, ieri a Genova. E nei prossimi giorni, a parte il piccolo dettaglio del lavoro (c'è una scadenza a fine settimana prossima e siamo in alto mare), sarò ancora a Genova per dovere e per piacere.
Ho fatto promozione a Viola (ovvero ho distribuito la proposal a tutti gli editori che valessero la pena), ho stordito di chiacchiere il mio disegnatore, ho comprato qualche libro, ho letto moltissimo, ho passato un sacco di tempo in treno, ho pranzato con un'amica che ormai vedo troppo poco, ho cercato di farmi passare un mal di testa feroce e tenace, ho rivisto una traduzione per mio cugino d'Islanda, ho avuto nostalgia della mia famiglia e ho ricevuto un sacco di complimenti per una nostra comparsata in TV (oltretutto piuttosto ridicola, per gente che non guarda la TV da almeno 4 mesi). Il tutto in ordine sparso, naturalmente.
Forse, la cosa che ho apprezzato di più (ma non nelle 6 ore e mezza di treno tra Lucca e Torino) è stata la solitudine. OK che a Lucca ero con il mio disegnatore, OK che ad ogni nano che anche solo vagamente mi ricordasse i miei sospiravo, OK che Lucca e Genova sono state solo poche ore tutto sommato.
Ma era parecchio tempo che non mi capitava di andare in un bar a prendere un aperitivo (analcolico purtroppo, mi perdonino i miei avi) con gente che non conoscevo e finire con lo scambiarci i numeri di telefono e gli indirizzi. Era parecchio tempo che non avevo il dubbio che un uomo mi tacchinasse (al che, siccome sono una donna onesta ancorché snaturata, ho fatto cadere lì le parole "marito" e "figli"). E sapete qual è la figata? Tutto ciò è stato piacevole e divertente, ma potrei stare altri 7 o 70 anni senza farlo.
Non voglio fare quella che ormai ha marito e figli, ripeto che è stato divertente e istruttivo, ma non ne sento proprio il bisogno. Così come invece la sera stessa ho sentito la feroce mancanza di mio marito nel mio letto (biecamente, soffro di freddo ai piedi). E così come ero impaziente di raccontargli quei due giorni, anche se sapevo che a molti argomenti avrei dovuto fare un'enorme premessa per fargli capire qualcosa.
Ora non mi sono fermata: ci sono ancora 3 giorni da passare a Genova, e poi stiamo pensando ad Angouleme e a Mantova (ma a Mantova andrei in giornata, è a 2 ore da qui). Oltre al fatto che, se tutto va bene, per un po' i treni diventeranno i miei mezzi di trasporto preferiti.
Il bello è farlo col desiderio di tornare a casa, senza quel rapimento estatico di quando ero single e non sarei tornata mai. E questo, più di tutto, mi dice che questo luogo sporco e disordinato è casa mia, l'unica che conti.

mercoledì 27 ottobre 2010

Il fascino del male

OK, lo confesso, non sono molto originale: adoro i personaggi negativi, come milioni di adolescenti nel mondo.
Ho cominciato con Darth Vader, per continuare con Dracula, Voldemort, Moriarty, Hannibal, eccetera. Anche quando scrivo, il cattivo lo trovo sempre più divertente del buono, al punto che spesso faccio comportare da bastardi anche i buoni, per non annoiarmi.
Ecco, il cattivo che prediligo ha delle caratteristiche ben precise. Prima di tutto, non deve essere cattivo per finta o redimersi alla fine, sennò non c'è gusto. Secondariamente, deve essere lucido e razionale, non il Dottor Morte che farnetica di conquistare il mondo mentre James Bond ha tutto il tempo di sciogliersi le corde, farsi un caffè e una pennichella e poi eliminare la Spectre. Corollario: deve essere intelligente e un minimo sgamato, anzi, l'ideale è che sia un grandissimo intrigante col gusto per la manipolazione delle persone. Terzo: deve dimostrarmi di essere cattivo, ovvero fare qualcosa di orrendo durante la narrazione. Epperò le azioni orrende non devono essere commesse a casaccio solo per dimostrare di essere il cattivo (tipo la classica scena in cui il cattivo uccide uno qualsiasi per pura crudeltà) ma devono essere utili nell'economia degli scopi del cattivo, altrimenti rientriamo nel caso del cattivo psicopatico, che non ci interessa. Quarto, sarebbe meglio se fosse gnocco o se almeno potessimo immaginarcelo così.
Il mio ultimo acquisto in fatto di cattivi proviene da True Blood, che mi sto guardando in questo periodo (sono quasi alla fine della seconda serie, che goduria).
Prima di tutto devo spezzare più di una lancia a favore della serie, che inizialmente avevo snobbato. Certo, non parte da un'idea originale come Dexter o Six Feet Under. I vampiri sono di gran moda e per di più la serie si ispira a un ciclo di romanzi di quelli pubblicati sulla scia del successo di Twilight. Le premesse della serie si possono ritrovare in ennemila altre produzioni. Per esempio, il fatto che i vampiri si rivelino agli umani e reclamino gli stessi diritti civili dei mortali è preso paro paro dal ciclo di Anita Blake. Anche la struttura gerarchica dei vampiri ha forti assonanze con quella del ciclo di Anita (con la differenza che i capizona si chiamano sceriffi anziché master). Come nel ciclo di Anita, parte della vicenda ruota intorno a un locale di vampiri (il Fangtasia in True Blood, il Guilty Pleasures nel ciclo di Anita). Come nel ciclo di Anita e nella saga di Twilight, ci sono rapporti d'amore tra umani e vampiri. Come nei romanzi di Anne Rice, la vicenda è ambientata in Louisiana. Come in Twilight, nel ciclo di Anita e in altri prodotti, i vampiri non sono gli unici esseri sovrannaturali ad essersi nascosti per millenni. E così via.
Nonostante ciò, la serie è spettacolare: ben scritta e ben orchestrata, con un'impostazione più da giallo/thriller che non da horror, fa un uso irresistibile del cliffhanger e tratteggia i personaggi in modo originale e incisivo. Pare che la terza serie sia ancora meglio di ciò che ho già visto, quindi non vedo l'ora di passare a quella.
In un primo tempo, anzi, per tutta la prima serie, è abbastanza normale essere affascinate da Bill: a parte che fisicamente Stephen Moyer è proprio il mio tipo (uno vero, con i peli sul petto e la pelle non levigata, un bel fisico ma non la sagra della palestra), Bill è un bel personaggio, ben sfaccettato e ricco di sfumature.
Eric, invece, nella prima serie è bidimensionale come una figurina. Nella seconda serie, si anima e dà sfogo al bastardo che c'è in lui: trama per rubare a Bill la sua umana, Sookie, e s'inventa scuse fantasiose per legarla a sé in ogni modo. Diventa curioso e divertente, accentra la maggior parte dei movimenti della trama (a parte la sottotrama di Mary Anne, che fa da collegamento con i personaggi esclusi dalla trama principale). Se i vampiri cattivi nella prima serie erano disgustosi, con Eric ci avviciniamo al fascino del male: si succedono situazioni paradossali e dialoghi divertenti, con un ritmo più elevato rispetto a quello della prima serie.
Il mio timore è che alla fine Eric si riscatti, ma, se non lo fa, per ora sta andando alla grande.
Rimane un dubbio: perché questa passione per i cattivi? Non tutti i buoni sono piatti come il Principe Azzurro o Luke Skywalker.
Ecco, scavando nella memoria, sono arrivata a questa conclusione: il cattivo non può deluderti. Non può fare quello tanto carino ma che poi ha gli scrupoli ma che poi l'amicizia ma che poi eccetera. Da un autentico bastardo sai cosa aspettarti: cattiveria e dolore. Che non saranno un granché, ma alcuni li preferiscono alle bugie e all'ipocrisia.

lunedì 25 ottobre 2010

Inspiration point

Con l'inizio dell'anno (scolastico? accademico? boh) e dopo un intero anno di inattività, è tutto un fiorire di corsi per la sottoscritta: a parte che anche la famosa iniziativa di cui non posso parlare è legata all'apprendimento, ho ricominciato a danzare con la Pedretti (faccio un corso mensile pluridisciplinare: orientale moderna, tribal classico e tribal fusion) e contemporaneamente mi sono iscritta al Diegozillab, un corso di sceneggiatura online che mi sta già dando delle belle soddisfazioni prima di iniziare (l'avatar che mi è stato associato è una foto di Angelina Jolie da giovanissima).
La prima lezione con Francesca l'ho fatta questo sabato. Ero un po' intimorita, perché cominciare di botto con 3 ore di lezione dopo un anno di quasi totale inattività (a parte un miniseminario a luglio) mi faceva temere di non farcela. Invece è stato non riposante, ma sicuramente alla mia portata (a parte il fatto che il mio ginocchio ha messo in chiaro che di mezzapunta non se ne parla né ora né mai nei secoli dei secoli amen). Non mi ha massacrata come temevo, non mi ha imbottita di acido lattico. Mi ha invece riempita di entusiasmo, energia e ispirazione.
Penso che quest'ultima in realtà sia la parola chiave che distingue un buon maestro dagli altri: un buon maestro non si limita a insegnarti ciò che sa, ma ti spinge anche a cercare da te ciò che lui non sa o non ti dice.

venerdì 22 ottobre 2010

Tenetevi pure il Medioevo

Intendiamoci: il Medioevo mi piace. Mi piacciono l'arte e l'architettura medievale (anche quelle dei secoli tradizionalmente considerati più "bui"), mi diverto alle rievocazioni storiche, mi piacciono le melodie medievaleggianti, so benissimo che nel Medioevo sono state scoperte tante cose che fanno parte tuttora della nostra vita.
Tuttavia, sono ben contenta di vivere in un'epoca e in un luogo in cui ho un minimo rischio di morire di parto, i miei figli e mio marito hanno un'aspettativa di vita decente, per comunicare col resto del mondo mi basta comporre un numero o mandare una mail, per spostarmi di 15 km non ci devo mettere mezza giornata. E, soprattutto, ho diritto a un'anima, esattamente come un uomo (anche se poi ritengo che la cosiddetta anima sia solo la proiezione delle nostre attività cerebrali). Posso possedere 4 gatte di cui una nera senza essere bruciata. Ho potuto persino prendere una laurea senza vestirmi da uomo.
Insomma, capirete che in questo tempo io mi ci trovo particolarmente bene. I miei valori sono l'onestà, la magnanimità, la libertà e la dignità. Valori che si attagliano a me in quanto persona, non in quanto donna. Sono questi i valori che voglio passare ai miei figli, indipendentemente dal loro sesso.
Ché poi mi piacerebbe sapere quali valori possono essere esclusivi di un sesso. La modestia per le donne? Direi che non guasterebbe neanche negli uomini, anzi, una delle massime virtù di mio marito è proprio questa. La difesa dei deboli per gli uomini? Per carità, gli uomini saranno in media fisicamente più forti delle donne, ma c'è sempre qualcuno più debole di te da difendere e proteggere, fosse anche solo uno studente straniero stritolato dalla burocrazia di cui fai parte.
A questo proposito, ogni epoca ha elaborato i valori che voleva insegnare attraverso fiabe e favole. La storia di Nastagio degli Onesti raccontata da Boccaccio, per esempio, deriva da una fiaba popolare: Boccaccio è un maestro e la novella è molto godibile, ma oggi non possiamo accettare che una donna, solo per paura di una punizione nell'aldilà, accetti la corte di un innamorato insistente. Oggi, probabilmente, avverrebbe il contrario: sarebbe l'innamorato insistente e non ricambiato ad essere bollato come colpevole, poiché dovrebbe capire che non basta la perseveranza a far innamorare di sé una persona.
Forse nel caso di Nastagio degli Onesti la discrepanza tra la morale antica e la nostra è più evidente, o forse appare così lampante solo a me: magari qualcun altro la considera un saggio insegnamento contro le bisbetiche o le gattemorte.
Nel caso di fiabe che coinvolgano principesse e tutto l'immaginario fantasy, forse la discrepanza è meno evidente: invochiamo il diritto a sognare e a liberarci della nostra indipendenza almeno nelle fantasie.
Ma davvero tanta indipendenza è un peso? E allora perché l'abbiamo voluta? Non sarebbe ancora più meraviglioso che l'indipendenza e le pari opportunità facessero parte del nostro immaginario romantico?
Io, personalmente, anche nelle storie che mi piacciono, quando il protagonista maschile esagera nel fare il cavaliere errante, mi rompo le balle: ma vi immaginate che noia pazzesca dovevano provare le principesse rinchiuse nelle torri, senza connessione Internet né satellite? Hai voglia a ricamare, spesso erano pure analfabete...
Nelle mie fantasie romantiche, non sono mai stata il soggetto passivo, la parte da salvare. Ho sempre immaginato un ruolo attivo, di affiancamento al personaggio principale o di sostituzione al personaggio maschile.
Per esempio, ricordo di aver cambiato il sesso di uno dei personaggi di Dalla Terra alla Luna: la rivalità di Barbicane e Nicholl era basata su motivi un po' troppo sterili per una bambina di 9 anni (ovvero il fatto che uno era nordista e l'altro sudista, all'indomani della Guerra di Secessione), quindi ho trasformato il secondo in una donna e mi ci sono identificata. Non volevo il ruolo della dolce fanciulla che aspetta il suo eroe: volevo essere parte dell'azione e, se possibile, innamorarmi di un mio compagno di avventure.
Poi, se parliamo di tutto il corollario delle principesse (vestiti, acconciature, castello, ecc.) ci sto che sia affascinante e che ci sia un tempo anche per questo, purché non sia un intralcio all'azione, un'ancora che impedisce alla protagonista di agire "perché non sta bene" o perché le si sgualcisce il vestito: il principe azzurro se ne frega se gli si squarcia il farsetto o gli si ammacca l'armatura, perché noi dovremmo farci bloccare da un tacco rotto o da un tulle impigliato?
A proposito, riguardo al principe, qualcuna mi sa spiegare perché il principe azzurro, che sarà assediato di belle pretendenti, dovrebbe farsi un culo così per liberare una tanto scema da accettare una mela avvelenata o un fuso da una sconosciuta? Vediamola un po' anche dalla parte degli uomini: che attrattive hanno queste principesse (a parte la bellezza), per meritare un salvataggio? Io non vorrei che mio figlio rischiasse la vita per un'oca.
Dall'altro lato, io non so se gli uomini facciano fantasie romantiche (sicuramente sì, anche se non lo confessano) e in che forma le facciano. Mi piacerebbe che ci vedessero come compagne e non come bamboline di porcellana. Mi piacerebbe che anche per loro l'idea di condividere fosse eccitante, non castrante. E che magari fosse il loro turno di sognare di essere salvati, dopo tanto galoppare in sella al cavallo bianco.

giovedì 21 ottobre 2010

Esisterà davvero il karma?

Riguardo alla questione esposta qui sotto, mi aspettavo di trovare lunghe attese, risposte sbrigative e dottori impegnatissimi.
Invece, dopo un paio di mail e telefonate con persone gentili e premurose e una breve attesa, mi ritrovo in mano un appuntamento con un luminare della materia. Tra un solo mese, il che permette anche di organizzare il trasporto e sistemare la burocrazia.
Ho un magone pazzesco, perché forse, grazie a un mio minimo sbattimento, una persona malata avrà una vita migliore. E non mi importa più di tanto che io questa persona non la conosca, e che conosca a malapena suo fratello.
Sono scossa ed esaltata dalla piccolezza del mio intervento rispetto all'enormità delle sue conseguenze. Se ciascuno di noi provasse questa sensazione almeno una volta nella vita, non ci sarebbe bisogno di esortare alla generosità e all'empatia.

domenica 17 ottobre 2010

Karma e superstizione

Io sono atea. Non credo nel karma o nella superstizione: credo solo che fare la cosa giusta mi aiuti a stare bene con me stessa. Forse, egoisticamente, credo anche che essere generosa e compiere azioni nobili mi faccia da giustificazione per tutte le cose che evito di fare per pigrizia o per tutte le volte in cui ho agito male.
Fatto sta che è più forte di me: se so che posso aiutare qualcuno, anche sbattendomi e magari non ottenendo nulla, lo faccio.
Oggi, per esempio, una persona per cui provo simpatia ma che non posso considerare un'amica mi espone una sua preoccupazione: un ragazzo straniero che lavora per lei è molto in pena per la sorella, che ha una grave e rara malattia neurologica, a decorso degenerativo, poco conosciuta.
Caso vuole che io questa malattia la conosca, perché 15 anni fa sono andata in Grecia con una ragazza (amica di amiche) in cui si era manifestata da 2 anni.
So bene che questa malattia viene curata in una clinica di Pavia, con cui ho contatti per via del mio lavoro.
In breve, ho promesso di informarmi e di aiutare questo ragazzo a portare la sorella da noi, nella speranza che possa essere curata (ovvero che la degenerazione possa essere fermata a uno stadio accettabile, perché non si guarisce da questa malattia).
Dentro di me, una vocina mi chiede perché lo faccio. Sì, certo, perché mi piace sentirmi nobile e utile. Ma c'è anche dell'altro.
Facciamo un esempio, che forse fa capire meglio. Di solito, dalla pediatra le persone che devono solo fare una ricetta o un certificato passano davanti a tutte le altre. Per un motivo ovvio: non c'è motivo per cui debbano aspettare, dal momento che non necessitano di una visita, a differenza delle altre. Io non ho mai fatto storie per far passare queste persone, né per dare la precedenza a chi aveva bisogni particolari.
Una settimana fa, è toccato a me andare dalla pediatra per un certificato. La mamma che doveva entrare ha protestato per il fatto che volevo "passare avanti", mi ha detto che stava aspettando da un'ora il suo turno, che ne aveva fatta passare già un'altra solo col certificato, eccetera. Mi ha chiesto, ironicamente, che cosa doveva fare secondo me. Io le ho risposto serenamente che io ho sempre ceduto il passo a chi doveva solo fare una ricetta o un certificato, quindi mi aspetto che gli altri si comportino nella stessa maniera con me.
Ecco dove voglio arrivare: se ho sempre dato volentieri, non mi vergogno di chiedere.

lunedì 11 ottobre 2010

Nobody's Wife

Confesso: per vari motivi, non sono riuscita a vedere Munich tutto in una volta. L'ho centellinato lungo più di una settimana, con l'effetto (indesiderato) di assaporarne ogni sensazione.
Più di tutto, non mi colpiscono la violenza delle azioni rappresentate o l'insensatezza di un conflitto alimentato a tavolino dai protagonisti della Guerra Fredda. Mi colpisce che un uomo a cui sta per nascere una figlia accetti un incarico così pericoloso. Non tanto perché rischia di morire, quanto perché espone la propria famiglia al rischio di ritorsioni (e infatti nell'ultima parte del film se ne accorge).
A 18 anni, quando la mia famiglia era solo quella di origine, non mi sarei fatta tanti scrupoli. Dieci anni dopo, tutto era già cambiato: amavo Luca e aspettavo Amelia. Avevo già perso la libertà.
Perché di questo si tratta: di libertà.
Facciamo un salto indietro di più di 10 anni: ho 23 anni, mi sono laureata col massimo dei voti nel minimo dei tempi, faccio un master con altre 29 persone interessanti, giovani e appassionate. Mi devo sposare, lui si tira indietro. Io ne soffro, OK. Ma, ripensandoci, non riesco a credere che nel mio dolore ci fosse più di un 10% di autentico rimpianto per quell'uomo contro un buon 90% di orgoglio ferito.
Riprendo ad uscire oltre le 23 (sic), e stavolta ho un gran bel gruppo di amicizie con cui farlo: serate in discoteca, weekend al mare, giornate a scorrazzare per le cantine dell'Oltrepò. Sul lavoro le cose cominciano a girare bene: faccio cose interessanti, ho colleghi piacevoli con cui lego, mi sento brava. Non sento il bisogno di un uomo. Non di uno solo, almeno: me ne prendo quanti ne voglio, a seconda del mio umore.
Mi sento come la fenice: dalle ceneri di una ragazza spenta in un rapporto di comodo, nasce una donna che si sente potente e invulnerabile, più che umana. Non un malanno, non fastidio.
Vivevo una sensazione di straniamento: mentre intorno a me molte amiche puntavano a fidanzamento e matrimonio, io mi sentivo fluttuare al di sopra di quella quotidianità, non mi interessava. Non a caso mi identificavo nelle parole di una canzone di Dido: I want to be a hunter again, I want to see the world alone again, to take a chance of life again.
Io lavoravo, scrivevo, vivevo da sola: non desideravo niente di più.
In quel periodo, se ne avessi avuto le doti fisiche e mentali, avrei potuto facilmente dedicarmi a una professione che mi esponesse al pericolo: mi sentivo non tanto come una che non ha niente da perdere per disperazione, tutt'altro, piuttosto come una che non può perdere perché ha la buona sorte dalla sua.
Poi la vita mi ha tirato qualche scherzetto: qualcuno brutto, ovvero quando la società per cui lavoravo nel 2003 è fallita. E qualcuno veramente orribile, ovvero quando ho conosciuto Luca e ho istantaneamente desiderato fare una figlia con lui.
Da quel momento, sono ritornata umana e vulnerabile. Se fossi una persona con una professione pericolosa, non sarei preoccupata tanto per me: sarei terrorizzata all'idea che qualcuno possa ferirmi attraverso mio marito o i miei figli.
In poche parole, ho perso per sempre la mia libertà. Niente più deliri di onnipotenza, niente più azzardo se non attentamente calcolato. Ho fatto il Concorso per avere il Posto Fisso. Non posso dire: tra 6 mesi, se non trovo niente di interessante in Italia, mollo tutto e cerco fortuna altrove.
Non fraintendetemi: non mi sto lamentando. Ci ho guadagnato in ricchezza interiore, in modo incommensurabile. Sono felice di amare così tanto.
Ma, da qualche giorno, la me stessa di 10 anni fa mi sta fissando. Mi dice che anche lei era felice, e per lei tutto era facile, tanto che a volte si costruiva qualche complicazione sentimentale per non annoiarsi. Mi dice che la libertà e la solitudine erano il mio elemento, che ero felice di lavorare 12 ore al giorno, che potevo fare qualsiasi cosa senza pensare alle mille conseguenze.
Vorrei che un giorno quella me stessa trovasse pace, che andasse a incarnarsi in qualcun altro più adatto di me a realizzare i suoi sogni.

lunedì 4 ottobre 2010

Il caos fuori

A volte il weekend è davvero un momento di calma, per stare a casa, fare biscotti con i bambini e lunghe passeggiate nel bosco o nelle stalle. Ci si coccola un po' di più, si vede un bel film, si dorme di più.
E poi invece ci sono i weekend in cui ci si diverte, ma si arriva al lunedì pronti per dormire due giorni.
Guardate le mie occhiaie e indovinate a quale tipologia apparteneva lo scorso weekend.
Esatto, la seconda.
Abbiamo cominciato venerdì sera andando a una fiera enogastronomica. Abbiamo proseguito sabato mattina preparandoci per andare a Voghera per un'occasione particolare, che poi abbiamo scoperto essere saltata. Allora, dal momento che la casa lo esigeva, abbiamo dedicato la mattina a riordinare e pulire. Meno male che è passata un'amica per un tè, così ho fatto volentieri quattro chiacchiere e le ho rifilato una bella quantità di vestiti che ormai non vanno più bene ai miei bambini (sono diabolica: con la scusa di fare un favore, mi tolgo di casa l'ingombro).
Nel pomeriggio siamo andati a Vigevano per la mostra di bonsai dell'associazione dove Luca frequenta un corso. E io mi sono fatta intortare da un ex parà ed ex mercenario che mi ha raccontato un pezzo della sua vita (ovviamente mio marito, che lo conosce da ben più tempo di me, non sapeva nulla di questo suo passato).
Da Vigevano, a tutta velocità, eccoci arrivare in zona Fiera per l'inaugurazione della scuola di danza dove frequenterò il mensile della mia maestra. E qui mi fermo, perché ho notato una cosa dei miei figli che mi innervosisce.
In aula, stavano facendo attività specifiche per bambini. Non dissimili dal corso propedeutico di musica che avevamo fatto due anni fa, dove avevo già notato questa tendenza.
Il nocciolo del problema è tutto qui: quando ci sono attività che coinvolgono altri bambini e contemporaneamente ci siamo noi, i nostri figli ci si attaccano addosso come patelle e si rifiutano di partecipare alle attività. Quando poi le attività cessano e c'è tutt'altro, si sciolgono e si scatenano (vedi sabato, quando si sono impossessati dei veli delle varie ballerine e ci hanno giocato per una buona mezz'ora dopo la fine dello spettacolo).
Al di là del mio nervoso, che è istintivo e me lo tengo, quello che mi dà da riflettere è: ma siamo sicuri che le attività "per bambini" siano proprio come le vorrebbero i bambini? Se fossero così irresistibili, i miei figli vincerebbero in tempi ragionevoli la ritrosia e ci si butterebbero.
A me personalmente, di queste attività dà fastidio che non ci si comporti come ci si comporterebbe come con degli adulti. Il che da un lato va bene, perché adulti non sono, però trovo vagamente inquietante questo cambiare faccia quando si parla con i bambini, come se loro vivessero in un mondo ovattato e facessero fatica a capire espressioni diverse dal sorriso. Temo che a volte non ci rendiamo conto che siamo noi a far fatica ad entrare in contatto con loro, non il contrario.
Con questo non voglio dire che, quando insegno, non sorrido. Anzi, lo faccio spesso per smorzare la fatica dell'apprendimento. Ma non ho quel sorriso tra l'ebete e il recitato che molti usano quando si rapportano ai bambini. E non uso musiche in funzione dell'età delle mie allieve, ma di quanto sono adatte a ciò che voglio insegnare (sentita da una mamma, sabato: "ma non usano musiche da bambini").
Poi, per quanto riguarda il "problema" specifico dei miei figli, mettiamoci dentro una dose di timidezza, il posto e le persone ancora da conoscere, il fatto che ci fossero 3 bambini più grandi che facevano un po' banda.
Il giorno dopo è stato ancora più caotico: c'era la festa del paesello e contemporaneamente venivano i miei suoceri a pranzo. Con la scusa di prendere burro e pecorino per i ravioli, ci siamo fatti un primo giro prima che arrivassero gli ospiti. Poi, con i bambini tutti esaltati dal fatto che ci fossero i nonni, ne abbiamo fatto un secondo (anche per vedere gli asini che avrebbero corso più tardi). Partiti i nonni e arrivata una mia amica da Milano, ce ne siamo fatti un terzo, con tanto di giostre incorporate (la prima volta che i miei bambini vanno sulla calcinculo, che emozione!).
Una bella giornata in tutti i sensi: sia perché abbiamo coltivato un po' la famiglia sia perché con questa amica riusciamo a vederci fuori dall'ambiente di danza una volta ogni secolo ed è proprio piacevole quando ci riusciamo.
Siamo tornati a casa all'ora di cena, con nessuna voglia di cucinare (per fortuna c'erano in casa mozzarelle e verdure per fare l'insalata) e con un bel mal di pancia da ciclo (io). Mi sarei aspettata che i bambini fossero morti di stanchezza, e invece abbiamo dovuto convincerli per metterli a letto, ciascuno con il suo palloncino legato al letto. Poi siamo svenuti anche noi.
Stamattina pioveva.

giovedì 30 settembre 2010

Il caos dentro me

Mi sento come se mi avessero infilato in una lavatrice gigante con una serie di oggetti a casaccio: il mondo mi guarda con curiosità mentre io vengo sballottata di qua e di là dal programma di lavaggio.
Sul lavoro è un periodo intenso, di quelli in cui rispondi al telefono 3 volte in 5 minuti (giuro) ma almeno ti senti utile, non un ingranaggio del perverso meccanismo della burocrazia.
Amelia è stata malata e ho passato 4 giorni (weekend compreso) chiusa in casa con lei ed Ettore, molesti e sciocchi a livelli impensabili solo un mese fa. Giuro che ho avuto la forte tentazione di mollare tutto e mettermi a fare homeschooling, se questi sono i risultati del ritorno tra gli altri bambini (soprattutto per Amelia). Ciononostante, ho parlato con le nuove maestre di Amelia (tutto il personale della sua scuola è stato sostituito) e mi sono sembrate in gamba: un po' più anziane delle precedenti, ma molto più rilassate anche nel rilevare i "difetti" di Amelia (nel senso: si sono accorte che si distrae, ma lo ritengono un aspetto fisiologico dovuto in parte all'età e in parte alla personalità della bambina).
Ho avuto anche molte attività extralavorative: da un lato quell'iniziativa di cui vi parlerò meglio se andrà in porto, dall'altra la ripresa del mio corso di danza. Ché sembra una cazzata, ma anche solo preparare le musiche e pensare a quale successione di movimenti insegnare porta via un sacco di tempo.
E poi ho iniziato mio marito alle delizie dello streaming video: da anni ero curiosa di vedere Dexter e ho colto l'occasione per farlo con lui. Ora siamo alla quarta puntata e siamo ormai dipendenti da questa vicenda assurda del serial killer dei serial killer: dal momento che le nostre gatte ci hanno assuefatti a visioni ben più disgustose di quelle del telefilm, ci godiamo il lato divertente e surreale della serie.
Dall'altro lato ancora, lunedì finalmente è arrivato il regalo che mi ero fatta per il mio compleanno, ovvero gli arretrati per completare la serie di Gea. Lo so, chi mi conosce sa che, sebbene Lilith mi piaccia molto, ero diffidente nei confronti della precedente creatura del suo autore: dalle poche tavole che avevo visto, Gea mi sembrava uno scimmiottamento dello stile manga, con la sua unione di elementi buffi con elementi altamente drammatici. Invece, il ritrovamento di due albi di Gea nelle edicole di Levanto mi ha fatto cambiare idea, radicalmente: Luca Enoch ha trovato un suo tono, magari ispirato anche ai manga e/o ai film d'azione, ma tutto suo. Un tono che unisce episodi buffi a scene serie, che sdrammatizza alcune situazioni senza banalizzarle, che restituisce una grande ricchezza di registri senza risultare infantile e stridente come i manga (penso ad Angel Sanctuary, per esempio: vicenda cupissima spezzata da scenette che per il nostro gusto occidentale sono irritanti e fuori luogo). E una bravura che riesce a coniugare il mondo di una rockettara adolescente con i testi sacri di tutte le religioni senza risultare supponente o incongruo.
Gea mi ha emozionata e divertita come i migliori romanzi. Mi sono innamorata del giovane Arconte, e mi è piaciuto moltissimo il modo in cui Enoch ha manovrato in modo che l'unione di Gea con lui non risultasse un tradimento nei confronti di Leonardo. Ho apprezzato anche tantissimo il modo in cui vengono da subito presentati i nemici: non come esseri umani perché son demoni, ma con sentimenti nobili e delicati verso i loro cari, persone che lottano perché hanno le loro ragioni e i loro diritti. Ho voluto bene alla Diva e ho rispettato il suo Rakshasa, che si fa ammazzare per proteggere lei.
Per una narrazione che mi ha soddisfatto, una che mi ha delusa (non che mi aspettassi molto in verità, ma di più sì): La leggenda degli uomini straordinari. Dal momento che il film è ispirato a un fumetto di Alan Moore che mi aveva molto divertita, mi aspettavo che la formula non venisse cambiata più di tanto.
In effetti, in apparenza è così: c'è questo gruppo di persone straordinarie, tutte prese dalla letteratura di fine '800 - primi '900, che si adopera per la salvezza dell'Impero Britannico e del mondo.
Nel fumetto, queste persone sono Mina Murray (ex moglie di Jonathan Harker), il Capitano Nemo, Allan Quatermain, l'Uomo Invisibile e Dr. Jekill (ma molto di più Mr. Hyde). Mina Murray raduna questo gruppo di recalcitranti supereroi ante litteram e li comanda con il pugno di ferro, il che dà origine a situazioni e battibecchi piuttosto divertenti.
Il fumetto è un sontuoso divertissement, una festa di citazioni vittoriane, divertente e raffinato.
Nel film, a parte i cambiamenti fatti nella composizione del gruppo (che ci starebbero anche), la variazione che mi irrita di più è che la leadership del gruppo passa da Mina a Quatermain. Mina è solo una comprimaria, peraltro un po' torda, che subisce un'evoluzione da gatta ninfomane a iena scatenata.
Basterebbe questo a farne un film decisamente evitabile. In materia di film tratti da fumetti, mi sa che mi conviene sedermi sulla sponda del rigagnolo e aspettare che esca Hellboy III.

martedì 28 settembre 2010

L'occidentale emancipata

Da Piattini, per la nuova rubrica sfashion, si parla di velo. E io, che con (un altro) velo ci ballo, non ho potuto esimermi dall'intervenire.
Al di là dell'imposizione del velo, su cui si è detto di tutto e su cui cambio opinione ogni 10 minuti, credo che ci sia da sfatare un mito. Ovvero il fatto che noi (occidentali) siamo giuste, emancipate, evolute, libere di fare ciò che vogliamo. Mentre loro vivono in una specie di Medioevo oscurantista e violento.
Cominciamo col dire che il problema non è la religione. La maggior parte degli indiani non è musulmana, ma induista o sikh, ma mi pare che le loro donne non se la passino bene: matrimoni combinati, guai se divorzi (già illuminate quelle famiglie che ti permettono di separarti se il marito ti picchia, e guai se ne cerchi un altro), i figli te li cresce la famiglia (anche se magari sta a centinaia di km da te). Per gli africani subsahariani, poi, la religione è del tutto secondaria rispetto all'appartenenza etnica e alle tradizioni a cui sono legati. E non mi sembra che i cristianissimi slavi abbiano molto più rispetto delle loro donne, dal momento che le statistiche europee sulla violenza alle donne sono completamente sballate dall'inclusione della Russia nel campo di ricerca (ve la ricordate quella storia delle principali cause di morte per le donne tra i 16 e i 45 anni?).
E faccio presente che, per tutti i popoli che ho citato, non c'è un dress code unico: in molte parti dell'India le donne possono mostrare senza problemi la pancia, cosa che da noi è considerata appropriata in discoteca e sulla spiaggia, mentre non mi risulta che nelle tribù africane dove le donne vanno a seno nudo ci sia tutta questa eguaglianza uomo-donna.
Quando guardiamo questi popoli, siamo giudici spietati: li consideriamo popoli da educare, da portare al nostro livello come se fossero inferiori. Il confronto ci fa sentire forti ed evolute. Salvo poi scoprire che non è proprio così.
Pensiamo, per esempio, alla divisione dei lavori tra uomo e donna. Siamo ben pronte a condannare le donne velate, se le vediamo cariche di borse mentre il marito ha le mani libere. Ma quante volte questa scena ci passa sotto il naso con interpreti italiani, quando addirittura non la viviamo noi?
Esempio n. 1, tratto dai miei ricordi: anni fa, avevo un amico che venerava i suoi genitori come un modello di vita coniugale. Ne aveva una stima incredibile, ben superiore a quella che ho io dei miei. Io però ho sempre solo intravisto sua madre e mai incontrato suo padre. Parlando di questa coppia ideale con un altro amico, che li conosceva bene, è saltata fuori quest'immagine: lei (una tipa minuta) passa con le borse della spesa davanti al bar dove è seduto il marito, il marito si alza e la segue ma senza minimamente accennare a prenderle una borsa, lei non glielo fa notare e non gli chiede nulla.
Esempio n. 2, tratto dall'osservazione delle coppie sulla spiaggia: in un buon numero di volte, vedo la donna tirarsi dietro tutte le borse del mare + eventuale bambino per mano, mentre l'uomo al massimo regge il giornale.
Esempio n. 3, ché se lo legge mia madre si incazza perché divulgo il fatti di famiglia: io, mia madre e i bambini stiamo andando a casa di mia madre per pranzo. Lei chiama mio padre, nel frattempo già rientrato, e gli chiede di mettere su l'acqua per la pasta in una specifica pentola, di cui gli indica le coordinate. Lui non trova la pentola descritta e lei si incazza, dicendogli di lasciar perdere ché farà lei.
Che cosa significano questi esempi, secondo me? Significano che le donne occidentali non sono molto diverse da quelle arabe: siamo talmente convinte di essere inferiori da scambiare il peso delle responsabilità per un'attribuzione di importanza e da credere che avere potere significhi fare tutto noi senza delegare.
Mi si dirà: ma da noi almeno il processo è in atto. Per carità, chi ben comincia è a metà dell'opera, ma l'opera non si completa da sola.
Quante ragazze italiane hanno problemi a uscire con le amiche perché il fidanzato è geloso? Quante donne italiane, prima di fare qualcosa per sé, si sentono in dovere di pensare prima alla famiglia (anche quando questo significa preparare la cena a marito e figli, come se potessero morire di fame)? Quante donne italiane si sottomettono a mariti violenti o prevaricatori "per il bene dei figli" o semplicemente perché non saprebbero come mantenersi altrimenti? Quante ragazze italiane hanno avuto più problemi a studiare rispetto ai fratelli maschi perché la famiglia non voleva saperle sole in una città lontana? Quante ragazze/donne italiane evitano di vestirsi in certi modi per non attirarsi le ire del padre/marito o semplicemente per non essere giudicate delle zoccole dalla vox populi? Quante donne italiane vengono perseguitate dall'ex fidanzato/marito, a volte fino alla morte?
Io spero che siano sempre meno, ma ce ne sono ancora tante. Il solo fatto che ci siano ci rende inadatte a scagliare la prima pietra contro le islamiche.
Ci sono ragazze musulmane che seguono le regole di vestiario imposte dai genitori per poter studiare liberamente: sono tanto diverse da quelle ragazze che vanno in convitti di suore pur di poter fare l'università in una città troppo lontana dal paesello?
Dopotutto, noi donne siamo abituate da sempre ad accontentare la famiglia: al figlio maschio si perdona tutto, ma la femmina non deve sgarrare. Poi possiamo parlare del fatto che in effetti le femmine corrono più pericoli dei maschi, nella nostra società. Ma già questo è indice di uno squilibrio che non ci dà il diritto di crederci emancipate. E non tiriamo fuori la solita storia degli stranieri che rendono insicure le città, per favore: io abitavo di fianco a un pub frequentato da tifosi di una squadra locale, gentaglia ignorante e volgare tanto quanto quelli che si ubriacano fuori dai call center. Avevo dei vicini senegalesi, tutti ragazzi che facevano chissà quali lavori da schifo (visti i loro orari), ma non mi sono mai sentita men che rispettata, nonostante vivessi sola e non conducessi certo una vita da monaca.
Mi si dirà: tu potevi scegliere se vivere da sola o no, spesso loro no. Ah sì? Io potevo scegliere? Quante ragazze conoscete che, senza nessuna impellenza logistica, vanno a vivere da sole in un monolocale da 20 mq e con la benedizione dei genitori? Io ne conosco ben poche, e nemmeno io sono tra quelle: per mia madre il fatto che vivessi sola era fonte di continua angoscia, ha "ceduto" solo perché avevo cominciato a lavorare per mio padre e anche lei capiva che vivere col tuo datore di lavoro è una cosa ben pesante.
Insomma, questo per dire che tutti, persino la sottoscritta paladina delle pari opportunità, viviamo sulla nostra pelle una cultura che tuttora discrimina le donne. Lo fa in modi più sottili o forse non ce ne accorgiamo perché ci siamo abituati. Un po' come col clima. Solo che il clima non dipende da noi.

lunedì 27 settembre 2010

Terapia d'arredamento

Quando ero adolescente, ero spesso (sempre) a studiare a casa di una mia amica. La famiglia di quest'amica viveva nella casa che era stata dei genitori di sua mamma: con l'arrivo e la crescita dei vari nipoti, i nonni si erano ritirati in un appartamentino a piano terra e avevano lasciato alla famiglia della figlia il resto della casa. Quindi la mamma della mia amica non era mai vissuta in un posto diverso da quella casa (e ci vive tuttora).
Non so se per inquietudine o per noia o per desiderio di evasione (come sempre, avere vicini i genitori è un'arma a doppio taglio, perché poi te li devi anche sciroppare), la mamma di questa mia amica cambiava spesso disposizione dei mobili in casa. Appena poteva, faceva qualche miglioria, aggiungeva e toglieva mobili (spesso di recupero).
Ecco, io oggi mi ritrovo a capire la signora S., eccome. Infatti mi trovo in una situazione in cui mi sento paralizzata: non posso trasferirmi da questa casa, perché è gratis e io non sono come certi miei vicini che disprezzano la casa in cascina per andarsi a impiccare con un mutuo a 2 km da qui. In più, vorrei andarmene da Pavia e andare a vivere in un posto climaticamente e umanamente migliore (l'ideale sarebbe Genova), ma non posso perché mio marito ed io non riusciamo a trovare altrove due lavori altrettanto sicuri e vantaggiosi.
In realtà, da quando sono entrata in questa casa, quasi 7 anni fa, non c'è stato un assetto che sia durato più di 6 mesi: prima perché Luca da single viveva senza armadi e senza librerie, poi perché lavare i piatti senza uno scolapiatti non era il massimo, poi ancora perché un amico ci ha regalato un mobiletto per la TV, e via via attraverso le nascite dei bambini e la loro crescita.
L'anno scorso, arrivata al culmine dell'immobilismo, ho deciso di progettare il famoso cambio della cucina che ci ha tenuti in ballo per tutta l'estate (e che però ci ha meravigliosamente semplificato la vita, oltre ad aver dato al piano terra della casa un aspetto più decoroso).
Quest'anno, forse per scaramanzia rispetto al cambiamento che desidero e che non so se otterrò, o forse per proiettarmi nella prossima estate con un progetto concreto, stiamo pensando di riordinare la nostra camera da letto, eliminando un armadio e un cassettone di recupero e comprando un grande armadio unico e capiente. Armadio Pax Ikea, per carità, con le ante bianche che sono anche le più economiche (oltre ad essere quelle più adatte a illuminare la stanza, molto buia). Il passo successivo sarebbe mettere nella parete opposta una libreria Expedit con contenitori, al posto di un IVAR raffazzonato che viene ancora dalla ristrutturazione del piano di sotto.
Costo del tutto, circa 600 euro + la libreria, saranno 700 al massimo. Quindi, economicamente fattibile. Il motivo per cui rimandiamo l'impresa alla prossima estate è che Luca temporeggia: non so se è più spaventato dall'idea di avere il contenuto degli armadi a spasso per un po' o da quella di dover smontare e trasportare il vecchio armadio, che ha il peso specifico del piombo.
Io nel frattempo, come avevo fatto per la cucina, mi cullo nella fantasticheria di come quell'armadio nuovo cambierà la mia camera, di quanto sarà comodo e quindi renderà più facile il riordino, di quanto sarà capiente e quindi mi eviterà di avere roba sparsa ovunque, di quanto sarà luminoso rispetto al color legno scuro degli attuali mobili.
E capisco profondamente la signora S.

venerdì 24 settembre 2010

Sogni e speranze

Capita che a volte una mamma si dimentichi di avere 34 anni e si butti a capofitto in un'impresa. Un'impresa di quelle che non possono che incasinarle la vita, a fronte di nessun aumento di stipendio. Anzi: è probabile che l'impresa faccia aumentare i costi. E che alla fine non produca nessun beneficio durevole: tutto finisce e tu ritorni alla routine di prima. In realtà è anche possibile che l'impresa finisca sul nascere, perché non hai i requisiti o non sei abbastanza preparata o c'è qualcuno migliore di te.
Ti ritrovi a inseguire una scadenza e a impazzire dietro cavilli burocratici, mettendoci quasi 3 ore per inoltrare un semplice form online. In quelle 3 ore, i tuoi figli hanno giocato con la bambina dei vicini, hanno osservato con meraviglia una mantide religiosa, hanno coccolato il cane dei vicini, hanno aiutato il papà a spuntare i fagiolini. Quando hanno cercato di disturbarti, hai urlato. Non ce l'avevi tanto con loro, quanto con un'amministrazione che fa di tutto per metterti in difficoltà.
E poi ti sei ritrovata alla sera, sola con loro perché il papà era a una riunione della loro scuola. Amelia ti ha chiesto conferma del fatto che non eri arrabbiata con lei. E tu le hai spiegato che, se tutto va bene, sarai un po' meno presente nella loro vita, sarai spesso in un'altra città, ma tornerai sempre a casa, tutte le sere.
E lei, facendo un collegamento che non ti aspetteresti mai (perché proprio non c'entra niente con quello che andrai a fare né con quello che fai attualmente né con i discorsi degli ultimi giorni), ti chiede: "Vai a lavorare con Bregovic?"
E tu rispondi: "Magari!" e poi passi alle spiegazioni serie.
Nei loro sogni di bambini, è tutto facile: l'idea di cambiare casa (cosa che non sarà minimamente contemplata) li eccita, è come andare in vacanza. Poco importa che poi, quando sono realmente in vacanza, ogni tanto Amelia vada in crisi perché le mancano le gatte e i suoi amici. Poco importa la realtà di una mamma che si potrebbe fare ore di treno per inseguire la passione, se verrà scelta. Poco importa la fatica di un padre di coprire i buchi logistici finora coperti da me.
Loro mi immagineranno in un bello studio di registrazione o su un palco, a fare musica o ballare col gruppo di Bregovic.
È una bella immagine: quasi quasi, se non fosse che proprio le mie competenze sono altrove, potrebbe diventare il mio prossimo sogno.

martedì 21 settembre 2010

Quel sorriso

Lo so, dovrei sfruttare la pausa pranzo per fare altro, ma la mattina è stata senza un momento di tregua, il pomeriggio si prospetta uguale e se si è troppo stanchi non si ha sufficiente lucidità.
E poi c'è un ricordo di ieri che voglio fissare.
Ieri vado a prendere Ettore. Sono stanca come oggi, decisamente più scoraggiata (non avevo ancora avuto l'illuminazione), fa anche caldo e io sono vestita troppo pesante (del resto, di mattina ci sono 13°).
Lui esce dal nido e si dirige verso il recinto delle caprette (sempre di proprietà del nido - anzi dovrei dire i capretti ché son tutti e 4 maschi). Io gli dico che ci tratteniamo solo un attimo, perché Amelia aspetta in macchina (sempre nel cortile del nido, per chi fosse pronto a denunciarmi per abbandono di minore). Lui, seguendo il perimetro del recinto, si allontana di un bel po', io non ho voglia di seguirlo. Gli chiedo di tornare indietro.
Lui si volta e mi sorride in un modo da lasciarmi senza parole.

Flashback: sono a teatro, c'è la Turandot. Siamo ancora all'inizio, Calaf ha appena incontrato il padre Timur con la serva Liù, l'unica rimasta fedele al vecchio re.
Stupito da tanta fedeltà, Calaf chiede a Liù: "E perché tanta angoscia hai diviso?"
Lei, con la semplicità di chi ama, risponde: "Perché un dì nella reggia mi hai sorriso."

Ecco, adesso capisco Liù. E compiango le donne che incroceranno la strada di mio figlio. Altro che Mikael Blomkvist.

venerdì 17 settembre 2010

Quando la rete ti aiuta (spero)

Sono 10 anni ormai che Internet fa parte di ogni mia giornata, lavorativa e non. Conosco i meccanismi della rete per esperienza, per aver visto nascere la maggior parte dei fenomeni online. Ma non ho mai studiato nulla in proposito, a parte la vecchia "Caffettiera del masochista" sull'usabilità.
Ora mi trovo a dover mettere insieme una bibliografia, anzi due.
Una, sull'uso delle nuove tecnologie nella trasmissione di letterature e culture.
L'altra, sull'uso delle nuove tecnologie nell'apprendimento e nell'informazione.
Aiuto.

martedì 14 settembre 2010

Stanchezza e fastidio

Ieri ho degnamente festeggiato il ritorno a scuola di Amelia in due modi: prima incazzandomi perché per tutta la settimana i bambini usciranno alle 14 e poi facendomi togliere un dente a tradimento (credevo di poterlo salvare, e invece ho scoperto che ad agosto si era fessurato troppo in profondità - colpa di una banale granella di zucchero). Beh, non tutto il male vien per nuocere: a causa dell'intervento, devo stare a casa oggi e domani, il che mi permette di non preoccuparmi della scuola di Amelia. E giovedì la va a prendere mia mamma.
In realtà l'intervento è stato relativamente leggero: una volta passata l'anestesia, ho preso il primo Aulin e mi sono incollata alla guancia il ghiaccio. Ma mi è rimasta addosso una spossatezza pazzesca, che mi rende abbastanza intollerante e apatica. Il che, potete immaginare, non è il massimo se sei a casa con due bambini piccoli e sani, che giocano, litigano, hanno fame e sete e voglia di fare la pipì.
Vorrei mettermi a letto sotto le lenzuola e dormire, oppure guardare film decisamente poco impegnativi (tipo ieri, mentre loro erano fuori col papà a comprare la dotazione per la scuola e i medicinali per me, mi sono vista From Paris with Love, un giocattolone divertente - infatti è stato prodotto da Luc Besson, come Wasabi). Oppure vorrei che mi arrivassero gli arretrati di Gea che ho comprato online e che ci potessimo mettere io e Luca a leggerli insieme sotto le lenzuola. Oppure ancora vorrei che qualcuno mi ricaricasse la Postepay per poter comprare i seguiti della storia di Topicco e leggere "Come diventare un pirata" ad Amelia, che per conto suo ha scovato un libro di filastrocche di pirati e se ne è innamorata. Oppure ancora vorrei almeno non dover mangiare solo cose fredde: mi è rimasta una pazzesca voglia di wurstel da ieri sera (e mannaggia che quest'anno ho perso il mercato europeo, quindi niente wurstel viennesi quest'anno). A dire il vero, mi accontenterei anche solo di un tè: i cibi freddi e il fatto di non poter uscire di casa (se viene la visita fiscale...) mi fanno penetrare il freddo nelle ossa.
Vabbe', vado a tagliare il melone per mangiarlo con la robiola, sognando che sia polenta fumante.

domenica 12 settembre 2010

Draghi addomesticati e bisbetiche indomite

In questi giorni, per cercare di non essere troppo traumatizzati dal ritorno in Padania, abbiamo continuato alcune abitudini prese al mare. Tra queste, la lettura di "Come addestrare un drago", libro da cui è stato molto liberamente tratto il film "Dragon Trainer".
Lo so, si tratta di un libro per bambini dai 9 anni e non è che noi brilliamo per precocità. Ma siamo in pieno periodo draghi: prima il film al cinema (con i gadget da McDonald's: come mangiare 6 Happy Meal pur di riuscire ad avere due esemplari di Sdentato), poi i DVD di "Chasseurs de Dragons", poi i tentativi di trovare dei libri illustrati decenti in tema (ma chi approva i testi di certi libri per bambini? Li leggono almeno?). Insomma, il libro di Cressida Cowell l'ho letto prima io mesi fa (e adesso mi prudono le mani per comprarmi i seguiti) e me lo sono goduto così tanto da farlo leggere prima a Luca e poi ad Amelia e, di straforo, a Ettore (che segue la lettura quando entra in competizione con Amelia).
Ieri l'abbiamo finito e ci siamo divertiti moltissimo, ma ci rimane un po' di nostalgia di Topicco e del suo Sognatore Sdentato, che, lungi dall'essere la letale Furia Buia del film, nel libro è un Modestino che più modesto non si può.
Per consolarci un po' di questa nostalgia e per approfittare di uno degli ultimi scampoli d'estate, oggi siamo andati di nuovo all'Oasi di Sant'Alessio. Che alla fine è poco di più che uno zoo di animali tipici della nostra zona (più una parte tropicale), ma è anche un buon compromesso per trascorrere un pomeriggio all'aperto senza che nessun membro della famiglia si rompa troppo le scatole.
Gli animali che abbiamo visto erano più o meno sempre i soliti: cicogne e trampolieri vari, martin pescatori, vari rapaci non liberabili in natura (l'oasi raccoglie anche animali feriti, che libera ove sia possibile - per esempio, un anno fa, noi portammo una civetta che è stata poi liberata). Siccome quest'anno non avevamo ancora visitato la sezione tropicale, abbiamo visto con piacere che ci sono state novità. La più piacevole tra tutte è stata un orsetto del miele che era molto incuriosito da tutta quella gente che si appoggiava al vetro con le mani a coppa sugli occhi per evitare il riflesso.
Devo dire la verità: soprattutto all'inizio, ho rischiato di rovinarmi la visita arrabbiandomi per alcune persone incontrate sul percorso. Queste persone, lungi dal cercare di immedesimarsi nell'ambiente ed evitare di disturbare gli animali, berciavano e starnazzavano come se fossero state a fare le vasche in corso. C'era un gruppo di signore sui 60 anni che commentavano incessantemente gli animali come se fossero capi in vetrina (si può dire che il gufo reale è brutto?!?!). E c'era una famiglia con nonni, in cui il nonno si lamentava che nelle postazioni per fotografare (che in teoria dovrebbero essere mimetizzate per non disturbare gli animali) non era stata tagliata l'erba e che lui aveva pagato un botto d'ingresso per poi trovarsi l'erba davanti. Per non parlare del signore sui 60, che ha suggerito a un fotografo che stava fotografando l'aquila urlatrice di "darle un colpetto, così si alza in volo".
In queste situazioni, avrò fatto la figura della bisbetica, ma ho fatto capire che queste persone si stavano comportando peggio dei bambini (e non parlo solo dei miei).
Per fortuna, mi è sembrato che la media dei genitori presenti fosse allineata al nostro modo di intendere l'oasi, motivo per cui mi sono sentita sollevata.
Ora, dopo una sessione infinita al parco giochi dell'oasi, Ettore dorme (chissà se si sveglierà prima di domani) e Amelia sta guardando il suo libro di animali per vedere quali c'erano e quali no.
Domani si ricomincia la scuola. E io vado dal dentista, per l'ennesima puntata della saga del dente devitalizzato che non vuole essere chiuso.
Vorrei farmi ospitare dall'oasi e andare in letargo come un riccio.

venerdì 10 settembre 2010

L'anno sabbatico

Ebbene sì, ho ripreso a lavorare da 5 giorni e già fantastico di un anno sabbatico. Da sola basterei a sfatare tutte le leggende sul laborioso Nord.
Ma il fatto è che non è la voglia di fare a difettarmi, tutt'altro. Se mi prendessi un anno sabbatico (e non è detto che prima o poi non lo faccia, quando ci saremo un po' sistemati economicamente con la fine del nido), non sarebbe per far nulla ma per fare tutto quello che oggi non è il lavoro per cui vengo pagata.
Se potessi prendermi un anno sabbatico, per tutto quell'anno fingerei che il mio lavoro fosse un altro: la sceneggiatrice, magari, o la scrittrice, o la content manager, o qualsiasi altra cosa che io sappia fare bene.
Per un anno intero studierei, mi documenterei, raccoglierei materiale e scriverei. Non come hobby, ma come se da questo potesse dipendere il mio mantenimento. Prenderei contatti, manderei materiale, andrei a fare colloqui.
Rimpinzerei quella che Stephen King chiama "la cassetta degli attrezzi dello scrittore": guarderei film e serie TV di ogni genere, leggerei i saggi più disparati (per esempio, quest'estate ho letto una storia dei servizi segreti israeliani e progetto di leggere qualche articolo sui Sarmati), mi piazzerei nelle sale d'aspetto per ascoltare le storie della gente, dormirei un sacco per trarre spunto dai miei sogni (quest'estate per almeno una settimana ho sognato qualcosa di interessante ogni notte - ovviamente ho smesso appena messo piede in Padania), ascolterei un sacco di musica e andrei a spasso con i miei bambini, perché è capitato spesso che stando con loro imparassi o notassi qualcosa di nuovo. E sentirei di più i miei amici, che mi raccontano sempre qualcosa che non so e che mi arricchisce.
Poi, per carità, tornare alle scartoffie inutili della burocrazia mi rattristerebbe. Ma penso che un "pieno" del genere basterebbe a ricaricarmi per una decina d'anni, anche se i miei sforzi non approdassero a nessuna collaborazione.

giovedì 9 settembre 2010

L'armatura splendente

Inizio una serie di riflessioni sull'educazione sentimentale. E parto dicendo che, secondo me, l'educazione sentimentale è tanto fondamentale quanto l'educazione sessuale. Le nostre famiglie d'origine l'hanno messa in pratica in modo poco consapevole e un po' ruspante, col risultato che spesso siamo il riflesso o la negazione del loro modo di essere.
Penso però che, oltre a dare un esempio di come viviamo i sentimenti nella vita quotidiana, possiamo provare a parlare con i nostri figli di quello che li potrebbe aspettare là fuori, delle nostre esperienze e delle conclusioni che ne abbiamo tratto. Troppo presto? Penso di no. Anche quando si tratta di prodotti per l'infanzia, libri e film forniscono una marea di spunti che possono essere approfonditi via via.
Per esempio, non amo molto le fiabe classiche come Cenerentola, La bella addormentata e Biancaneve (in versione sia letteraria sia cinematografica), così come non mi piacciono le storie in cui Minnie si mette nei guai e Topolino deve risolvere il pasticcio. Danno l'idea di una passività sempre e solo femminile: la ragazza combina guai o subisce abusi e non è capace di tirarsene fuori, finché non arriva il principe di turno a salvarla.
Il fatto è che questo schema ci starebbe anche, se appartenesse solo alla finzione. Invece vedo tutti i giorni principesse salvate da dubbi principi: ragazze che si accompagnano al tipo con la macchina più figa, mogli che affidano tutta la gestione economica e burocratica al marito, madri che chiedono l'intervento ex machina del padre quando si trovano troppo impantanate nei problemi.
Intendiamoci: va benissimo farsi dare una mano dal proprio compagno, se ce n'è bisogno, ma non mi piace che questa sia l'unica modalità di rapportarsi a lui. Non mi piace che ci sia un implicito riconoscimento della superiorità di un uomo che se n'è fregato di quello che facevi finché non ti sei trovata in difficoltà, e allora ha pensato, bontà sua, di intervenire. Non mi piace che il contributo dell'uomo venga considerato un aiuto alla donna, mentre preferirei che ciascuno facesse la sua parte senza scambi di favori. Non mi piace nemmeno che le donne rinuncino a usare il loro cervello e per pigrizia si disinteressino di alcuni aspetti della gestione della casa (non parlo ovviamente di questioni minute come aggiustare zanzariere o appendere quadri - cose che comunque in casa mia faceva mia mamma - ma della gestione delle finanze e dei risparmi: molte donne scoprono di essere piene di debiti o perché muore il marito o perché la banca tal dei tali gli pignora la macchina).
Io non sono stata immune da questa pecca: il mio primo fidanzato l'ho scelto un po' in base a questo criterio. Venivo da un periodo in cui tutte le mie amiche o erano fidanzate o erano lontane. Nuove amicizie non riuscivo a farmene, un po' perché il mio gruppo dell'università veniva da Lodi e un po' perché non guidavo (avevo paura). Venivo anche da una bella estate divertente e non avevo voglia di ripiombare nella noia della brutta stagione. E ho preso il primo che è passato. Oltretutto, molto più grande così magari avremmo superato tutte le menate del non volersi impegnare, del dover fare le stesse esperienze che dovevo fare io e dover conquistare le stesse cose che dovevo conquistare io. Mi è sembrata una scelta comoda. E ho pagato per questa comodità, perché quando le scelte le fai con motivazioni sbagliate ti torna tutto indietro con gli interessi. Il che, per me, ha significato solo essere piantata a un mese dal matrimonio, perché lui non se la sentiva di elevarmi al rango di membro della sua famiglia.
All'epoca il mio orgoglio ne soffrì, anche perché, nonostante negli ultimi 6 mesi fossi stata sempre meno convinta di quel matrimonio, ce l'avevo messa tutta per convincermi che era solo la paura del grande passo a farmi pensare certe cose o desiderare certe persone. La mia relatrice, invece, con la voce della saggezza, disse che avrei dovuto regalare una scatola di cioccolatini al mio ex, per avermi liberata prima che la mia giovinezza finisse. E in effetti le ho dato mille volte ragione: quell'anno 2000 non sarebbe stato così straordinario e memorabile, se fosse stato l'anno del mio matrimonio con quell'uomo. O meglio, me ne sarei ricordata sì, ma come dell'anno del mio divorzio annunciato.
Del resto, è proprio un uomo, Italo Calvino, a dirci che non possiamo aspettarci di essere salvate dal cavaliere dall'armatura splendente: quando il Cavaliere Inesistente regala la propria armatura a Rambaldo, essa comincia a sporcarsi e ammaccarsi come non aveva mai fatto prima. Come a dire che non esiste un uomo perfetto e senza macchia, superiore e risolutivo: esistono solo esseri umani, maschi e femmine, che cercano di fare del loro meglio e che farebbero meglio a rimboccarsi entrambi le maniche e darci sotto con uguale lena.

PS: per amor di completezza, devo confessare che ogni tanto anche mio marito arriva sul cavallo bianco. Ma lo fa come regalo di compleanno, mica come stile di vita.