mercoledì 30 giugno 2010

Piacere a chi?

Due blogger che stimo molto si pongono, in modo diverso, il problema dell'omologazione e dell'approvazione altrui.
È un problema che ho smesso di pormi dai tempi più o meno dell'adolescenza. Con una recrudescenza (ma solo in campo professional-promozionale) nei tempi in cui cercavo lavoro: ai colloqui è indispensabile porselo, senza arrivare però all'estremo di costruirsi un'immagine finta sulla base di ciò che si pensa possa piacere ai potenziali datori di lavoro.
Leggendo i commenti di molte persone, mi rendo conto di essere libera da una schiavitù: molti ci tengono ad essere approvati dai genitori, altri dalla comunità di cui fanno parte (scuola, paese, lavoro...). Altri ancora non ci tengono tanto per sé, quanto per evitare ai propri familiari (genitori, figli, coniuge) imbarazzi o critiche.
Ecco, se dovessi indicare il principale vantaggio del non avere avuto radici, direi proprio che non ti senti parte di una comunità e quindi non ti interessa essere approvata da persone estranee. In più, se tua madre si accontenta che tu prenda buoni voti e per il resto si limita a osservare solo i tuoi difetti, puoi reagire in due modi: o cercando disperatamente di assomigliare al modello di figlia perfetta che lei potrebbe avere in mente (ma non ci riuscirai mai, perché tua madre è di quelle che pur di trovarti una macchia ti rovesciano addosso il caffè) oppure fregandotene e cercando di agire al meglio per i tuoi canoni (che comunque ci sono e sono anche abbastanza ambiziosi).
Dal punto di vista fisico, invece, ho il vantaggio di non assomigliare neanche per sbaglio al canone in voga oggi: sono piccola e tendenzialmente rotondetta, soprattutto nelle parti basse. Il che significa che, anche quando sono stata al mio meglio, non ero di certo di quelle che facevano voltare gli uomini (a meno che non uscissi con un vestito trasparente e le mutande a pallini sotto). Il consenso dell'altro sesso mi è arrivato tardi, ed è sempre stato comunque un consenso di nicchia. Nell'adolescenza un po' ne patisci, ma poi ti rendi conto che ciò che ti interessa con chi ti interessa lo puoi fare ugualmente e anzi, ti liberi da un sacco di paturnie che invece magari appestano chi è abituato al consenso.
Esempio: in pieno periodo single folleggiante, vado a fare capodanno a Parigi con una mia amica. Siamo al Buddha Bar, quando vedo due americani che sembrano usciti da una rivista. Dico alla mia amica: scegliti quello che ti piace di più. Lei sceglie quello con gli occhi azzurri, più bello anche se meno fine. Andiamo a conoscerli, ci offrono da bere, trascorriamo una piacevole serata chiacchierando. Salta fuori che sono due fratelli e che sono in vacanza in Europa con i loro genitori (una specie di reunion, dal momento che un fratello vive nella Silicon Valley, l'altro a Chicago e i genitori non so dove), il "mio" lavora nel settore New Economy e adora l'Italia (in particolare il Golfo dei Poeti e le Cinque Terre: ehi, era l'uomo della mia vita!) e l'altro fa il cameraman per un sacco di produzioni TV tra cui ER. Non ce li siamo poi portati a letto per vari motivi, OK, ma non era questo lo scopo del gioco. Se mi fossi fatta fermare dalla bellezza dei due rapportata alla nostra (anche la mia amica è piccolina e rotonda come me), avrei passato tutta la serata ad annoiarmi con un pessimo mojito francese in mano.
Oggi non sono contenta del mio aspetto fisico, ma non tanto in relazione a un modello ideale altrui, quanto perché mi sento impedita e goffa, appesantita. Non mi piace guardarmi allo specchio nuda, il che non è un buon segno se quello è l'unico corpo che hai. E poi non entro in un sacco di vestiti che mi piacciono o altri che prima mi stavano bene adesso mi fanno sembrare incinta.
La questione dell'aspetto fisico mi fa però venire in mente che molte delle paturnie di mia madre, come figlia e come madre, si concentrano su quello. Mia madre è molto bassa, anche se ben proporzionata, tipo Kylie Minogue ma non così figa. Recentemente ho scoperto che se la menava perché temeva che io mi vergognassi di lei in quanto bassa, quando in realtà mi capitava di vergognarmi solo quando lei infrangeva le regole non scritte del mio mondo di preadolescente e adolescente: della sua altezza e del suo aspetto fisico mi importava assai. La menata dell'aspetto fisico le derivava dal fatto che ai suoi tempi la mamma veniva spesso descritta come bella (vedi alla voce "mamma angelicata"), e invece la sua mamma, avendola avuta "tardi" (a 34 anni) e avendo avuto varie sfighe mediche (tipo che portava il busto e le terapie fatte per la schiena le hanno fatto cadere tutti i denti), aveva un'aspetto da vecchia. In più metteteci che mia nonna era tendenzialmente robusta e tendenzialmente refrattaria a trucco e parrucco.
Nemmeno a me farebbe piacere che mia figlia si vergognasse del mio aspetto. O del fatto che sono "strana" rispetto alle altre mamme.
Al momento, però, mi sembra che la mia eventuale diversità non la metta in difficoltà e anzi la incuriosisca e la diverta: le piace che io mi metta le mie gonnellone e le mie cianfrusaglie da zingara, canta Bregovic subito dopo "La bella lavanderina" (stamattina ci siamo svegliate entrambe con "In the Death Car" in testa, per dire, anche se l'abbiamo sentito due giorni fa), le piace che la portiamo agli aperitivi e agli spettacoli (anche in solitaria). Forse tra qualche anno si porrà più problemi tipo perché non abbiamo il satellite o il digitale terrestre o perché non le compro abiti firmati e/o a marchio Winx/Principesse/HelloKitty.
In questo forse sono aiutata anche dall'ambiente in cui Amelia attualmente va a scuola: anche se le maestre mi danno l'impressione di essere persone di mentalità arretrata e scarsa cultura, l'ambiente di Torre d'Isola mi pare di ottima apertura mentale. Non è per fare il solito discorso, ma alla fine Torre d'Isola più che un paese è un sobborgo di Pavia abitato da gente di buon livello sociale e culturale, spesso "sradicata" nel senso che sono persone che vengono da svariati posti, hanno studiato a Pavia e si sono costruiti una vita qui indipendentemente dalle loro origini. Molti (o almeno, molti di quelli che conosco) fanno parte di quella élite, consapevole o no, che cerca proprio di sfuggire dalle logiche più bieche degli stereotipi di genere, dell'omologazione culturale, ecc. Molte mamme, per dire, sono state mie allieve al corso di danza del ventre. Una di queste, essendo una fricchettona scozzese trapiantata in Pianura Padana (con tanto di marito tatuato che gira in bici a torso nudo tutta l'estate), si è inventata un bellissimo corso di inglese per piccoli e ha fatto innamorare Amelia delle lingue straniere.
Insomma, va da sé che, se avessi la possibilità di far continuare ai miei figli le scuole a Torre d'Isola, sceglierei questa strada non tanto per la qualità della didattica quanto per la qualità dell'ambiente culturale in cui si troverebbero. A Bereguardo, invece, probabilmente troverò le situazioni da paesello di cui spesso parla Emily e lì la mia serenità nell'essere diversa (oltretutto, in alcune cose, mica son bastian contrario per forza) verrà probabilmente messa alla prova.
Che cosa farò? Non lo so nemmeno io, ma so che ho l'opportunità di dare ai miei figli un insegnamento: devi scegliere a chi piacere.
Piacere a tutti non è possibile. O forse lo è, ma con un impiego eccessivo di energie. Dal momento che le energie sono limitate, devi scegliere a chi piacere.
Posto che i tuoi genitori ti ameranno sempre anche se non gli piaci e quindi sono fuori gioco, devi capire anche perché vuoi piacere a certe persone: le consideri persone in gamba e vuoi che ti stimino? Oppure lo fai solo per non rimanere tra gli "sfigati" e non essere preso in giro? Oppure perché Tizia ha la piscina e vuoi che ti inviti la prossima estate? Vuoi piacere agli insegnanti? E perché? Perché siano più larghi nei voti?
Certo, un bambino si pone queste domande solo per sé. Non come una mamma, che ha paura che il fatto di non piacere lei a un'insegnante abbia ricadute negative sui suoi figli. Eppure, posto che sicuramente non cercherò di accentuare ciò che può essere un problema per i miei figli, non vedo altro modo di essere se non me stessa, pena il passare un pessimo messaggio.
Certo, non tappezzerò la scuola di manifesti "Contro il tumore io sto a gambe larghe", ma, con toni più pacati, cercherò di portare avanti le idee di cui mi pare possa valere la pena.
Faccio un altro esempio: un anno fa, la mia maestra di danza mi parlava di un progetto che girava nelle scuole (di Milano), che aveva per tema gli abusi sui bambini e che voleva cercare di comunicare ai bambini che cosa si intende per abuso e che cosa è giusto o no aspettarsi da un adulto. La mia maestra ne era entusiasta, finché non è saltato fuori che più della metà delle mamme della classe di sua figlia non riteneva "conveniente" partecipare a un progetto del genere. E stiamo parlando di una scuola di Milano, non dell'arretrata comunità Xxx.
Ecco, io un progetto del genere non mi farei proprio nessuno scrupolo di proporlo, anche se so che probabilmente molte mamme reagirebbero come quelle di Milano e mi guarderebbero come strana.
Ma meglio strana che stronza, direi.

domenica 27 giugno 2010

Apologia del nemico

Ci sono due post, scritti nei giorni scorsi, che mi hanno fatto riflettere.
Uno riguarda il concetto di nemico.
L'altro riguarda un personaggio che in una certa cultura ha rappresentato il nemico per eccellenza.
Io credo che il concetto di nemico, per gli esseri viventi, sia connaturato alla condizione di vivere in un mondo in cui le risorse non sono infinite: vale per gli accoppiamenti, per il cibo, per i luoghi dove fare il nido o la tana. Vale per i grandi interessi delle potenze mondiali così come per l'ultimo pezzetto di focaccia che lumavi da lontano e che ti è stato rubato dalla massaia davanti a te. Vale per le alture del Golan come per la femmina fertile contesa tra tutti i gatti della cascina.
Quindi credo non sia possibile cancellare il concetto di nemico. Semplicemente, credo che sia possibile modularlo in modo da togliergli quell'accezione negativa e fanatica che contraddistingue la nostra epoca.
Da quando l'opinione di massa ha un qualche peso nelle scelte politiche, il potere fa ogni sforzo per presentare la guerra di turno come giusta e indispensabile. Il modo più semplice è presentare il nemico come un mostro: è successo con Gheddaffi (che ora invece viene riverito e trattato come un simpatico eccentrico), è successo con Saddam Hussein, sta succedendo con Ahmadinejad (che però, ammetto, ce la sta mettendo tutta per aiutare gli USA a rappresentarlo come un guerrafondaio testa di cazzo).
Per noi, non è pensabile che il nemico sia semplicemente uno come noi, con le sue motivazioni altrettanto valide che le nostre: è un cancro da estirpare, per il bene dell'umanità. Diciamo anche che i precedenti di Hitler e Stalin hanno aiutato a radicare questa convinzione.
Pensiamo invece ai nostri antenati, gli arretrati Greci che, quando conquistavano una città, la radevano al suolo e rendevano schiavi tutti i suoi abitanti. I Greci effettivamente si comportavano come se il nemico fosse una gramigna da estirpare per sempre: quanta differenza rispetto ai Romani, che invece, se la città si sottometteva, cercavano di non apportarle ulteriori danni e le permettevano persino di mantenere una certa autonomia, se compatibile col dominio romano.
Eppure i Greci, nel poema che dà le fondamenta di tutta la narrativa occidentale, danno moltissimo spazio ai nemici Troiani e mai, neanche per un momento, si insinua l'idea che i Troiani siano peggiori degli Achei: hanno il solo torto di avere un principe idiota e pavido, che ha rapito la moglie di un importante re acheo. OK, anche qui c'è un pretesto a mascherare le vere mire degli Achei, ma nemmeno per un attimo si prova a rappresentare Paride come un malvagio manipolatore e/o i Troiani come un popolo crudele e/o corrotto e/o soggiogato da un tiranno crudele.
Anzi. Ettore, il leader dei nemici, è la summa di tutte le virtù dell'uomo ideale. Lo dicevo già qui, spiegando perché ho chiamato mio figlio come lui.
Omero esalta Ettore esattamente come farebbe con un principe acheo, sciorinandone tutte le virtù: grande guerriero, rispettoso del padre anziano, amante della sua famiglia e di sua moglie, Ettore non litiga per una concubina, non invoca la mamma, non fa i capricci smettendo di combattere. Ettore lotta per difendere casa sua, e questo lo rende impeccabile.
D'altro canto, nell'Iliade, anche i favori degli dèi si dividono equanimamente tra Achei e Troiani. Nell'Iliade non c'è un conflitto di civiltà, ma un duello mortale da cui tristemente deve uscire un vincitore. L'autore, interpretando probabilmente i sentimenti del suo popolo, si rende conto di parteggiare per gli Achei solo perché sono casualmente il popolo in cui è nato.
Non siamo ancora nel clima delle Guerre Persiane, in cui si confrontavano due modi opposti di intendere il potere, le leggi, la giustizia e la cultura.
Non a caso, Roma volle fortissimamente alimentare il mito di una propria discendenza da Enea. A che pro discendere da uno sconfitto? Quale popolo vorrebbere discendere da Saddam Hussein come viene descritto oggi? Il nocciolo della questione è tutto lì: Enea viene sconfitto perché tale è il volere degli dèi, non perché Troia fosse umanamente o politicamente o militarmente inferiore alla Grecia.
Enea merita la propria seconda possibilità, perché è un uomo di valore esattamente come lo era Ettore (con, in più, una madre imbarazzante: c'è un punto dell'Iliade in cui Enea rischia di essere ucciso e sua madre Afrodite interviene per salvarlo, venendo peraltro ferita - lo so che tutte noi potendo l'avremmo fatto, ma che vergogna per un guerriero essere salvato da mammina!).
Enea porta a Roma tutti i valori di Troia, il che viene visto come una buona cosa: non si tratta della Mayflower che fugge da una persecuzione, ma semplicemente di un emigrante costretto ad andarsene dalla sua terra perché non ci può più vivere.
Poi, per carità, nello specifico si può anche considerare Enea uno stronzo passivo manovrato dagli dèi, per via di tutta la faccenda di Didone, da cui noi donne siamo sempre molto colpite (e che secondo me dovrebbe essere insegnata non solo nell'ora di epica, ma anche in un'ipotetica ora di educazione sentimentale).
Però non è che il vincitore Ulisse si comportasse molto meglio, passando dalla maga Circe alla ninfa Calipso e presentandosi bel bello a casa dopo 20 anni, pure con la pretesa che sua moglie gli fosse stata fedele (e buon per lei che i Proci erano veramente inavvicinabili, bleah): perlomeno Enea era vedovo e gli stavano ripetendo ad nauseam da anni che doveva andare in Lazio e fondare una città per il bene dell'umanità ecc. ecc. Cosa non si fa per i posteri.

mercoledì 23 giugno 2010

Minimo sindacale

Come sanno anche i sassi, ho un lavoro statale. Non sto allo sportello, ma sono in un posto dove sono spesso in contatto con il pubblico, soprattutto per telefono.
Ultimamente, poi, il mio telefono scotta per vari motivi: non solo ci sono varie scadenze, ma ho anche una collega in ferie.
Mi capita spesso che mi vengano chieste informazioni strampalate o che non sono di mia competenza, eppure cerco sempre di soddisfare le richieste di chi mi chiama. Anche perché mi rendo conto che spesso chiamano qui perché non hanno ben chiaro il ruolo di una presidenza o sono persi nel mare magnum della burocrazia universitaria.
Cerco di essere efficiente e gentile, anche perché spesso devo dare brutte notizie, tipo "non puoi chiedermi la tal risorsa perché sei fuori scadenza" o "devi venire a correggere i registri" o "ti dobbiamo decurtare il compenso per il contratto dell'anno prossimo".
La maggior parte delle volte, mi ringraziano per la gentilezza. Alcuni lo fanno con molta enfasi, come se io fossi una luminosa eccezione nel triste panorama statale.
Eppure a me non sembra di fare chissà che, né che le mie colleghe facciano diversamente da me. Anzi: se qualche volta a qualcuna di noi capita di rispondere in modo più brusco, poi si "giustifica" con le altre raccontando com'è andata. Di solito si tratta di qualche maleducato prepotente, anche se devo dire che si tratta di una categoria minoritaria.
Da figlia di statale e reduce da un altro dipartimento, devo dire che la gentilezza è una priorità non solo nel mio attuale luogo di lavoro, ma anche in molti altri ambienti universitari. Per intenderci: si tratta non tanto di un diktat astratto calato dall'alto, quanto di una pratica in uso a cui tutti gli appartenenti a un certo ufficio/laboratorio si uniformano.
Certo, capitano anche i colleghi di altri uffici che fanno gli stronzi con altri colleghi, ma in genere verso il pubblico ho sempre visto una grande attenzione.
Con l'eccezione degli sportelli della segreteria studenti. Lì posso capire che la massa di studenti sia più grande e che quindi i maleducati siano anche più frequenti. Posso capire anche che i ritmi siano sempre tali da mantenere una certa tensione che poi si scarica al minimo intoppo. Ma non posso capire che per lavorare a uno sportello sia necessario essere maleducati, pure con il beneplacito dei colleghi, che si comportano nella stessa maniera.
Prima di tutto perché nessuno ti obbliga a lavorare lì: la mobilità interna è fatta apposta per evitare che uno si ritrovi intrappolato per sempre in un ruolo che non gli si confà.
Secondo perché tu hai un potere, e da ogni potere deriva la responsabilità come minimo di abusarne.
Terzo, perché chi ci mette la faccia sei tu. A me non piacerebbe essere riconosciuta per la strada come "quella stronza che tratta male allo sportello", non importa quante giustificazioni io possa avere. Il boia del Medioevo faceva un brutto lavoro e per questo portava il cappuccio. Io non sono stata assunta per trattare male le persone, e voglio poter girare a testa alta.
Quarto, perchè essere maleducato non migliora la tua situazione: non prendi più soldi, non lavori di meno, non ti danno compiti più piacevoli. Avveleni te stesso e gli altri. Quindi, vale di più la pena di mettere su un bel sorriso, armarti di un po' di comprensione e farti apprezzare da chi ha a che fare con te.
Non so se ci siano luoghi di lavoro statale dove si faccia a gara a chi tratta peggio gli utenti. Andando agli sportelli dell'ASL, spesso se ne ha l'impressione.
Però la mia esperienza è che la gentilezza è un requisito minimo per svolgere qualsiasi lavoro a contatto col pubblico, esattamente come la competenza. Anzi, forse anche un po' di più, perché spesso io vado oltre le mie competenze proprio per soddisfare la mia utenza.
Forse perché, invece che come numeri e matricole, io vedo chi mi sta di fronte come persone che hanno dei problemi e che preferirebbero starsene a spasso piuttosto che venire a rompere le scatole a me. Vedo me stessa a 19/20/21/22 anni, a fare file di ore per presentare il piano di studi. Vedo mia mamma che fa la fila dal medico/all'ASL/alla posta per conto di mio nonno. Di nuovo, vedo me stessa che non posso fare nello stesso sportello tutte e 3 le cose che devo fare e mi devo sparare 3 file differenti in 3 luoghi distanti tra loro circa un km.
Forse chi ha la maleducazione facile dovrebbe andare a fare un po' di file in posta o al CUP di un ospedale, invece di passare sempre avanti perché "tra colleghi ci si conosce".

lunedì 21 giugno 2010

Tra la vita e la morte

Ieri ho fatto una cosa un po' stupida: anziché vedere uno dei tanti film mai visti che ho lì da parte, ho rivisto un film di 16 anni fa, Léon.
Va da sé che ho una piccola passione per Luc Besson, soprattutto per i suoi primi film. Oggi ci può apparire facile e commerciale, ma, se si calano i suoi primi lavori nell'epoca e nel Paese in cui sono stati realizzati, lo si può vedere facilmente come un Tarantino ante litteram. Un Tarantino francese e molto primi anni '90, certo, ma secondo me non meno innovativo.
Un esempio? La scena di Nikita in cui arriva Jean Reno a risolvere un casino e scioglie nell'acido un tizio ancora vivo.
Oppure, meno splatter ma devastante anche perché è all'inizio del film: la scena de Le Grand Bleu in cui il padre del protagonista, palombaro, muore annegato perché il tubo si stacca e non si riesce a tirarlo su.
Mentre Nikita l'ho rivisto diverse volte e mi sono sorbita anche tutte le varianti sul tema, Léon sarà pure passato in TV ma non l'avevo mai rivisto da quel lontano maggio 1994 in cui ero stata al cinema con le mie amiche. Rivederlo dopo 16 anni mi ha dato la misura di quanto io sia diversa da ciò che ero e che credevo di diventare.
Lo ricordavo come un film struggente soprattutto per il rapporto d'amore impossibile tra la ragazzina di 12 anni e il sicario maturo, un giocattolone romantico e divertente. Ieri mi ha progressivamente aggrovigliato le budella, toccando vari tasti della mia anima di adulta.
Mi sono incazzata come una iena (e Luca con me) perché un padre non può essere così coglione da mettere a repentaglio i propri figli per provare a fregare un poliziotto corrotto e psicopatico con il grilletto facile. Mi ha ferita la morte del bambino di 4 anni, figlio di cotanto padre coglione. Mi sono detta che solo un padre potrebbe andare a recuperare una ragazzina nella sede della DEA, sparando a tutto ciò che si muove e uscendone in 10 minuti, altro che amore romantico. Mi sono incazzata per certe pose da ragazzina che forse 16 anni fa mi erano parse più giustificate. E infine, per interferenza di Luca, ho trovato assurdo che Mathilda interrasse una pianta d'appartamento in mezzo a un prato assolato e un po' secco.
Ho concluso che il film che ho visto ieri è completamente diverso da quello di 16 anni fa. Mi ha lasciato sensazioni diverse e ricordi diversi. Mi ha lasciato anche desideri diversi.
16 anni fa, uscivo da un film del genere pensando che un uomo così non l'avrei mai trovato. La mia attenzione era focalizzata su Léon come se mi fossi identificata in Mathilda. E, oltretutto, un uomo così speciale l'ho pure trovato, anche se per fortuna non fa il sicario.
Ieri, per tutto il tempo in Mathilda ho visto Amelia (probabilmente anche per suggestione del fatto che, fatte salve le differenze d'età, hanno una corporatura simile). Tentativi di seduzione a parte, mi sono identificata in Léon. Ho desiderato essere pericolosa come lui, per proteggere i miei figli. Un po' come quando Ettore mi chiama "dragomamma" anche se poi vedere il dragomamma in azione nel cartone gli fa un po' paura: è un po' come se sapesse che per proteggere i suoi "draghi piccoli" il dragomamma deve essere terribile con gli estranei, anche se poi è affettuosa e premurosa con i suoi draghi piccoli.
Certo, se fossi pericolosa come Léon, i miei figli correrebbero dei rischi solo per il fatto di essere figli miei: non è che uno fa il sicario così come va a lavorare in banca. Ci si fa dei nemici, e poi la legge non è proprio dalla tua parte.
Eppure il lavoro di sicario è spesso usato dalla letteratura e dal cinema per smuovere i sentimenti del pubblico, per mettere in discussione i nostri valori e la nostra morale. Léon dice chiaramente: niente donne né bambini. Al di là dell'opportunità di mettere le donne su un piano diverso dagli uomini (chiaramente ispirato a un concetto di cavalleria d'altri tempi, dal momento che le donne possono essere come e peggio degli uomini), un'affermazione del genere ci dice che questo sicario ha valori morali più alti di certe rispettabili aziende che impiegano lavoro minorile o di certi corretti datori di lavoro che fanno firmare le dimissioni in bianco alle donne di età fertile. Eppure questa etica condivisibile si sposa al lavoro non etico per eccellenza.
Un altro motivo per cui i sicari e i loro simili sono molto amati da noi narratori è che trattano con la morte, tema "forte" per eccellenza. Léon dice: dopo che hai ucciso un uomo, la tua vita non è più la stessa. Oggi lo capisco, perché la stessa cosa ti capita dopo che hai messo al mondo un uomo (o una donna), ovviamente per motivi diversi.
Certo, nessuno ti inseguirà in capo al mondo con una squadra d'assalto per aver partorito uno o due esseri umani (a meno che tu non sia la regina/senatrice Padme e i tuoi figli non si chiamino Luke e Leyla). Però è vero che la tua prospettiva cambia completamente, cambiano le tue aspettative, cambia persino la tua morale.
Se prima potevi pensare di fare cose amorali per amore di un uomo (il classico di Tosca che uccide Scarpia), oggi sai che l'uomo che ami, per quanto tu lo ami, non avrà mai la priorità rispetto ai tuoi figli. Sai che quelle cose amorali che avresti fatto per "lui" adesso le faresti solo per "loro", e mai e poi mai ti sogneresti di compromettere il loro futuro e la loro sicurezza per un qualsiasi altro motivo.
Insomma, non ti riduci a dormire su una sedia con un occhio aperto (a meno che tu non sia particolarmente ansiosa), ma la tua vita viene decisamente rivoluzionata. Ecco, adesso so che cosa rispondere a chi mi chiede che cosa direi a una neomamma parlando della maternità: direi di guardare Léon e immedesimarsi nel sicario, di mandare a memoria i momenti in cui lui parla del proprio mestiere. E di pensare che sì, il mestiere di mamma (come quello del sicario) ha a che fare col dolore, col sangue, con vari liquidi organici, con tanto rumore e tanta confusione. Ma dà anche lui le sue belle soddisfazioni.

mercoledì 16 giugno 2010

La vita è meglio dei sogni

Da quando ho sposato Luca, faccio sogni strani e ricorrenti.
Di solito sogno di essere prossima al matrimonio con qualcuno e non mi ricordo con chi. Passo in rassegna più di un candidato e inorridisco, perché non ne amo nessuno. Non riesco a ricordarmi perché mi sto sposando.
Poi mi sveglio, mi ricordo chi è mio marito e tiro un gran sospiro di sollievo.
Ultimamente mi è capitata una variante: ho sognato che non avevo una casa mia, ma che vivevo al piano di sopra della vecchia casa dei miei, un po' come prima di uscire di casa. Ero sposata con qualcuno, ma quel qualcuno non aveva una faccia o una personalità, era un'entità astratta che non mi entusiasmava.
Poi mi sono svegliata e mi sono ricordata che vivo fuori casa da 8 anni e che da 6 anni casa mia è questa. Mi sono ricordata mio marito, i miei figli e le gatte. Con enorme sollievo.
Ora, io potrò essere in un periodo sfortunato, potrò essere nervosa sul lavoro, potrò maledire mille volte il clima e la fauna del luogo in cui vivo. Ma scoprire che la propria realtà è migliore dei sogni non ha prezzo.

martedì 15 giugno 2010

Occhio malocchio prezzemolo e finocchio

Devo aver fatto uno sgarbo a qualche divinità. E credo anche di sapere quale, ma Dio bono una volta in 33 anni si può anche saltare!
Altrimenti non si spiega perché, con l'arrivo del caldo, in casa mia si siano scatenate tutte le peggiori malattie da raffreddamento.
Ha cominciato Amelia, con una tosse convulsa durata due settimane. Poi ho attaccato io e l'ho sconfitta a colpi di Levotuss in 10 giorni. Mia madre al mare ha avuto la febbre per qualche giorno, il che ha fatto slittare le trasferte dei figli. Infine Luca ed Ettore si sono presi quasi in contemporanea una febbre infinita (5-6 giorni ciascuno). Ettore, tanto per gradire, ha pure una bella tosse grassa e quindi ha vinto un giro di Augmentin.
Se tutto va bene, domani finalmente Ettore dovrebbe partire per Chiavari con i nonni. Amelia dovrebbe andare dai nonni di Torino giovedì. E noi ci faremmo una discreta capatina al Suq di Genova senza figli, tra venerdì e sabato.
Poi Amelia tornerebbe domenica, Ettore martedì e Amelia ripartirebbe, stavolta per il mare.
Non sto male con i miei bambini, tutt'altro, ma sento il bisogno di disintossicarmi da loro. Di non vederli per più di 24 ore, perdipiù sapendo che stanno in un posto climaticamente migliore di casa nostra (e quindi eliminando qualsiasi accenno di senso di colpa).
Ho voglia di sgombrare la mente, di pensare solo a finire questo cavolo di lavoro con un software assurdo, di fare in tempo per riuscire ad andare in congedo a luglio e agosto senza dovermi collegare da casa o pensare al lavoro. Ho voglia di stare un po' con Luca, da sola, senza i minuti contati dai tempi dei figli, senza essere interrotta mentre sto raccontando o ascoltando una cosa qualsiasi.
Ho voglia di dedicarmi completamente a Viola, che forse la settimana prossima comincerà ad essere disegnata e che il mio disegnatore vorrebbe portare a Lucca.
Ho voglia di mettere un po' a posto la casa per accogliere gli amici che passeranno di qui ai primi di luglio, ho voglia di farmi una maratona di film da adulti, ho voglia di svegliarmi senza dovermi preoccupare di qualcun altro.
Ah, OK, avrei anche voglia di fare sesso con mio marito. Ma indovinate in che giorni cade l'assenza contemporanea dei miei figli.

sabato 12 giugno 2010

Il regalo perfetto

Quando nasce un bambino e/o un'amica scopre di essere incinta, mi si pone sempre di più il dilemma di che cosa regalare.
Non mi piace regalare abitini, a meno che non sappia che ce n'è un bisogno specifico, perché durano pochissimo e di solito ne arrivano una valanga.
Non mi piace regalare libri sui bambini che a me sono piaciuti (tipo Gonzalez o la Hogg), perché mi sanno troppo di consiglio non richiesto o velata critica in caso di secondo figlio.
Non mi piace regalare oggettini d'argento o gioielli, perché li trovo scomodissimi e quindi io stessa non gradisco riceverne.
Giocattoli manco a parlarne: tanto per i primi 6-12 mesi è probabile che il pupo non se li calcoli manco di striscio, e anche di quelli si viene sommersi.
Di solito ripiego o su cose che fanno piacere a prescindere (se si tratta di una persona che conosco bene) o su buoni prodotti per l'igiene del bambino.
Da oggi, posso tentare un'altra carta: il libro di Wonder è un regalo perfetto per una quasi o neo mamma.
Si può essere d'accordo o no con Wonder, si può essere anche irritati dal suo complesso di Peter Pan, ma alla fine si deve ammettere che questo libro racconta con molta sincerità i sentimenti contradditori che ogni madre prova nei confronti del primo figlio, quello che segna il passaggio da non-madre a madre.
Io ho cominciato a leggerlo con i peggiori presupposti: conoscevo già abbastanza bene il suo blog, parto da una visione completamente diversa della vita e della maternità, preferisco di solito leggere tutt'altro genere di narrativa (per intenderci: se non c'è neanche un reato penale in quarta di copertina, il libro resta nello scaffale).
Eppure l'ho trovato avvincente e piacevole, ben scritto, ben orchestrato soprattutto nella prima parte. A sorpresa (ma non troppo, viste le recensioni di Vale, MammaCattiva e Claudia), ho trovato molto più interessanti e sentite le parti più serie, mentre alcuni episodi più da macchietta, che avevo già letto sul blog, mi sono sembrati più banali e tutto sommato poco significativi.
Ecco, un'altra cosa che mi lascia un po' perplessa, ma che penso sia dovuta al fatto che la figlia di Wonder è ancora molto piccola, è la separazione molto netta tra ciò che si fa per e con i figli e ciò che si fa per se stesse e con gli amici / il partner.
In questi giorni casa mia è (stata) un lazzaretto: i maschi sono (stati) malati con febbre, Amelia si stava riprendendo dalla precedente tosse, io ho fatto la malattia in piedi. In tutto questo, un'amica mi dice che in questi giorni ci sarebbe il saggio della mia prima scuola di danza e che lei ci andrebbe volentieri. Lì per lì ci accordiamo per giovedì, ma poi giovedì non me la sentivo di lasciare Luca a casa da solo con Ettore superfebbricitante e Amelia. Allora ci accordiamo per ieri, e decido di portare con me anche Amelia, che ama la danza.
È stato quasi come uscire con un'amica: ci siamo preparate e siamo andate, là abbiamo seguito lo spettacolo, ci siamo prese una coca al bar insieme alla mia amica. Insomma: ho avuto una serata per me, con l'ovvio vincolo della resistenza di Amelia (che però ha retto benissimo tutto lo spettacolo, si è addormentata solo in macchina sulla via del ritorno) e con una scusa in più ("scappiamo, la bambina ha sonno") per non dover fare falsi commenti positivi sui pezzi di danza mediorientale.
Questo non per dire che Wonder dovrebbe portarsi la Porpi al pub o per negare che i figli cambino la vita, ma solo per sottolineare quanto a volte le situazioni che ci sembrano scolpite nella pietra siano destinate a durare pochi anni, per poi portarci a qualcosa di molto bello e molto inaspettato.
Ma probabilmente le stesse cose ce le potrà raccontare anche Wonder stessa, tra un paio d'anni, quando lei e sua figlia andranno insieme a fare shopping.

venerdì 11 giugno 2010

Da vicino nessuno è normale

Da qualche tempo, mi sto documentando sulla dislessia. Ho infatti buoni motivi per ritenere che mio marito ne sia affetto in forma leggera e che anche altri membri della sua famiglia non ne siano immuni.
Quindi, da quando mi sono trovata tra le mani questo libro, ho cercato maggiori informazioni anche tramite il sito dell'AID.
In particolare, temo che la più predisposta sia Amelia, anche se alcuni suoi recenti exploit sembrerebbero contraddire la mia impressione. Infatti, anche in età prescolare è possibile ravvisare sintomi della dislessia, che si sovrappongono anche ai "problemi" rilevati dalle maestre: difficoltà di concentrazione, un linguaggio non ancora pienamente sviluppato (soprattutto nella comprensione della fonetica delle parole), scarsa memoria a breve termine, ecc.
Da un lato, sarei favorevole a sottoporre Amelia a test che portino a una diagnosi precoce, perché la dislessia, se opportunamente trattata, può essere un disagio minore. E perché un insegnante, sapendo che un bambino è dislessico, può calibrare i compiti sulla base delle sue possibilità e predisposizioni.
Dall'altro, mi dico che suo padre e molti suoi parenti si sono laureati prima e meglio di tanti "normali", hanno lavori molto più soddisfacenti di tanti "normali" e magari non hanno fatto molta più fatica dei "normali", semplicemente la loro fatica è stata diversa. E quindi mi chiedo se sia il caso di far etichettare una bambina come problematica solo per un lieve disturbo dell'apprendimento. Perché, non nascondiamoci dietro un dito: anche se la scuola si impegnasse per aiutare mia figlia a superare le difficoltà date dalla dislessia, temo moltissimo la reazione delle famiglie dei compagni nei confronti di una bambina con difficoltà dell'apprendimento.
Mi vengono in mente tutte le storie di bambini di cui veniva chiesto il trasferimento perché ritardavano il programma, per il solo fatto magari di essere stranieri. Non dimentichiamoci che i miei figli andranno a scuola in un paese dove andare a Pavia (15 km) viene ancora considerato un viaggio.
Il fatto è che a volte mi sembra che si tenda a patologizzare tutto, il che è un sintomo di omologazione estrema.
Per esempio, 30 anni fa un bambino con difficoltà di apprendimento veniva un po' incoraggiato, un po' spronato, in modo ruspante. Se proprio proprio non ce la faceva, lo si catalogava come uno "che non ci arrivava" e fine: sarebbe andato a fare l'idraulico o il muratore, guadagnando peraltro ben più di me. Ma il range entro il quale si era considerati "normali" era molto più ampio, verso l'alto e verso il basso.
Anche nei comportamenti si era molto più "tolleranti". Ricordo per esempio un bambino della mia classe: molto silenzioso, un po' chiuso, non proprio bello. Insomma, il classico bambino che la maestra ignorava/tollerava perché era tranquillo, ma di certo non era portato in palmo di mano. Ebbene, questo bambino disegnava benissimo: mentre noi arrancavamo dietro i nostri tratti infantili, lui già padroneggiava effetti di profondità e prospettiva.
Oggi forse verrebbe sospettato di avere problemi psicologici, si metterebbero sotto pressione i suoi genitori (mi pare di ricordare che non fosse di famiglia ricca e che spesso venisse a scuola con vestiti un po' consunti e strani), lo si etichetterebbe come un bambino problematico. Invece questo ragazzo (l'ho scoperto lavorando con un suo cugino, ricercatore universitario) lavora nella protezione civile, continua a interessarsi di grafica e arte, è più integrato di me nella realtà sociale pavese.
Oppure penso a quello che mio marito mi racconta di se stesso: io mi sarei preoccupata ad avere un figlio che a 16-18 anni era ossessionato dalle piante grasse e dalla ceramica, che non aveva una compagnia di amici con cui uscire, che non aveva non tanto una ragazza ma nemmeno una a cui andare dietro. Eppure quel ragazzo strano è diventato un uomo meraviglioso e uno splendido padre.
Insomma, non voglio banalizzare dicendo che ci inventiamo solo malattie inesistenti, tutt'altro: è bello e utile che si possano fare diagnosi precise, a cui abbinare terapie mirate.
Però forse, a volte, quando ci facciamo prendere dall'angoscia di avere un figlio "diverso", dovremmo fermarci un attimo e guardarci intorno e indietro. Pensare a come eravamo noi da piccoli, confrontare le nostre paure di oggi con i percorsi che ci stanno alle spalle, relativizzare.
Per esempio, un tema ricorrente nei post di momatwork è la tensione tra desiderio di crescere i figli a modo proprio e timore di estraniarli dal mondo dei propri compagni. Io questa tensione l'ho risolta pensando a com'ero io alle medie: mentre i miei compagni ascoltavano i Duran Duran e impazzivano per Madonna, io ascoltavo l'opera e leggevo biografie storiche. Per molto tempo non sono stata popolare, per molto tempo sono stata considerata strana, ma poi ho legato con persone che erano il mio opposto (tra cui il fan sfegatato di Madonna) e sono stata contenta di non essermi dovuta omologare per trovare degli amici. Dall'altro lato, il ragazzino più carino della classe in terza media mi chiamava tutti i giorni e stavamo al telefono per ore, ma poi in mezzo agli altri non aveva il coraggio di starmi vicino, figurarsi manifestarmi una simpatia particolare: oggi mi dispiace per lui, non per me.
Essere dislessici può essere un problema grosso come non far mistero di amare i libri, non essere omologati può essere un problema quanto esserlo troppo.
Sta a noi genitori trovare il nostro equilibrio, credo, e aiutare i nostri figli ad essere fieri di ciò che sono.

martedì 8 giugno 2010

L'arte del macellaio

Sono nipote di macellaio equino, ho passato tutte le mattine della mia prima infanzia (fino ai 6 anni) tra la macelleria e il retrobottega. Per par condicio, sono pure nipote di fruttivendolo, però dai nonni fruttivendoli andavo nel pomeriggio, quando c'era pochissimo lavoro: la nonna restava a presidiare il negozio lavorando all'uncinetto e io andavo con il nonno al parco del Castello.
La macellieria invece l'ho vissuta parecchio, anche perché mi piaceva un sacco quell'ambiente tutto rivestito di marmo bianco, il profumo della carne fresca, l'andirivieni delle persone. Mi sembra di essere stata testimone di un'epoca ormai dimenticata, in cui la gente andava di mattina a comprare ciò che avrebbe cucinato durante il giorno, i supermercati non tenevano ancora ortofrutta e carne, non c'era l'abitudine di surgelare. Per contro, non c'erano i banconi frigo e quindi mio nonno doveva fare la spola tra il negozio e la cella frigo, con la conseguenza che il continuo caldo-freddo gli ha causato e continua a causargli problemi. Non c'era il sottovuoto, quindi la carne la dovevi tagliare giusta e sul momento, altrimenti la buttavi. Non c'era la cultura dei cibi buoni e genuini, quindi mio nonno vendeva la sua meravigliosa carne per una miseria (oltretutto, prima della mucca pazza, la carne di cavallo era da poveracci o da malati di anemia).
Mio nonno ha cominciato questo lavoro a 6 anni, lavorando in un macello (chi ha un figlio di 6 anni pensi a tutte le volte in cui ha cercato di ritardare il suo incontro con la morte raccontandogli pietose bugie sulla provenienza del coniglio o del pollo nel piatto). Pian piano, grazie alla sua passione e all'incontro con quel panzer di mia nonna, ha aperto una sua macelleria e si è creato una clientela affezionata, a cui riservava scherzi, attenzioni e la migliore carne possibile.
Quando ha chiuso la macelleria, è andato ad aiutare un giovane macellaio ad avviare la sua macelleria equina, oggi la migliore di Pavia e provincia.
Quando nel 2003 è stato operato di tumore all'intestino, nel delirio postoperatorio mi raccontava in quante parti è divisa la bistecca e come bisogna trattarla perché sia perfetta.
Nella mia famiglia, cucinare la carne è quasi un rito sacro. Si cucina di preferenza la carne di equino, con un'eccezione per quella di bovino del signor Sirtori. Le altre carni o le trattiamo con sufficienza (tipo il pollo) o ci asteniamo dal cucinarle perché non ne abbiamo la cultura e rispettiamo troppo la carne per rovinarla. Ovviamente, se qualcuno ben ferrato su agnello e capretto volesse farmi un corso pratico accelerato, sarei ben lieta di apprendere.
Nella mia famiglia, ci sono alcune preparazioni che sono rimaste nella storia: per esempio la trita "accomodata" di mia nonna, il suo ripieno per i ravioli e il suo stufato. Ogni generazione cerca di assorbire le abilità della precedente e aggiungerne di nuove. Io, per esempio, sto perfezionando il ragù al rabarbaro ma non saprei fare se non a spanne la trita accomodata.
Tutto questo per dire che, quando usare le parole "macellaio" e "macello" in modo spregiativo, mi viene da incazzarmi.
Prima di tutto perché mio nonno è il contrario dello stereotipo del macellaio: secco e mingherlino, per nulla incline alla violenza se non a quella verbale (è un ammazzasette di 60 chili), innamorato dei cavalli e della natura, non è capace di far male a una mosca. È una persona ignorante e a volte un po' ottusa, ma ha fatto della propria professione un'arte.
In secondo luogo, perché uno dei punti saldi della buona carne è l'uccisione dell'animale senza crudeltà e possibilmente senza stress: l'adrenalina infatti rende la carne più amara. Ecco perché quasi tutte le culture hanno sviluppato metodi di macellazione quasi indolori o perlomeno volti a rispettare il più possibile il benessere dell'animale. Poi, per carità, convengo sul fatto che l'animale starebbe meglio se restasse vivo, ma a quel punto niente carne.
Certo, al giorno d'oggi la carne è quasi un cibo per poveri: venduta a poco prezzo nei fast food, demonizzata da oncologi e cardiologi, bollata spesso come cibo "non etico" o addirittura pericoloso per le sostanze che vengono somministrate in certi allevamenti.
Io, proprio perché ne ho il massimo rispetto, non ne abuso e la scelgo della massima qualità (che senso ha mangiare tutti i giorni una carne schifosa? meglio una volta alla settimana ma buona!), evito la carne di animali troppo giovani (del resto, la biodinamica non permette la macellazione dei vitelli) e rivolgo sempre un pensiero di gratitudine alla povera bestia che sto mangiando. Ai miei figli non nascondo che i simpatici vitelli maschi con cui giocano un giorno finiranno nei loro piatti, perché possano rendersi conto e magari, un giorno, scegliere di interrompere la tradizione di famiglia e non mangiare più carne, se lo riterranno più giusto.

sabato 5 giugno 2010

I cugini di campagna

Si sa, Milan l'è 'l gran Milan. A Milano c'è la vita, c'è la movida delle blogger, c'è il MomCamp.
Noi provinciali, per non sentirci da meno, abbiamo pensato di prepararci al MomCamp ospitando Flavia nella penultima tappa di MomOnTheRoad. Povera Flavia e povero Pezzetto: non contenti di averli infastiditi con tutte le mosche delle nostre stalle, gli abbiamo dato il colpo di grazia con le zanzare del Parco del Ticino, specie ferocissima e purtroppo non rara, la cui estinzione anzi auspichiamo.
Il giorno dopo, il MomCamp ha dato a Flavia la scusa per levare le tende il prima possibile da questa gabbia di matti (non prima però di averci dato il suo autorevole parere sul nostro yogurt greco).
Noi ce la siamo presa più comoda e con gran cialtroneria: tra lavacri e vestizioni varie, siamo partiti con un'ora di ritardo e poi ci siamo persi in via Paolo Sarpi a cercare la sede dell'incontro.
Confesso: in realtà, avevamo una gran voglia di passare a salutare il nostro macellaio di fiducia, quello che macella le nostre bestie e rivende molti nostri prodotti.
Un po' perché la sua macelleria è un tempio della gastronomia: le sue celle di stagionatura sono bellissime e piene di profumi invitanti. E il signor Sirtori è una di quelle persone con la fortuna di amare il proprio lavoro, di quelli che hanno le stelline negli occhi quando ti fanno annusare un culatello o quando ti parlano di un parmigiano bio fatto solo con latte di romagnole registrate.
Un po' perché questo signore per me è un po' speciale: era in negozio il giorno in cui la cascina ha saputo della nascita di Amelia e da allora si è sempre informato dei nostri bambini. Inoltre, da 9 mesi, è nonno anche lui. Infatti ha accolto i miei bambini con grande simpatia e ha regalato a ciascuno un salamino. La mamma invece è stata omaggiata di una generosa cucchiaiata di lardo pestato prodotto proprio dal signor Sirtori, che ci ha raccontato anche di come fa i salami tutti gli anni dopo i Morti, come vuole la tradizione.
Insomma, direi che questa deviazione ha ampiamente giustificato il nostro ritardo nell'arrivare al MomCamp. Peraltro, siamo arrivati quasi contemporaneamente a Claudia, quindi non ci siamo sentiti proprio così strani.
Confesso: presa dalle chiacchiere con Claudia stessa, Mammafelice, MammaCattiva, MammainCorriera, Maddalena, Wonder e molte altre, al mattino non ho ascoltato praticamente nessun intervento. Mi sono rifatta nel pomeriggio, in cui mi è molto piaciuto l'intervento di ProfessionePapà, che ha generato un bel dibattito sul ruolo del padre, sulla mediazione familiare, sulla possibilità di un congedo paterno obbligatorio come in Svezia, ecc. Soprattutto, mi è piaciuta la serena presa di coscienza del fatto che, se un padre lo desidera, le soluzioni si possono trovare anche se i diritti non ci sono. Per esempio, nessuno vieta a un padre di impiegare le proprie ferie per stare vicino alla moglie dopo il parto. Trovo ingiusto che si debbano usare le ferie per questo scopo e che la legge non preveda una contemporaneità dei congedi almeno per un breve periodo, però giustamente ProfessionePapà dice: bisogna creare il terreno per un mutamento culturale, in modo che questo arrivi ai legislatori, ai datori di lavoro e ai giudici (per quanto riguarda le separazioni). E se, per preparare questo terreno, bisogna perderci un pochino, saranno sacrifici sopportabili.
Del resto, se un ospedale come il Gaslini ha accettato di fare esperimenti per attirare più padri ai corsi preparto (padri che invece in altri ospedali vengono invitati a stare a casa per non affollare troppo le aule), qualche speranza c'è.
Nel frattempo, dopo un iniziale momento di diffidenza, Amelia ed Ettore si sono buttati nei laboratori creativi di Filastrocche.it e sono spariti per lunghi periodi, ricomparendo ogni tanto per farmi vedere i loro lavoretti (dal momento che l'unico accesso all'esterno era presidiato e il luogo abbastanza raccolto, stavo piuttosto tranquilla). Hanno giocato con gli altri bambini e si sono divertiti un sacco, tanto che, quando è stato il momento di andarcene, hanno protestato.
La cosa invece che è piaciuta di più a me? Il fatto di poter chiacchierare serenamente con altre persone senza dovermi preoccupare più di tanto del benessere dei bambini o, al contrario, temere che disturbassero / si cacciassero nei guai. Ovvero il fatto che siamo tutti stati bene, nessuno si è sacrificato alle esigenze degli altri e alla fine di questa giornata siamo tutti stanchi ma felici.

giovedì 3 giugno 2010

Il prete bello

Questa storia risale a quando ero giovane e bella, nonché libera come l'aria. Risale a un periodo spensierato, in cui il lavoro andava alla grande, ero uscita di casa da poco e la danza era ancora una novità di cui parlare con tutti.
Era settembre. Avevo passato una bella estate di divertimento e avevo ricominciato a lavorare con un certo entusiasmo. Il mio collega, reduce da un viaggio in Africa, ancora di più. Entrambi eravamo entrati di fresco nelle nostre nuove case, entrambi ci godevamo il fatto di abitare più o meno in centro a Pavia.
Un giorno, il mio collega mi porta a pranzo con un suo amico che già conoscevo da altre fonti (era stato socio di una mia amica in una cooperativa) e con un altro di cui mi aveva tanto parlato, l'amico prete.
Il mio collega e l'amico prete erano amici d'infanzia e compagni di scuola fino alle medie. A 19 anni, avevano fatto insieme un corso per animatori turistici. Poi il mio collega aveva rinunciato a partire, perché si era fidanzato e aveva cominciato a convivere. Invece l'altro era partito e aveva fatto la vita dell'animatore per 4 anni, senza farsi mancare nulla.
Al ritorno, aveva deciso di abbracciare la vita religiosa. Il giorno in cui l'ho conosciuto, aveva 26-27 anni e attendeva di prendere i voti definitivi (che poi so che ha preso).
Io ero consapevole del fatto che l'amico prete fosse un bel tipo, ma non ero preparata a sufficienza: al mio arrivo nel bar dove ci eravamo dati appuntamento tutti e 4, mi vedo una tonaca nera in cui era insaccata una statua romana: alto, moro, gran bel fisico imponente, una testa da moneta del I secolo d.C., occhi di un verde cangiante dallo smeraldo al bosco. Unico difetto: una piccola sella sul naso, tipo Ayrton Senna buonanima.
I miei poveri ormoni, reduci da un periodo di magra dopo l'estate allegra, sono tutti impazziti: non erano preparati a tanto splendore. Ed io ero abbastanza ben messa da potermi permettere di non nascondere la mia ammirazione, ché son cresciuta con Padre Ralph e certi imprinting non si scordano.
Abbiamo pranzato e chiacchierato. Ovviamente, siccome noi 3 ci eravamo visti più di recente, chi parlava era principalmente l'amico prete: raccontava della vita religiosa (non so se appartenesse a un ordine particolare o solo a una comunità di religiosi o se il fatto di vivere in comunità fosse parte della sua formazione), ci bacchettava ridendo ogni volta che ce ne uscivamo con una parolaccia, raccontava le reazioni dei vecchi amici comuni alla sua conversione e i nuovi rapporti con loro.
Ad un certo punto, non so come, l'amico prete se ne esce dicendo che, dei 3 voti, il più difficile da rispettare è la castità.
Ed io, che ero di fronte a lui, rispondo con aria un po' sognante: Eh, sapessi per chi ti sta di fronte... (e non ti può saltare addosso per via di quella maledetta tonaca, accidenti!).
Al che scoppiamo tutti a ridere e lui esclama: Vedete? Se ti si offre così una danzatrice del ventre, come si fa a rimanere casti?
Beh, con grande forza di volontà, lui poi lo è rimasto. Ma non dispiacetevi troppo per me, che ho sublimato con gran soddisfazione: da quell'incontro, ha preso corpo un personaggio su cui fantasticavo da tempo ma che nella mia testa non aveva ancora una faccia.
A lui, una volta avviata l'avventura di Viola (speriamo presto), dedicherò i miei prossimi sforzi.