lunedì 25 luglio 2011

Energie sprecate

Tutto questo parlare di buone prassi femminili, unito ad alcune situazioni di vita vissuta e alla famosa replica del direttore di Vanity Fair, mi ha fatto venire in mente un vecchio post di Flavia (ora trovo questo, ma la discussione partiva da molto prima).
In cui, se non ricordo male, Flavia diceva qualcosa tipo che le donne devono imparare che l'aggressività non è qualcosa da censurare.
Io penso di poter affermare che in realtà le donne non si sono mai censurate quanto ad aggressività. Solo che la esercitano nella guerra fra poveri, nel continuo accapigliarsi da cortile. E hanno un'idea distorta della competitività.
Vi dico solo che, guardandomi intorno, io credo di essere stata educata come un maschio: non ho manie di perfezione, non ambisco alla palma di magnifica donna di casa, non misuro la mia figaggine in quantità di metri quadri che riesco a tenere puliti e ordinati. Epperò la vita mi ha insegnato anche che la mia autostima non può neppure dipendere da quanto guadagno o da quanto è prestigioso il mio lavoro o da quanti riconoscimenti ottengo sul lavoro: l'unica cosa da cui deve dipendere parte della mia autostima è il fatto che io svolga bene il lavoro che mi è stato assegnato, secondo la mia coscienza e non per avere il plauso di chi mi considera poco più che bassa manovalanza.
Non sono competitiva probabilmente per natura (si chiama pigrizia), ma anche perché da piccola/adolescente non ho mai avuto con chi competere a scuola: prendevo ottimi voti senza sforzo, mentre le altre prendevano voti solo occasionalmente migliori dei miei ma facendosi un culo così. A che pro umiliarle? Ma soprattutto, a che pro farmi anch'io il culo, quando già abbastanza spesso prendevo il massimo dei voti senza farmelo?
Poi, per carità, quando sono andata al master e ho trovato tanta gente più intelligente e preparata e brillante di me, avrei potuto avere un tracollo. Invece ancora devo dire grazie all'educazione che mi è stata data, perché, insistendo sull'umiltà, mia madre mi ha insegnato anche che da chi è meglio di noi possiamo solo imparare.
Infatti, a differenza di molte, io amo circondarmi di persone migliori di me: la mia vita sarebbe ben noiosa se io fossi la stella più luminosa del mio firmamento.
Ci sono invece persone che non riescono ad apprezzare la luce se non quella emessa da loro stesse: devono per forza essere al top del podio. E fanno la guerra a chiunque voglia brillare qualche metro più in là.
Le donne impiegano un sacco di energie in questo tipo di guerre, quando invece potrebbero impiegarle in battaglie ben più fruttuose.
Da un lato, è affascinante osservarle mentre mettono in campo tutte le loro abilità per screditare l'avversaria: attaccano l'aspetto fisico dell'altra, la mettono in cattiva luce partendo da dettagli (spesso abilmente travisati), usano la comunicazione in modi raffinati. Io donne così le metterei nei comitati elettorali dei politici, per loro gli equilibri tipo "The Good Wife" sono roba da scuole elementari.
Dall'altro, mi spiego perché, nonostante anni di lotte, restiamo sempre nella parte più bassa della scala (qualsiasi scala): lottiamo solo in duelli che siamo ragionevolmente sicure di poter vincere, siamo buone solo per le risse da osteria o da cortile. Non partiamo lancia in resta contro i draghi, in nome di grandi ideali. Ci indignamo se una non stira le tende, non se un ente di governo calpesta i nostri diritti o se un collega ottiene un riconoscimento che andava a noi. Siamo complici della nostra inferiorità, spesso intimamente convinte di essa.
Ecco, io ho ricevuto un'educazione diversa. Per me una casa pulita è una necessità (troppo spesso non soddisfatta) invece che un vanto. Io discendo da donne che hanno sopportato il doppio solo per il fatto di essere donne, ma traggo forza dalle tribolazioni del mio sesso, mi danno la consapevolezza di poter fare tutto: mi fanno sentire superiore, non inferiore. Io sono sempre partita a combattere i draghi, finché non ho avuto abbastanza buonsenso da capire che è meglio cercare di addomesticarli.

giovedì 21 luglio 2011

Donne per le donne

Dico la verità: dopo il primo momento di curiosità, questo celebrare le buone pratiche delle donne per le donne mi pareva il solito parlarsi/piangersi addosso. Perché hai voglia a parlare di solidarietà femminile, ma poi nella pratica la solidarietà ti arriva (quando arriva) indipendentemente dal sesso.
Raramente ho frequentato ambienti femminili in cui non si finisse per lavarsi il culo a vicenda. Quando tutto va bene, come nel mio ufficio, la lavata di culo si limita al piccolo sfogo fisiologico. Quando invece ci si mettono di mezzo difficoltà, licenziamenti e mobilità, le critiche diventano mirate: guarda quella che l'hanno tolta da quel reparto appena prima che venisse liquidato, chi si scopa quella, di chi è figlia quell'altra.
Nel mio piccolo, sono arrivata a sentirmi dare della privilegiata in un periodo in cui ero precaria e le dipendenti a tempo indeterminato della società consorella erano in cassa integrazione. Noi donne siamo bravissime a fare la guerra tra poveri.
Insomma, sul lavoro non ho grandi esempi di buone pratiche, se non quelle nate spontaneamente dall'amicizia tra colleghi (esiste, giuro).
Penso però al mio gruppo di danza, con cui ieri abbiamo fatto l'ultima lezione dell'anno. Penso al gruppo sparuto e disomogeneo che erano all'inizio: una rappresentante per ogni decade 20-30-40-50. Mamme e non, con esperienza e non, in forma e non.
Penso ai nostri inizi, a quanto si rompevano le balle a imparare la tecnica. Mi hanno costretta a cambiare direzione, a dar loro il gusto di ballare senza insistere perché imparassero subito tutti i passi "canonici".
Abbiamo intrapreso un percorso verso qualcosa di diverso dalla maggioranza dei corsi di danza del ventre: ho cercato di insegnare loro a divertirsi, a esprimersi, a essere a loro agio dentro la musica.
Ieri, più ancora che agli spettacoli, ne ho avuto la conferma: abbiamo fatto da capo a fine, in circa un'ora, un percorso che solo 6 mesi fa avrebbe richiesto più lezioni. L'abbiamo fatto sotto lo sguardo di una persona esterna ma amica, la cui reazione e la cui difficoltà nell'inserirsi nell'esercizio mi hanno confermato che abbiamo fatto tanta strada nella direzione giusta.
E la buona pratica in che cosa sta? Non sono così tutti i corsi di danza? No.
La buona pratica sta nell'aver preso 4 persone che non si conoscevano e averle portate a non vergognarsi tra loro né dei propri sentimenti né del proprio aspetto fisico né delle proprie capacità espressive. La buona pratica sta nel fatto di averle rese un gruppo che lavora in modo solidale, per il risultato del pezzo e non per il risalto della singola.
Certo, è solo danza, solo un passatempo. Così come gli sport sono solo sport, eppure poi ci troviamo allenatori che scrivono libri sul team building e sul raggiungimento di obiettivi.
Certo, queste sono solo 4 donne. Ma che donne.

martedì 19 luglio 2011

Inseguire la passione

Non sono una grande fan delle passioni, soprattutto in campo amoroso: preferisco amare intensamente ma con la sensazione di rimanere sempre me stessa, di non tralasciare quello che ero e amavo prima di incontrare quell'uomo.
Quindi mio marito lo amo molto, lo desidero molto, ci sto benissimo insieme e cerco di fare il maggior numero di cose insieme a lui, mi confido, ci rido, ci spettegolo, mi sfogo. E lui fa altrettanto con me.
Ma, se dovessi definire il mio sentimento per Luca, non userei il termine "passione" nemmeno per i primi tempi. Amore sì, innamoramento sì, ma "passione" per me ha troppo la connotazione del patire, dell'annullarsi, del dimenticarsi.
Per lo stesso motivo, non direi che provo passione per i miei figli. Li amo con tutta me stessa e, come ho già detto, la loro esistenza mi rende ricattabile a tutti i livelli. Ma con loro vado ancora più cauta che con mio marito: loro se ne andranno tra non moltissimi anni, come è giustissimo che sia, e io rimarrò qui con me stessa (e, spero, con Luca). Non posso dimenticare chi sono e cosa voglio a causa dei figli. Posso sospendere alcune esigenze, come ho fatto quando erano piccolissimi, ma non per un tempo superiore a pochi anni.
Per mia fortuna, ciò che sono e voglio comincia a coincidere col mio lavoro. Sto elaborando il fatto di essere "solo una segretaria" con laurea e master e mi rendo conto che ci tengo a questo lavoro, mi piace avere a che fare con i compiti trattati dal mio ufficio. Anche se non è tutto rose e fiori.
Fortuna? Buonsenso? Spirito di sopravvivenza? Non lo so.
So però che ciò che sono non si esaurisce nel mio lavoro né nella mia famiglia. Sarò megalomane, ma ciò che sono comprende anche tante altre cose: la danza (a cui "sacrificherò" tutte le sere della prossima settimana), la lettura (a cui spero di dedicarmi presto, ci sono un sacco di libri che mi aspettano in biblioteca), la musica (questo weekend ho fatto circa 700 km per andare a un concerto in cui i miei figli si sono addormentati alla quarta canzone nonostante gli piacesse).
E la scrittura. Viola, gli altri miei progetti, il blog. Scrivo da quando avevo 7 anni. Sotto un certo aspetto, non mi importa se scrivo bene o male (o meglio, mi importa ma non è il motivo per cui scrivo). Non mi è neppure mai importato di essere pubblicata, fino a quando non ho concepito Viola (e, se fossi stata in grado di disegnarla io, non mi sarebbe importato neppure in questo caso).
Tempo fa scrivevo di notte, dopo aver lavorato magari 14 ore al giorno. Ero single ed ero forte.
Oggi scrivo mentre i miei figli giocano o guardano un cartone o mentre mio marito prepara la cena. Non solo: parlo di quello che voglio scrivere, magari con un'amica mentre i nostri figli sguazzano nella piscina davanti a noi e noi ci scambiamo idee per i rispettivi progetti narrativi.
Per documentarmi, leggo saggi mentre mio marito legge una favola ai miei figli o insegna loro come travasare una pianta.
Il tempo per quello che amo mi sembra tempo rubato a quelli che amo. Ma perché dovrei sentirmi così? Perché non mi sento così quando cucino? Perché non mi sentirei così se stessi cucendo un vestito per Amelia?
Io non ci credo che una che nel 2011 si mette a cucire un vestitino lo fa per risparmiare: potrebbe andare al mercato e con 3 euro hai voglia comprare vestitini. Una che si mette a cucire un vestitino lo fa perché le piace, perché quello è il complemento di sé che le occorre.
Il mio complemento è la scrittura. I miei figli, ripensando a me, mi ricorderanno mentre danzo o leggo o scrivo (o cucino, cosa che pure mi piace fare), non mentre pulisco il bagno. Ai miei figli trasmetterò questo come piacere e altre cose invece le trasmetterò come necessità, non pensiate che abbiamo la colf o la cuoca o che in posta ci vada un mio avatar.
Ma non voglio che la mia vita appaia loro come 100% necessità: sarebbe un insulto ai nostri antenati, che, pur avendo vite molto più faticose delle nostre, riuscivano ugualmente a ritagliarsi un brevissimo momento per essere qualcosa di più che bestie da lavoro.
Io oggi posso permettermi di lavorare 7 ore al giorno, badare alla casa mettiamo un'ora al giorno, ascoltare le esigenze dei miei figli. Ma poi ci sono io.
Non si tratta di inseguire la passione. Si tratta di inseguire se stessi.

giovedì 7 luglio 2011

Niente sensi di colpa, please

Immaginiamo, come fa Wonder, uno scenario di genitore assente.
Immaginiamo che quel genitore sia io, e che abbia vinto il dottorato a Genova. Immaginiamo che il dottorato mi impegni fuori casa più di quanto avevo previsto e che io assecondi la mia passione, portando i bambini a scuola per le 7.30 e tornando con il treno delle otto di sera.
Non è una vita figa fatta di viaggi (a meno che di non considerare "viaggio" la vita del pendolare), non otterrei avanzamenti di carriera, non lo farei per i soldi. Lo farei per passione, esattamente come sono andata alle fiere di Lucca, Mantova, Torino, Milano.
Vedrei i miei figli molto meno, la gestione della casa sarebbe affidata a Luca, ma farei per 3 anni qualcosa che mi appassiona totalmente.
Avrei sensi di colpa? Forse verso Luca, che si troverebbe catapultato da una situazione di collaborazione ad avere il totale peso, senza una contropartita economica. Ma non verso i miei figli. Mi dispiacerebbe vederli di meno, così come mi dispiace vedere di meno mia madre o le mie amiche più lontane. Così come soffrirei ad avere meno tempo da passare con mio marito. Ma sensi di colpa no: magari soffriranno della mia mancanza come io soffro della loro, ma non mi considero insostituibile. Già adesso mi sostituiscono volentieri con i nonni, con gli educatori carinissimi del centro estivo, con gli amichetti e con il papà.
Non sarebbe una vita rose e fiori: sarebbe faticosa. Ma, se la scegliessi, se potessi e volessi sceglierla, una volta presa la decisione me ne andrei senza remore. Avrei dei ripensamenti se il mio nuovo lavoro non valesse la pena di tanti sacrifici, ma non per la mia nostalgia di casa. Come posso insegnare ai miei figli a volare, se poi io per prima non oso neanche aprire le ali?
Il dolore e la rinuncia sono la controparte del coraggio e della scelta. Non sono colpa di qualcuno, sono inevitabili. Bisogna accettarli e sopportarli quando arrivano, non farsene una colpa.

martedì 5 luglio 2011

The X Factor

Come ho detto varie volte in giro per la rete, negli ultimi 2 mesi mi sono dedicata a leggere una serie di libri che mi sono stati consigliati dalla mia bibliotecaria: il ciclo di Bartimeus.
Ora, se siete di quelli che un libro non è degno di essere letto se non è intellettuale, passate avanti e toglietemi la vostra stima. Evitate per favore di regalarmi saggi o romanzi perché io mi acculturi: ho una certa dimestichezza con la lettura, e mi sembra che essermi appena riletta Le Troiane di Euripide sia figo abbastanza.
Detto questo, ho amato questi libri per gli stessi innumerevoli motivi per cui ho amato Harry Potter.
Prima di tutto sono scritti bene (anche se non altrettanto bene tradotti). E già questo basterebbe.
Secondariamente, sono divertenti ma non sciocchi. Sono libri scritti per ragazzi dagli 11-12 anni, l'età giusta per trattare temi importanti come l'uguaglianza, la differenza tra protezione e censura, la differenza tra governare e gestire il potere, l'importanza di capire il punto di vista dell'altro. Insomma, mica bruscolini: quel genere di argomento che ogni genitore si ritrova a trattare con un po' di disagio, per la sua complessità.
Ma la vera ragione per cui amo questi romanzi è la presenza di Bartimeus: un personaggio divertente e irriverente, con un'etica apparentemente opposta alla nostra, istrione e grillo parlante.
Bartimeus è un personaggio che spacca, anche più di Harry Potter, anche più di Dumbledore/Silente.
Probabilmente è stato in qualche maniera ispirato o influenzato da Dobby, ma, benché i maghi siano presenti anche in questi romanzi, non c'è alcuna sudditanza verso i romanzi della Rowling. Il mondo immaginato da Stroud è completamente diverso, un mondo parallelo rispetto al nostro in cui i maghi si arrogano il diritto di governare i "comuni" solo per il fatto di sapere come si evocano gli spiriti (che loro chiamano demoni).
Nel mondo di Bartimeus, gli umani sono generalmente incolori o meschini, con qualche guizzo di personalità. Gli spiriti, invece, sono personaggi indimenticabili.
Non solo Bartimeus, che amo e che chiunque di noi vorrebbe come interlocutore almeno una volta nella vita. Ci sono personaggi favolosi come Faquarl (un djinn coetaneo di Bartimeus, che ama prendere le sembianze di cuoco), Jabor (un personaggio sanguinario ed esilarante), l'afrit pazzo Honorius (che sgambetta sui tetti di Londra in forma di scheletro con una maschera funeraria), lo Spirito dell'Anello Uraziel.
Ci sono scene che potrei rileggere all'infinito e sempre mi farebbero ridere. Ci sono scene che mi danno un legittimo godimento così profondo che è come se fosse un mio personale nemico ad aver fatto quella fine. Ci sono dialoghi che ormai io e mio marito citiamo nel nostro lessico famigliare ("o Essere Miracoloso", "o Asso").
C'è però un risvolto negativo. A parte il fatto che Bartimeus genera dipendenza, intendo.
Il risvolto negativo, per me, è che prima di incontrare Bartimeus mi stavo accingendo a scrivere una storia su un djinn. Una storia moooolto diversa per trama, personaggi e ambientazioni. Ma che, nel tono, avrebbe voluto essere simile: leggera, ironica, divertente ma non comica.
E, accidenti, adesso ho due problemi. Prima di tutto mi devo disintossicare da Bartimeus, perché ora tutto quello che mi vien da scrivere (fosse anche la lista della spesa) è nel suo stile. Secondariamente, sono annichilita dalla grandezza di questo personaggio, dal modo in cui ha catturato sia me sia tutte le persone che hanno letto questi libri, e il confronto mi schiaccia.
Bartimeus è uno di quei personaggi magici, con un qualcosa in più che li rende indimenticabili.
Io vorrei che i miei personaggi lo fossero altrettanto ma in modo ovviamente diverso: devo trovare la mia formula magica.
Soprattutto perché ho fatto una promessa a Luca: il mio personaggio lo prenderà quanto l'ha preso Bartimeus, lo amerà e gli dispiacerà finire le sue storie.
Ohi, quanto sarà difficile e bello tenere fede a questa promessa!

lunedì 4 luglio 2011

Riflessione sdolcinata

I miei sono tornati dopo aver passato un mese al mare. Si sono tenuti i bambini là per una settimana (anche se io avrei apprezzato che li tenessero per un tempo più lungo) perché comunque la vacanza doveva essere per riposarsi e loro, quando ci sono i miei figli, non hanno ancora imparato a non esaudirli in tutto.
Ieri ci hanno tenuto i bambini per tutto il giorno, e noi abbiamo potuto dedicarci a noi stessi (il che, stranamente, non ha coinciso solo con il chiudersi in camera da letto, ma ci siamo anche fatti un giro al mercato e in un vivaio). Siamo stati bene, come diamo spesso per scontato.
Poi oggi torna dalle ferie una mia collega, che sperava di farsi una settimana di mare con la figlia adolescente e invece si è dovuta "accontentare" di un weekend lungo con il marito, perché la quattordicenne ormai trova disdicevole sprecare il proprio tempo con mammà anziché con le amiche. E anche la mia collega mi ha detto: siamo stati bene, tanto quando siamo io e lui va bene tutto.
Ecco, forse né io né la mia collega facciamo bene a dare per scontato che da sole con il proprio marito si stia bene. Ci sono tante donne (e mia mamma è stata di queste, e talvolta lo è ancora) che con il proprio marito, anche in vacanza, non stanno bene. Non perché non si sia innamorati o che, ma perché si è troppo diversi, troppo chiusi, troppo rigidi nelle proprie parti. O magari perché si fraintende il senso dello stare insieme e si pretende di fare tutto proprio tutto insieme.
Ieri, io e Luca siamo andati al mercato e abbiamo visto banchi che interessavano più a me e banchi più interessanti per lui. Siamo andati da Viridea per comprare degli attacchi per l'irrigazione e la coloreria per me (mi sono decisa a tingere e accorciare l'abito da sposa). A casa, ci siamo dedicati lui alla lettura (finalmente ha finito la trilogia di Bartimeus) e io a varie altre cose come marcare i costumi e i teli dei figli per il centro estivo in piscina, tingere e lavare l'abito da sposa, sistemare l'archivio mp3 e infine leggere anch'io.
Poi io mi sono messa a preparare la cena e lui è andato a prendere i bambini dai miei. E ieri sera ci siamo addormentati vicini e stanchi, ma contenti.