mercoledì 30 dicembre 2009

Prima di andare via

Domani, se tutto va bene e il cielo non mette giù un metro di neve, si parte. Si va verso il mare, a Levanto.
Non so che cosa mi aspetta là, probabilmente anche un po' di noia: se il tempo non si mette decisamente al bello, non è che potremo passare molto tempo all'aperto. Ci porteremo qualche gioco, un po' di colori e fogli, un po' di musica e magari un paio di DVD da vedere su portatile.
Quasi sicuramente faremo un salto a Genova: la ferita di non essere riuscita ad andare prima di Natale è ancora fresca, e poi voglio tornare nella bellissima libreria di via Canneto. Mi piacerebbe anche portare Luca e i bambini a Castello d'Albertis, magari attraverso l'ascensore che sembra un'attrazione di Gardaland.
Ci piacerebbe tornare in un ristorante di Levanto, il Moresco, per farci il loro spettacolare antipasto misto, che vale come un pranzo di nozze. E mi piacerebbe rivedere le Cinque Terre in versione non vacanziera.
Vorrei fare tante belle foto, ma la mia digitale comincia a perdere i colpi nella messa a fuoco (è un'automatica, deve essersi starato il sensore) e non ho avuto tempo né di andare a farla vedere né di interessarmi seriamente per comprarne un'altra.
Spero soprattutto che i bambini stiano bene e si ricarichino un po', stando a contatto con l'aria di mare dopo tutta l'umidità malsana della Pianura Padana.
Statemi bene e godetevi queste feste, divertitevi con le vostre famiglie e vogliatevi bene. Noi cercheremo di fare altrettanto.

venerdì 25 dicembre 2009

Niente è cambiato

In questi giorni a casa, ho deciso di applicare una tecnica particolare per indurre il sonno nei figli: mi metto sul lettone insieme a loro e metto nel DVD un film che a loro non deve interessare per niente, né nel bene né nel male. Vanno bene film con un sacco di dialoghi e poca azione. Ieri, ho scelto un film che amo molto, "Elizabeth - The Golden Age".
Amo questo film per molti motivi. Prima di tutto, mi piacciono molto le figure di governanti donne, da Hatshepsut a Golda Meir. Secondo, adoro i film storici, sia per la rievocazione della storia sia perché resto incantata dai costumi. Terzo, mi piace molto Cate Blanchett, sia come attrice sia come donna. Quarto, mi sciolgo davanti a Clive Owen, è proprio una mia debolezza di femmina. Quinto, il personaggio di Walsingham, interpretato da Geoffrey Rush, mi piace tantissimo per il misto di umanità e mancanza di scrupoli, di lealtà e freddezza. Ultimo, avevo molto amato il primo "Elizabeth".
Stranamente per un sequel, ho amato di più il secondo film perché mi è più vicino in tante tematiche.
Prima di tutto, qui la regina non è più una giovane inesperta che deve affermare la propria bravura: è una donna ormai matura e serenamente insediata sul trono, esperta del proprio mestiere, con una certa quantità di problemi personali e di Stato da risolvere.
Oggi come oggi, Elizabeth mi appare come una di quelle donne che si sono votate interamente al proprio lavoro, che ne sono state assorbite per passione e necessità. Si ritrova ad essere sola, senza una famiglia e senza una persona con cui avere una relazione disinteressata e paritaria. E viene stuzzicata da un uomo che desidera e invidia, e che invece sceglierà una donna più "facile": più bella, più giovane, più docile, più indifesa.
Elizabeth è costantemente combattuta tra i suoi doveri di governo e il desiderio di avventura, tra la paura e il coraggio, tra la forza e il desiderio di poter essere fragile. Viene raccontata come una donna che oggi potrebbe essere una donna di potere nell'ambito della politica o dell'economia. Ma, nonostante io non abbia nessun potere, mi ci identifico moltissimo: quante volte noi donne siamo divise tra il dovere di mandare avanti un certo tipo di vita e il desiderio di essere libere? Molte risolvono il dilemma in maniera banale, scopandosi il primo che passa e facendosi nella testa dei film in cui si raccontano il grande amore. Altre trovano il loro equilibrio riversando il loro desiderio di avventura sul lavoro (e, nel periodo del precariato, diciamo che l'avventura è parte integrante del lavoro). Altre ancora decidono di vivere liberamente nel privato, e scelgono di non avere una famiglia tradizionale.
Io, codardamente o saggiamente, vivo le mie avventure attraverso i miei personaggi, e spesso rimpiango di non aver fatto certe esperienze quando potevo (l'Erasmus, per esempio, è il mio più grande rimpianto, ma anche avere un'esperienza lavorativa all'estero mi sarebbe piaciuto).
Un'altra caratteristica di Elizabeth in cui mi riconosco è il rapporto con gli uomini. Per tutta la mia vita, fino a quando ho incontrato Luca, ho sempre oscillato tra il reprimermi per non spaventare e l'angustiarmi perché gli uomini mi trovavano troppo impegnativa. Eppure io sono solo una piccola donna senza nessun potere, mai stata ricca, mai stata in condizioni di nuocere. Figurarsi una regnante, sia pure non proprio assoluta, come Elizabeth. Nel primo film, il suo rapporto con Leicester naufragava perché lui non si sentiva alla sua altezza e arrivava a tradirla nel più profondo dei suoi affetti, ovvero la politica; se non ricordo male, questo corrisponde più o meno a verità storica. Nel secondo film, c'è una scena emblematica di come sono le donne come me: lei scopre che l'avventuriero da cui è attratta vuole tornare in America, per diversi anni, e la cosa la sconvolge. Lo convoca per parlarne con lui ed è evidente che lei è sconvolta, isterica perché addolorata, sull'orlo delle lacrime. C'è un momento di silenzio. Lui sarebbe tentato di confortarla, di rivolgerle un gesto di tenerezza, e accenna a muoversi verso di lei con questa intenzione. Ma lei, che ha le mani sulla faccia e quindi non può vederlo, stronca sul nascere questo moto, dicendogli con durezza che gli vieta di partire perché l'Inghilterra ha bisogno di lui. E lui si congela: niente tenerezza, niente comunicazione, lei si è irrigidita e lui non prova nemmeno a far breccia. E invece io, che in quella situazione mi trovo spesso, so che lei in quel momento avrebbe proprio avuto bisogno di un abbraccio e di un po' di dolcezza, lei che non se ne concede neanche con se stessa.
No, nemmeno io ho trovato un uomo che mi dia dolcezza anche quando sono arrabbiata con lui. Ma almeno ne ho trovato uno che, invece di andarsi a scopare una più docile di me, ha le palle di restare e tenermi testa. Beh, è vero anche che io non ho il potere di rinchiuderlo nella Torre di Londra e fargli tagliare la testa.
Se non avessi incontrato Luca o uno come lui (che però son sempre stati pochi), probabilmente anch'io avrei preferito rimanermene single nel mio monolocale del centro. Probabilmente anch'io avrei guardato tutti i miei coetanei che si sposavano e figliavano, e non avrei saputo se invidiarli o compatirli. Probabilmente anch'io avrei visto troppo spesso gli uomini che mi interessavano passare oltre per mettersi con una meno impegnativa di me.
Per fortuna non sono una regina e ho potuto scavare nel fango alla ricerca del mio diamante grezzo, che mi tengo stretto.

mercoledì 23 dicembre 2009

Merry Christmas, turco!

Oggi, siccome i bambini giocavano tutti belli tranquilli e presi nella loro stanza, ho deciso di non aspettare Luca e mi sono messa nel lettore un DVD comprato mesi fa, "Il bagno turco". Si tratta di uno dei primi film di Ozpetek, se non il primo in assoluto.
Io di questo film possiedo la colonna sonora ormai da anni, è uno dei miei CD preferiti in assoluto. Ma non l'avevo mai visto prima: avevo solo una vaga infarinatura sulla trama di un tizio che va a Istanbul per vendere un appartamento ricevuto in eredità e scopre di essere omosessuale. Tanto per banalizzare un pochino.
Il film, in sé, non è un capolavoro. Non dimentichiamo che è vecchio di quasi 15 anni (ma ci pensate che spesso nel film si ripete che "gli hamam sono passati di moda"?) e che è un'opera prima. Non è nemmeno brutto, anzi, è godibile.
A vederlo oggi per la prima volta, sembra infarcito di stereotipi come la coppia acida e indifferente perché entrambi lavorano troppo e sono troppo presi dalla loro vita, la scoperta dell'omosessualità come equivalente della scoperta dell'autenticità dei rapporti, la valorizzazione di un mondo più arcaico ma genuino, eccetera. Ma poi ti chiedi se alcuni di questi non siano diventati stereotipi dopo, anche a causa della ripetizione dello stesso concetto ad opera dello stesso regista (penso all'omosessualità di Massimo nelle "Fate ignoranti").
Ma questi sono dettagli. Per chi, come me, è innamorato di Istanbul e la ritiene la vera protagonista del film.
Ho passato parte del mio viaggio di nozze a Istanbul. Me ne sono innamorata subito, al primo colpo. Mi sono innamorata sì delle sue bellezze turistiche (una Roma ma senza la pesantezza del barocco romano, una meraviglia!) ma soprattutto del suo modo di essere: una sintesi perfetta tra Europa e Asia, una capitale vitale ma non frenetica, positiva. Mi sono piaciuti molto i turchi con cui sono entrata in contatto, c'è stata subito sintonia perché mi ricordavano le cose migliori dei lombardi mescolate alle cose migliori del Mediterraneo: efficienti ma non ossessionati, cordiali ma non soffocanti.
Spesso, quando io e Luca sogniamo una vita migliore, il mio pensiero va a un caseificio in Turchia, patria dello yogurt. Scartiamo l'ipotesi solo per via della lingua, che credo sia al di sopra delle nostre possibilità.
Ma, se una zia sconosciuta mi lasciasse in eredità un hamam in pieno centro di Istanbul (in un quartiere che purtroppo ho visitato solo di straforo, e mentre ero troppo stanca), non avrei dubbi sul da farsi: gambe in spalla e via sul primo volo. Il guaio è che i miei soli parenti sconosciuti stanno in Argentina e con ogni probabilità, morendo, mi lascerebbero solo debiti.
Ed ora mi è rimasta appiccicata addosso questa nostalgia di un posto in cui sono stata per pochi giorni, ma che mi è entrato tanto nel cuore. Forse anche perché ero nella mia camera d'albergo dietro la Moschea Blu quando ho sentito Amelia muoversi per la prima volta. O forse perché il vento di Istanbul mi ha accarezzata e accolta dopo il caldo terribile di Bodrum, e gliene sono stata grata. O forse perché ci sono posti che, anche se non ci restiamo tanto tempo, riconosciamo come nostri, e ci lasciamo un pezzetto di anima.

sabato 19 dicembre 2009

Bozzolo narrativo

Non sono stati giorni meravigliosi, questi ultimi, diciamolo. Oltre ad aver perso 3 giorni di lavoro e una recita di Amelia, ho pulito (in collaborazione con Luca, che anche lui non si fa mancare niente) emissioni varie, ho emesso anch'io e mi sono saltata almeno un giro a cui tenevo (ovvero quello a Genova, al mercatino di San Nicola, dove, tra le altre cose, volevo incontrare di nuovo Maddalena e famiglia).
Però almeno due lati positivi ci sono stati: ho lavorato tanto alla serie di Viola (il fatto che Viola 0 cominci ad essere disegnata tra 6 mesi almeno e che non ci sia ancora un editore all'orizzonte è un mero dettaglio) e ho letto i due romanzi di Christine Von Borries consigliati da una strega e ordinati venerdì scorso.
Entrambe le attività mi hanno dato una bella soddisfazione (anche perché possono essere agevolmente esercitate mentre si è seduti sul water, a differenza di tante altre).
La serie di Viola sta assumendo la fisionomia della miniserie. Mentre in un primo tempo, ingenuamente, avevo pensato a una serie continua, tipo Dago (anche se, col senno di poi, penso che Dago avrebbe guadagnato molto dall'essere una miniserie di diciamo 24 albi) o Dampyr, adesso, pur lasciando una porta aperta a un'eventuale continuazione, ho deciso di concludere in 12 albi. La differenza è una maggiore concentrazione della continuity, ovvero tutte le macrotrame narrative vanno "a posto": il rapporto con il faccendiere francese, la questione dei genitori di Viola, la storia tra Stefan e Chiara. Rispetto a una miniserie più canonica, l'apertura consiste nel fatto che ci sono anche dei punti di partenza, su cui costruire in caso si volesse continuare. Il modello, scopertamente, è Nemrod, anche se le tematiche e i toni sono completamente (ma proprio completamente) diversi. Insomma: sono molto soddisfatta di questa interpretazione, anche se mi resta ancora un buon 30% da scrivere (parlo ovviamente dei soggetti, ché poi le sceneggiature saranno tutte un'altra storia).
Mi sono un po' distratta dalla revisione della sceneggiatura di Viola 0, ma avrò 6 mesi per farle le pulci e a volte è bene lasciare lì le cose a riposare (come l'impasto dei biscotti, insomma).
Anche i libri della Von Borries mi hanno dato una bella soddisfazione. L'unica delusione è un po' legata alla figura di Taddei, l'agente operativo di cui la protagonista, Irene Bettini, si innamora ricambiata: sembra un po' lo stereotipo romantico dell'agente segreto da romanzo rosa. Insomma, Le Carré ci ripete da 50 anni che la spia più brava è quella che passa inosservata, l'omino insignificante che reputi innocuo, e la Von Borries si inventa questa figura di agente segreto fascinoso, cavaliere senza macchia né paura in un mondo corrotto, che magicamente si innamora proprio dell'unica persona di cui poi potrà fidarsi... troppo inverosimile, dal mio punto di vista. Perdipiù, costui è sposato ma alla fine del primo romanzo si ritrova magicamente sciolto sia dal punto di vista civile sia da quello morale. Troppo bello.
L'aspetto positivo, invece, è che Irene Bettini è molto simile alla mia seconda versione di Viola: laureata in lettere senza prospettive, ha fatto il concorso per entrare nell'archivio del SISDE con lo stesso spirito con cui io ho fatto il mio master. Come me, si è progressivamente appassionata all'informatica e ne ha fatto il suo punto di forza. A differenza di me, ha fatto presto carriera in archivio. E qui cominciano i punti di contatto con Viola: Irene non è un'operativa ma si occupa di informazioni, è a contatto con gli operativi ma li considera un altro mondo, ha un contatto molto forte con la vita delle persone "normali".
Di Irene, mi piace molto anche il genere di considerazioni che fa sul proprio lavoro: da statale, mi ritrovo molto nel suo modo di vedere una struttura pubblica da dentro e di osservare i rapporti di lavoro in termini di gerarchie e convenienze. Insomma, direi che è una visione completamente diversa rispetto a quella a cui ci hanno abituati 007 e Alias: pochissimo eroismo, almeno nelle premesse, e molta burocrazia da scavalcare.
Poi, ovviamente, non sarebbero romanzi di genere senza una buona dose di azione. Lì un pochino mi casca di nuovo l'asino, soprattutto nel secondo, perché Irene, a quel punto addestrata per essere un'operativa, fa delle cazzate che non farei neanche io, che sono la persona meno qualificata per fare l'agente segreto (segretezza? diplomazia? pericolo? gastrite garantita in meno di una settimana). Però, nonostante alcune ingenuità, il patto di sospensione del giudizio tiene e ci si diverte.
In questi giorni in cui mi sono sentita più un'ameba che un essere umano, questo mondo narrativo, mio e altrui, mi ha coccolata e cullata come le fiabe della buonanotte di quando ero bambina. Non riesco a immaginare che ci siano persone che provano repulsione verso la lettura, perché per me la narrativa è un vizio più che un piacere, un elemento che non riuscirei ad eliminare dalla mia vita nemmeno se mi dicessero che è cancerogena. Una vita senza narrativa non è degna di essere vissuta.
Ma questo è tutto un altro post, che non mancherò di scrivere, prima o poi.

martedì 15 dicembre 2009

Vive la différence?

Ultimamente, in molti aspetti della mia vita, mi scontro col fatto di non essere e non fare come la maggioranza. Con il risultato di sembrare alternativa, snob, new age, femminista e sa Dio chissà quante altre cose.
Per esempio: la maggior parte dei miei conoscenti guarda la TV mentre mangia? E io ho appena rifatto la cucina, senza prevedere che si possa guardare la TV (che peraltro potevo guardare mentre mangiavo, nella vecchia cucina). Sembra la classica scelta da retrograda anti comunicazione di massa, no? No. È semplicemente che la TV era l'unico ostacolo all'attuale disposizione della cucina, che per il resto è comodissima sia per cucinare sia per mangiare sia per mettere via la spesa. Quindi abbiamo ranzato la TV, sapendo che, in caso di desiderio, avremmo potuto mangiare in salotto, al tavolo basso dei bambini (e a volte lo facciamo per le colazioni festive).
Oppure, altro esempio: non conosco la statistica esatta, ma mi sembra che più di un italiano su 2 non legga proprio neanche un libro all'anno. Non voglio parlare di me, che sono il ritratto della classica persona che ama leggere (donna, liceo classico, laurea in lettere, ecc.), ma piuttosto delle persone che vedo intorno a me: i miei amici, i miei colleghi dei vari luoghi di lavoro, la mia famiglia, mio marito, la famiglia di mio marito, tutta la gente che sta su Anobii... Certo, conosco gente che non legge, ma tra le mie conoscenze sono in netta minoranza. Eppure non posso negare i dati AIE, che fotografano una situazione ben diversa.
Con queste premesse, quindi, non mi sento di certo in diritto di parlare di soluzioni attuabili per tutta l'Italia, perché mi rendo conto di far parte di un'élite. Un'élite inconsapevole di esserlo, che crede che tutti gli altri siano già al suo livello di consapevolezza e di cultura.
Ecco perché, dopo quasi un anno passato a parlare di soluzioni per conciliare maternità e lavoro, per diventare un Paese al livello della Francia o della Svezia, mi rendo conto che questo non sarà probabilmente possibile in questa generazione. Spero nella prossima, ovvero quella dei miei figli, ma temo che nemmeno i miei nipoti vedranno un'Italia emancipata, se nessuno al governo si dà una mossa per promuovere veramente le pari opportunità (invece di usare quel ministero per dare uno stipendio a vallette in pensione).
L'illuminazione me l'ha data un post di Veremamme, in cui Flavia parla del fatto per cui oggi, in Italia, una donna che aspira ad avere una carriera viene spesso costretta a sacrificare la famiglia e viceversa. Flavia parla di come le donne siano quelle che più di frequente riducono mole o prestigio del lavoro, cercando una flessibilità più vicina alle esigenze della famiglia, oppure si trovino ad abbandonare del tutto il lavoro, per dedicarsi alla famiglia (cosa che in Italia significa condannarsi alla disoccupazione, mentre su mercati più dinamici può essere semplicemente una pausa dal mondo del lavoro). E questo, a differenza di quanto capita in altri Paesi, causa un arresto inevitabile della carriera, valore che Flavia rivendica come positivo (in contrapposizione all'accezione negativa che molti danno a questo termine, confondendolo con il carrierismo).
Il fatto, però, è che non tutte le persone hanno una carriera, né possono aspirare ad averla. Parlo delle segretarie (ricordiamoci che anch'io appartengo alla categoria, prima di eventualmente offenderci), delle donne delle pulizie, delle operaie in grandi o piccole aziende, delle persone a cui spetta il lavoro manuale e di scarso valore intellettuale. Parlo anche di operai, muratori, bidelli, tecnici, insegnanti. E parlo anche di tutte le persone che fanno un qualsiasi lavoro senza avere né doti né passione, ma solo il desiderio di trovare un mezzo di sostentamento.
Per queste persone non ha senso parlare di downshifting: avrebbe solo senso parlare di paternità obbligatoria e di pari diritti, in modo che non si crei quel meccanismo per cui la moglie lascia un lavoro che non ama per stare a casa con i bambini (e non le sembra di aver fatto un sacrificio), mentre il marito evita le camurrie della collaborazione domestica per guadagnare il pane per tutta la famiglia. Ma siamo sicuri che non si creerebbe comunque? Chi, avendo pochi mezzi sia materiali sia intellettuali, non sarebbe contenta di essere mantenuta nella sua calda famiglia, a fare quello che comunque farebbe oltre al lavoro? Chi non sarebbe contento di lavorare magari anche duramente, ma a fronte del fatto di poter tornare a casa, sbracarsi sul divano e non dover più pensare a niente? Quante volte abbiamo sentito qualche lavoratrice definire le casalinghe come "quelle che stanno a casa a far niente"? Io l'ho fatto spesso.
Certo, non lo faccio con Claudia de La casa nella prateria né con la mia amica C. o con la mia amica A., perché so che hanno fatto una scelta consapevole e meditata, e sicuramente non sono le classiche casalinghe che, una volta lucidati tutti i pavimenti, sono in preda all'isteria perché non sanno cosa fare.
L'ho fatto e lo faccio con persone che rappresentano lo stereotipo peggiore della casalinga, quella il cui massimo fermento culturale è guardare la Prova del Cuoco (lo guardavo anch'io, beninteso, ma per me era uno svuotacervello, un divertimento non certo di alto livello intellettuale). Di solito costoro sono sposate a uomini del loro stesso livello (che magari fanno anche i bancari o professionisti, non crediamo che l'ignoranza sia appannaggio solo dei poveri - io non sono certo ricca).
Se davvero più di mezza Italia non legge, immagino che questo genere di persone rientri nella categoria di quelli che leggono solo l'elenco telefonico. Saranno anche di quelli che votano a destra, guardano la TV generalista e altre nefandezze del genere? Spero non tutto insieme, perché è troppa atrocità per essere verosimile. Comunque, questo è il sostrato su cui dovrebbe attecchire una rivoluzione culturale basata sulle pari opportunità, sull'elogio della qualità del lavoro e della flessibilità, sulla valorizzazione della donna come soggetto e non oggetto.
Io, purtroppo, temo che non sia possibile cambiare la mentalità di un Paese simile solo con le iniziative culturali, solo parlandone tra di noi su Internet. Forse nemmeno parlandone con le istituzioni, se le istituzioni non muovono un capello.
Per dare una svolta a un Paese come il nostro, ci vogliono iniziative forti dal punto di vista istituzionale. Ci vorrebbe una legge sulla paternità obbligatoria, sull'esempio di altri Paesi, dove la madre non viene lasciata sola per tutto il giorno dal padre che lavora, ma viene affiancata per il primo periodo del puerperio (e al primo che mi dice che non ha senso chiedo: vi pare che il congedo matrimoniale abbia più senso? Hai la facoltà di restare a casa 15 giorni non per un'esigenza reale della tua famiglia, ma per andare in viaggio di nozze). Basterebbe in realtà che il governo costringesse tutte le associazioni di categoria a recepire integralmente in testo unico sulla maternità del 2001, per esempio.
Perché siamo a questo livello: mentre una élite, di cui faccio parte, parla di parità e di non sacrificare né carriera né famiglia, mio marito ha un contratto che non prevede il congedo parentale al 30% e sarà già una grande innovazione che dall'anno prossimo si prevedano ben 10 giorni fruibili in questo senso. Saremmo così tranquilli se la stessa cosa succedesse con il diritto di assentarsi per malattia? Non credo proprio. E questo ci dà il polso della situazione che dobbiamo cambiare.

lunedì 14 dicembre 2009

Pedagogia di famiglia

Leggendo i blog e i libri dedicati alla pedagogia, spesso trovo idee intelligenti e interessanti riguardo piccole cose che aiutano a impostare un certo tipo di rapporto con i bambini.
Per esempio, mi piace molto l'idea di chiedere e dire che cosa ci è piaciuto di più nella giornata. Forse mi piace di più se applicato alla coppia che ai bambini: ci costringe a pensare a qualcosa di bello a positivo.
Oppure, mi piace il rito che io ed Amelia abbiamo costruito per questo Natale, questa specie di calendario dell'avvento fatto di storie.
Oppure ancora, mi piacerebbe inaugurare l'anno nuovo con un calendario da disegnare (magari non mentre è appeso al muro, ché abbiamo appena imbiancato). Siccome ho la manualità e la pigrizia di un bradipo morto, pensavo di stampare la griglia su un foglio A3, anziché mettermi a tirare io le righe.
Mi rendo conto, però, che spesso queste iniziative "sistematiche" vengono da me, e non da Luca. Luca è capace di cogliere l'occasione di una certa giornata o di una certa attività per far vedere ai bambini cose belle e interessanti, ma non ha la costanza di prefissarsi un'attività "fissa" e rispettarla. Oppure, se se la prefissa, non ha l'elasticità di lasciar perdere se proprio non è il caso e quindi ci resta male.
Quindi Luca non capisce perché a me piaccia creare queste abitudini, e non mi supporta. Del tipo: non è che, se io mi dimentico del momento della cosa più bella del giorno o della storia, lui cerca di ricordarmelo. Per la storia non ci sono più di tanti problemi: me la ricorda Amelia, perché le piace molto.
Ma tutto il resto spesso resta lì in sospeso perché io sola non ho la forza e il tempo di spingere perché i bambini almeno ne capiscano il meccanismo (e possano volerlo trasformare in abitudine, com'è successo per le storie di Natale).
Più in generale, Luca vive a testa bassa, lottando contro il tempo per fare cose (non per averle, attenzione) e senza chiedermi mai niente di "non operativo". Spesso ho l'impressione, con tutti i miei difetti e la mia pigrizia, di essere io il pilastro affettivo della famiglia. Lui è quello operativo, e funziona molto bene. Ma sono io quella (probabilmente rompicoglioni per una certa visione) che fa domande, si preoccupa che lui stia bene, si angustia perché lui non sembra manifestare abbastanza affetto ai bambini (soprattutto quando erano piccoli e poco interattivi).
Se fosse per lui, andremmo avanti come treni, senza sollevare la testa, senza farci domande su aspetti "non pratici" delle nostre vite. È un'immagine che, nei momenti di umore più cupo, mi porta a figurarmi certe scene di famiglie al collasso, dove tutti i componenti mangiano alla stessa tavola ma sono estranei.
O forse no, forse Luca è così perché sa che già ci sono io a riflettere, a buttare lì idee, a curare l'aspetto meno materiale delle nostre vite. Forse è un gioco delle parti, che però a volte mi pesa. A volte vorrei fare cambio, dirgli: OK, vado io al sindacato per gli assegni familiari o dall'elettrauto per la Palio, ma tu occupati di quello che c'è da fare perché la tua famiglia sia felice.
E la beffa è anche che, quando si deve occupare dei bambini, lo fa meglio di me: inventa giochi divertenti, è bravo nelle attività artistiche, suona diversi strumenti, sta più volentieri di me all'aperto. Se minimamente gli interessasse inserire il suo rapporto con i figli in un progetto più organico, lo potrebbe fare meglio di me. E forse è anche meglio così, perché io rappresento l'organizzazione e lui la spontaneità.

sabato 12 dicembre 2009

Leggerezza

Nei giorni scorsi ho pensato che avrei potuto parlare di tante cose: del freddo che stringe il cuore a sentire i fatti di Pistoia, della lettera di Celli a suo figlio, del fatto che adesso sembra che tutti gli uomini desiderino i trans (non ci credo, altrimenti ci saremmo già estinti da un pezzo). Ma me ne mancava la voglia. In questi giorni, è come se tutto mi scivolasse addosso. Istinto di sopravvivenza? Indifferenza? Egoismo? Non lo so.
So che sto passando dei bei giorni con la mia famiglia, che la serie di Viola sta prendendo forma definitiva (anche se so benissimo che, prima, bisognerà realizzare la storia del G8), che ho sentito diverse mie amiche e ci siamo viste e/o accordate per vederci a breve. E non mi interessa di molto altro, a parte cercare di risolvere il fastidioso problema di marcature che le mie gatte continuano a trascinarsi da quando abbiamo cambiato cucina.
Nel senso: ho seguito, per esempio, la vicenda di Pistoia, mi sono arrabbiata e sono stata (molto) turbata dalla descrizione del video famoso che molti invece si sono visti propinare a tradimento dal TG della sera (benedetta la nuova cucina, in cui non si può guardare la TV mentre si è a tavola). Ma non mi sembra di avere nulla da aggiungere, se non quello che ho scritto nei commenti di chi ne è stato forse più colpito di me, al punto di scrivere un post in merito.
E poi, Celli: ma come si fa a scandalizzarsi? Qui in Italia, e lo dico da un punto di vista interno all'università, facciamo fatica a finanziare ricerche utili, mentre negli USA studiano i motivi per cui, se aspetti un autobus per mezz'ora, poi ne passano 5 tutti insieme: è ovvio che un bravo laureato, seppur figlio di un potente, avrà ogni interesse ad andare in un luogo dove viene pagato e valorizzato di più. Io conosco personalmente un medico che è figlio di un primario del S. Matteo di Pavia, ma vive negli Stati Uniti perché lì sono più all'avanguardia, soprattutto nella ricerca: infatti può permettersi di non esercitare come medico e vivere solo di ricerca, cosa impensabile in Italia.
Insomma, non mi sembra che valga la pena di spenderci più parole di quelle che ho appena scritto.
Invece mi sembra che valga moltissimo la pena, in questo periodo, di investire nella mia intimità e nel mio piacere personale. Che non significa: adesso mi chiudo in una stanza e faccio tutto quello che mi pare, fregandomene degli altri.
Significa che in questi giorni, sì, siamo andati all'Artigiano in Fiera a fare shopping e ci siamo trattati fin troppo bene, ma alla fine, a guardar bene, gli acquisti sono stati ben equilibrati tra tutti i membri della famiglia. Ho passato il ponte dell'Immacolata a casa con la mia famiglia, divertendomi a fare biscotti e a guardare Ettore innamorato dei palloncini. Ieri ho girato come una pazza per tutta Pavia alla ricerca (vana, purtroppo) dell'ultima uscita di Greystom e dei libri di Irene Bettini, su segnalazione di una strega. Mercoledì mi sono dedicata a un po' di shopping con mia mamma, cosa che non mi capitava da un secolo, e le ho anche parlato finalmente del progetto di Viola. Domani, se nessuno si ammala all'ultimo, vado a un brunch jazz con una mia amica e famiglia, e poi al Trottoir a festeggiare Diabolik, su segnalazione del mio maestro di sceneggiatura.
E ora mi aspetta una settimana che, per carità, prevede una visita dal dentista (devo rifare un'otturazione) e un giro dall'allergologo, ma anche una recita di Amelia (e pazienza se io mi divertirò meno che dal dentista, l'importante è che lei si diverta), un giro a Genova e un pranzo con i miei cognati. Oltre allo scandaloso fatto che, da venerdì prossimo fino all'Epifania, sarò a casa (e non) con i miei bambini e la mia famiglia.
Non vedo l'ora che venga Natale per vedere la faccia che faranno davanti ai loro regali, non vedo l'ora di partire per la settimana che ci siamo regalati a Levanto. Spero che nessun virus bastardo si intrometta a guastare la festa, perché dovremmo aver già dato nelle settimane scorse (la settimana prima del ponte mi hanno chiamata dall'asilo ben 2 volte perché Amelia stava male, per cause diverse, e la settimana prima ancora è stata all'insegna della suina) e perché spero che il mare ci rinforzi un po'.
Sono questi i soli argomenti a cui sono sensibile, e mi dispiace che il resto del mondo abbia ben altri problemi. Ma lasciatemi nel mio nido caldo e felice ancora per un po', ne ho tanto bisogno.

lunedì 7 dicembre 2009

Core de mamma

Di solito si dice "core de mamma" per indicare la classica figura angelicata della mamma che perdona tutto, pronta a farti un piatto di pasta anche se torni senza avvisare all'una di notte, quella che si sveglia alle 5 del mattino di domenica per farti i tortelli di lepre affumicata che ti piacciono tanto.
Ora, io credo fermamente che questo tipo di madre sia o un parto mitologico della nostra cultura o un soggetto patologico che dovrebbe stare nei testi di psichiatria.
Perché io, di madri così, non ne ho mai incontrate. Ho incontrato donne eccezionali, le cui gesta come madri io non eguaglierei neanche in 1000 vite, ma nessuna con questo proverbiale cuore di burro. Perché? Perché il lavoro di madre è un continuo indurimento del cuore. Essere madre è come portare il cilicio: nei primi tempi sanguini, ma poi ti viene una pelle che neanche un elefante.
E questo, sgombriamo il campo da equivoci, avviene sia che tu sia una madre tradizionale sia che tu segua l'Attachment Parenting: i motivi di indurimento saranno differenti, ma ci sono in entrambi i casi.
Appena il tuo primo figlio nasce, comincia tra te e lui una battaglia (spesso inconscia) per la sopravvivenza di entrambi: lui chiede sempre di più, tu hai le tue esigenze. Il suo pianto ti è insopportabile, anche se sai che si tratta di niente di grave. Se decidi di evitare il più possibile che pianga, ti ritrovi a inventare accrocchi assurdi per andare in bagno, farti una doccia, cucinare. Se invece decidi di fregartene perché nessuno è mai morto piangendo perché la mamma andava in bagno, devi sopportare il suono del pianto, che non a caso è uno dei suoni a cui siamo più reattivi. In entrambi i casi, ti indurisci, impari sempre di più a sopportare.
Andando avanti, devi porre dei paletti e delle regole: non esiste nessuna "buona" famiglia senza regole, non fosse altro che per la salute dei bambini e la tranquillità degli adulti. La regola può essere che non si gioca con la candeggina oppure che si va a dormire alle otto di sera oppure ancora che si mette a posto quando si finisce di giocare.
Che i figli contestino piangendo o che cerchino di arruffianarsi la mamma con la dolcezza o la simpatia, rimanere fermi nel proprio proposito educativo è difficilissimo. Ci sono momenti in cui ci si scardina la mandibola pur di non scoppiare a ridere davanti a certe facce. E ci sono (tanti) momenti in cui non si avrebbe voglia di impuntarsi o arrabbiarsi, sarebbe molto più comodo lasciar perdere e far finta di niente.
Non oso immaginare, poi, quando arriva l'adolescenza: tu per certi versi saresti disposta a capire, perché ricordi com'era per te, ma devi sostenere il ruolo del genitore. Non sono assolutamente per il genitore autoritario: io e mia mamma spesso eravamo complici, quasi amiche, ma lei comunque manteneva una posizione di genitore e io quella di figlia.
Capisco, a questo punto, perché le nonne poi si abbandonano a ogni genere di nefandezza nel viziare i nipoti: si sono trattenute tutta la vita e adesso vengono completamente esonerate da qualsiasi compito educativo. Che sollievo!
Forse sarebbe più corretto dire: core de nonna. Quella sì che può permettersi il cuore di burro.

venerdì 4 dicembre 2009

Samarcanda

Da qualche giorno, nonostante la mia voce somigli più a quella di una cornacchia che a quella di un uccello canterino, Ettore, per addormentarsi, mi chiede di cantargli "la canzone del cavallo". Il che significa Samarcanda di Vecchioni.
Docile, la canto e la ricanto finché lui non si addormenta. Del resto, spesso Amelia si è già addormentata ascoltando per la seconda/terza volta la storia del giorno.
Non mi dispiace (almeno: finché non mi viene la tosse) perché, anche se Ettore è troppo piccolo per capire, mi sembra che possa assorbire il significato e l'insegnamento della storia, che mi piace molto.
Per chi non l'avesse mai sentita: la storia racconta di un soldato che sta festeggiando la fine della guerra. Tra la folla, vede la Morte e crede che lo stia guardando con malignità. Salta sul cavallo più veloce del re e corre come un pazzo per 2 giorni e 2 notti, cercando di allontanarsi il più possibile. Arriva a Samarcanda (che all'epoca era come dire "in capo al mondo") e trova la Morte che lo aspetta sulla porta della città. La Morte gli rivela di averlo guardato non con malignità ma con stupore, perché sapeva di doverlo incontrare 3 giorni dopo a Samarcanda e si chiedeva come ciò sarebbe stato possibile.
La storia ha tante morali, che mi piacciono tutte: insegna a non fermarsi alle apparenze, a non prendere una decisione in preda al panico, a non scappare perché non serve, a non aver paura dell'inevitabile...
Quello che vorrei che mio figlio interiorizzasse è l'incitamento al coraggio. A non fuggire davanti a ciò di cui abbiamo paura, perché spesso non si fa che peggiorare la situazione. Se il soldato, invece di fuggire, avesse affrontato la Morte la prima volta in cui l'ha vista, lei gli avrebbe detto che lo aspettava tra 3 giorni, e lui avrebbe magari passato quei 3 giorni cercando di fare qualcosa di bello e che lo rendesse felice, invece di spaccarsi il sedere su un cavallo al galoppo forzato.
Se avessi un minimo di abilità manuale, penso che farei come all'asilo di Amelia: sceglierei questa storia come filo conduttore del "nostro" anno (a proposito, ve l'avevo detto che quest'anno c'è Dumbo?) e ci ricamerei sopra ballandola, disegnandola, facendone marionette e magari anche un libro come quelli di Claudia.
Se mai avessi delle qualità artistiche, ripeterei questa esperienza con altre storie che non sono più "classiche" (perché Disney non ne ha ricavato dei film): "Pierino e il lupo", "Il lago dei cigni", "L'Uccel Belverde", eccetera.
Ma c'è anche un'altra favola che mi piace tantissimo e che è poco conosciuta in Italia: l'ha scritta Karel Capek, uno scrittore ceco (l'inventore della parola "robot"), e si può trovare in edizione economica Feltrinelli, insieme alle altre. Capek, che non a caso è uno degli autori preferiti di Stefan, mescola nelle sue favole elementi del folklore (l'omino delle acque, che compare anche in Dampyr ma con ben altre connotazioni) con elementi di sua fantasia (gli omini delle poste). Nella storia degli omini delle poste, racconta che questi omini (folletti, spiritelli, qualcosa del genere) giocano a carte con le lettere, e il valore della singola lettera viene dato da quanto è stata scritta con calore e affetto. Un giorno, ne trovano una di valore altissimo, ma con un destinatario molto vago: una lettera quasi impossibile da consegnare. Se ne angustiano e con l'aiuto di un postino cercano di consegnarla ugualmente, riuscendoci.
Forse, quando entrambi i bambini saranno più grandi, riusciremo ugualmente a realizzare questo progetto, perché saranno loro a disegnare e io dovrò solo fornire i supporti.
Per ora, cantiamocela e balliamocela, perché in queste sere, in cui il freddo vero è finalmente arrivato, c'è bisogno di un po' di calore.

mercoledì 2 dicembre 2009

Il patto

Anche grazie al convegno sullo storytelling a cui sono stata a ottobre e alle riflessioni che ne sono scaturite su The Talking Village, mi sono fermata a pensare non tanto all'atto consapevole di narrare, quanto alla narrazione inconsapevole. La narrazione spontanea di tutti i giorni, quella che non riconosciamo come tale: quando raccontiamo perché non siamo passati dall'Esselunga ma dal Despar, quando spieghiamo come facciamo la torta di mele, quando facciamo esempi per rafforzare la nostra argomentazione.
Alcune teorie sostengono che tutto ciò che noi interiorizziamo viene recepito attraverso la narrazione: codici di comportamento, nozioni, persino ragionamenti. Il bambino, per comprendere il mondo, se lo deve "ri-raccontare" nella propria testa, per scomporne la complessità in "storie" alla sua portata.
Anche il blog è una narrazione. A volte, quando è in forma di diario, è più scoperta. Altre volte (penso ai foodblog) usa elementi apparentemente sterili per formare una narrazione di sé o del proprio mondo, della propria passione.
Questo blog è una narrazione basata in parte su momenti pienamente narrativi in parte su riflessioni (che però spesso si rifanno a esempi di vita vissuta o di vita ipotetica, quindi si ricade spesso nella narrazione).
Come tutte le opere di narrativa, questo blog ha un tono (decisamente prosaico, inteso come l'opposto di "eroico") e uno scopo narrativo. In un'opera tradizionale, lo scopo narrativo si identifica comunemente con l'instillare una morale edificante (vedi la fiaba di Cappuccetto Rosso, in tutte le salse, ma anche i Promessi Spori) . Ma lo scopo narrativo, nella letteratura di genere "classica", può essere anche soltanto l'intrattenimento del lettore, che si rivolge ai vari generi sapendo già cosa l'aspetta: chi vuole sognare l'amore sceglie il rosa, chi vuole adrenalina sceglie l'azione. Difficilmente comprerò Julia aspettandomi le stesse emozioni (intese come tipo di emozioni, non come quantità) di Dampyr o Dago.
Credo che anche un post possa, magari con difficoltà in alcuni casi, inserirsi in un genere. Solo che i generi non sono gli stessi della letteratura: credo che siano dati principalmente dal tipo di emozione che suscitano.
Per esempio, se voglio sentirmi coccolata, se voglio rifarmi gli occhi con foto bellissime di una vita felice, andrò a leggere La casa nella prateria. Se ho voglia di parlare un po' di tutto, ma soprattutto di lavoro, in tono leggero e mai cupo, leggerò Veremamme. Se voglio un'analisi lucida e razionale, informazioni precise e ben ragionate, andrò da momatwork.
Sul mio blog "storico", Ilmignolocolprof, si va per farsi due risate e ultimamente per trovare magari anche qualche ricetta (mica è un caso se negli ultimi 6 mesi il mio peso è diventato un segreto di Stato). E su questo, che cosa si viene a cercare? Io ho sempre sperato che questo blog somigliasse a una cucina (non a un salotto: troppo figo) in cui ci si trova intorno al tavolo con una tazza di tè in mano e si discute, magari anche animatamente ma con la certezza di come minimo stimarsi a vicenda.
Il patto di complicità con i miei lettori non è basato sulla provocazione o sulla razionalità, non ci si prende sul serio a tutti i costi ma non si svacca neanche come nell'altro mio blog. Vi racconto fatti della mia vita come spunti di riflessione, non come episodi buffi da cui ricavare una battuta. Vi rendo partecipi delle mie seghe mentali, insomma. Purché voi le prendiate per quello che sono: mie seghe mentali, miei pensieri personali e solo in parte condivisibili, che non vogliono essere né proclami né insegnamenti, se non per me stessa.
Nello stabilire un patto di complicità, è implicita la sospensione del giudizio. Non inteso come "non potete commentare", ma inteso come la disponibilità a credere a priori che ciò che dico è vero. Nelle opere narrative classiche, la sospensione del giudizio e dell'incredulità varia da genere a genere ed è strettamente connessa al concetto di verosimile. Un autore fa cattivo uso del patto di complicità quando crea un mondo narrativo incoerente, le cui regole il lettore non riesce ad accettare come verosimili. In un blog, che cosa significa? Penso che, anche in questo caso, vari molto da blog a blog e dal grado di coinvolgimento della vita personale del blogger. Forse, in un blog, la sospensione del giudizio permette al lettore di non dubitare della veridicità delle affermazioni dell'autore, a meno che questi non si dipinga in una luce talmente perfetta da far sorgere dei dubbi. Il solito discorso della verosimiglianza.
Recentemente, sul blog non-serio, sono stata accusata di "ipocrisia e simulazione", evidentemente perché la persona che ha commentato trova che i fatti che racconto siano eccessivamente inverosimili. Posso capirla, perché nel mio caso spesso la realtà supera la fantasia (tipo: voi avreste mai scritto un racconto su una donna che fa sterilizzare due sole gatte nella sua vita, a distanza di 10 anni l'una dall'altra, e scopre entrambe le volte che entrambe erano già state sterilizzate e poi abbandonate? Quando mia madre me l'ha raccontato, inizialmente ho pensato a uno scherzo). Per assurdo, raccontando la mia vera vita, rischio di apparire inverosimile. Ed è per questo che non giudico (quasi) mai quei blog che paiono di persone perfette che sembrano avere tempo per tutto: devo cercare sempre di distinguere la narrazione dalla realtà.
In questo blog, il patto di complicità mi sembra più facile da mantenere: evito di raccontarvi gli episodi più eccessivi, mi mantengo su un tono medio. Ma ricordatevi sempre che io sono anche quell'altra, quella che pulisce l'ennesimo topo smembrato, si fa una risata con quello stordito di suo marito e poi si mette a discettare di schemi narrativi e verosimiglianza.

martedì 1 dicembre 2009

Cortesie per gli ospiti

Credevo che non fosse necessario, eppure contro gli stupidi anche gli dei lottano invano. Io non sono una divinità, quindi immaginatevi la fatica che faccio.
Speravo che non fosse necessario specificare le regole di comportamento di questo blog, dato che dovrebbero essere quelle che ciascuno dovrebbe rispettare nella vita di tutti i giorni. È vero anche che in un blog si può commentare mettendo solo il proprio nome, magari neanche quello, e il fatto di non doverci mettere la faccia rende audaci molti vigliacchi. A questo punto, mi vien da pensare di essere solo fortunata ad aver trovato commentatori maleducati solo nell'ultimo periodo.
Signori, le regole della casa sono queste:
- questo blog è casa mia, il luogo in cui esprimo le mie opinioni o racconto i fatti miei. Ora, se incontraste per la strada una persona che esprime educatamente la propria opinione riguardo un fatto, non l'aggredireste dando dei giudizi sterili e definitivi su ciò che dice. Quindi, se volete dissentire (e siete invitati a farlo), fatelo costruttivamente.
- questo blog ospita anche persone che sanno conversare civilmente e le cui parole mi interessanto enormemente, sia che esprimano un'opinione sia che raccontino una loro esperienza. Vi chiedo di trattare con rispetto gli altri commentatori e di non innescare polemiche inutili. La discussione, anche accesa, va benissimo. Purché gli argomenti siano costruttivi e non semplici insulti reciproci.
- questo blog parla di persone che fanno parte della mia vita e che mi sono molto care. Queste persone spesso non leggono il blog, o perché non possono farlo (vedi i miei figli) o perché, pur conoscendone l'esistenza, non passano di qui per scelta (vedi i miei genitori). Vi chiedo di portare rispetto anche a loro, soprattutto quando io stessa sono arrabbiata con loro o li critico. Voi conoscete solo la mia campana, e magari suonata in un momento in cui non posso essere obiettiva.
Chiunque trasgredisca queste regole, poco o tanto non importa, non si lamenti se il suo commento verrà cancellato: questo è l'unico strumento che ho per difendermi dai maleducati, e d'ora in poi intendo usarlo.
Ho aperto questa casa al pubblico per poter godere della vostra compagnia, e non per passare il tempo a difendermi dai troll. Non godo né delle polemiche né del tiro al bersaglio. Godo di una conversazione intelligente e civile, i cui termini sono quelli sopra esposti.
Se non accettate queste regole, accomodatevi in casa d'altri: qui di certo non sarete bene accolti.

domenica 29 novembre 2009

Fuori dal mondo

Quando dico dove vivo, la maggior parte delle persone fa la faccia entusiasta e mi dice che è una meraviglia, chissà che bello stare così a contatto con la natura, eccetera. Sinceramente il 50% delle volte ho l'impressione che sia una reazione automatica di facciata, di quelle che ti vengono spontanee quando il tuo interlocutore ti rivela di aver fatto una scelta che tu non faresti mai e che disapprovi anche un po'. Da che cosa lo capisco? Dal fatto che, quando rispondo "Beh, insomma, non è proprio la scelta che avrei fatto io...", le loro facce si distendono, come a dire: ah no, beh, allora parlo con una persona normale.
Immagino che Claudia de La casa nella prateria viva un po' la mia stessa situazione, ma all'estremo. Infatti, per una persona che scrive un post apprezzando il suo stile di vita, ce n'è sempre una che commenta (in modo peraltro non molto gradevole: ma le vostre mamme non vi hanno insegnato l'educazione?) che Claudia sbaglia, ah quei poveri bambini fuori dal mondo, ah i genitori che vogliono fare gli alternativi, ah questa mania della campagna, ah vedrai quando cresceranno.
Per carità, sotto un certo aspetto, queste sono le stesse obiezioni che faccio a me stessa e a mio marito quando penso al posto in cui vivo (e metteteci anche che la mia casa è infestata di insetti nocivi d'estate e di nebbia d'inverno): la scomodità di dover usare sempre la macchina, i figli che non saranno indipendenti fino alla patente, la lontananza delle scuole, eccetera. Vi dico la verità: se decidessi di lasciare il lavoro e dedicarmi all'homeschooling dei figli, risparmierei non solo di 700 euro di nido+mensa di entrambi, ma anche un buon 200 euro di trasporti e pasti miei. Oltre al fatto che potrei permettermi di avere una sola auto, con tutto il risparmio che ciò comporta.
Da un punto di vista strettamente economico (sia nelle finanze sia nelle forze sia nel tempo), per me rimanere a casa potrebbe essere davvero una soluzione praticabile, e questo mi verrebbe permesso proprio dal fatto di vivere in campagna.
Quindi posso benissimo mettermi nei panni di Claudia, tanto più che non avrò la sua manualità ma ho una buona cultura di base, una passione per la danza, la musica e la narrazione, tutte cose che mi possono aiutare ad educare i miei figli almeno fino all'inizio delle elementari.
Perché non lo faccio, dal momento che fino a un mese fa avevo un lavoro che non amavo e stimo poco le educatrici che si occupano dei miei figli? Perché ho sempre messo al primo posto la socialità dei miei bambini e, nel posto dove vivo, degli homeschooler non avrebbero la possibilità di svilupparla. So che questa è la prima critica da cui gli homeschooler si devono difendere, e so anche che lo fanno dicendo che loro non si chiudono in casa, ma portano i loro bambini in giro con loro. A questo io ribatto dicendo che:
1 - se decidessi di restare a casa, non avrei i soldi per andare a destra e a manca tutti i giorni, cascina a parte. Per carità, i vitelli, superata la paura iniziale, sono socievoli anche se non molto profumati.
2 - se anche li portassi in giro, non troverei altri bambini della loro età, perché sarebbero a scuola. Non parliamo poi del periodo invernale, in cui di sicuro, anche quando il tempo lo permette, i parchi sono deserti.
Quindi, mi si potrebbe dire, porto i miei bambini a scuola proprio perché non vivano fuori dal mondo. E incontrerò sempre più stanchezza e difficoltà nell'esaudire questo loro legittimo desiderio: se vivessi in città, soprattutto in una città a misura d'uomo come Pavia, farei molta meno fatica.
Ecco, di fatica del genitore stiamo parlando, non tanto di quella dei figli. Perché penso che, fino ad una certa età, i figli non avvertano la differenza tra vivere vicino o lontano alla scuola o al corso di danza: devono sempre essere accompagnati dai genitori o dai loro surrogati, e questo quindi rende le distanze abbastanza indifferenti.
Certo, mi si dirà, da una certa età in poi le cose cambiano. Beh, che dirvi? Ne sono pienamente consapevole, ho vissuto in un paese per 25 anni. Il mio paese era abbastanza ben collegato, ma comunque la corriera passava una volta all'ora, non ogni 10 minuti come l'autobus. E poi dovevo fare un bel pezzettino a piedi per arrivare a casa (parliamo di circa un km dalla fermata).
Io avevo la fortuna che i miei genitori andavano a lavorare in città, quindi mi hanno sempre portata a scuola loro. Ma, quando uscivamo con le amiche, il problema del trasporto era sempre presente. Ci attaccavamo ai fratelli e amici più grandi, ai mezzi pubblici, a volte riuscivamo a chiedere ai nostri genitori. Se fossimo state in città, le cose sarebbero state molto più semplici e meno faticose.
In quella prospettiva, mi sono posta due alternative: o andare a vivere in città da una certa età dei figli in poi (perdendo una casa bella e grande, di cui non paghiamo affitto) o mettermi nell'ottica di facilitare il più possibile i loro spostamenti facendo loro da taxi fino all'età della patente (il motorino, ammesso che ce lo possiamo permettere, non può essere un mezzo di trasporto abituale per fare i 20 km che ci separano da Pavia, magari di notte).
Mi sembra che anche Claudia sia attenta alle esigenze di socializzazione dei propri figli (infatti ha rispettato la loro scelta di andare a scuola anziché tenerli a casa come sarebbe stata sua intenzione). Probabilmente, quando i suoi figli cresceranno, Claudia si porrà gli stessi problemi che mi pongo io, e deciderà come risolverli, trovando un compromesso accettabile per tutti.
Non siamo tutti obbligati a vivere in città, o ad avere la TV (io ce l'ho ma ormai non la guardo più, la uso per i DVD), o a comprare ai propri figli la Playstation.
Io vivo in culo ai cani, ma sono sempre pronta a calare su Milano, Torino e Genova in occasione di eventi interessanti, a cui spesso partecipano anche i miei figli. Ascolto più volentieri la radio della TV, e quello che mi sembra interessante lo trovo su YouTube, che guardo anche con i bambini (ieri io e Amelia ci siamo guardate tutto Spirit). Preferisco ballare o fare un giro in cascina o cucinare o giocare con le bambole o disegnare o leggere un libro piuttosto che vedere i miei figli rincoglioniti da un gioco virtuale, anche se temo che tra qualche anno questa mia idiosincrasia mi causerà diversi scontri. E no, non mi sento e non sono alternativa: credo fermamente nella scienza e nella medicina "convenzionali" (del resto mio marito è biologo, anche se lavora in un'esoterica azienda biodinamica), sono atea e materialista, credo che il buonsenso sia un ottimo sostituto per qualsiasi teoria astratta.
I miei figli cresceranno fuori dal mondo, per il solo fatto di vivere in campagna e di potersi permettere qualche corsa nei prati? Non credo proprio. Del resto, già mio marito è cresciuto fuori dal mondo: non sa chi sia Lois Lane (non gliel'ho ancora detto), non riconosce la maggior parte dei personaggi pubblici degli ultimi 30 anni, ma sa dirti la specie di una qualsiasi pianta alla prima occhiata. Ed è cresciuto nel bel mezzo di Torino, a un passo da piazza Rivoli.

sabato 28 novembre 2009

Dediche e ringraziamenti

L'altro ieri, in America, era il Giorno del Ringraziamento. Me l'ha ricordato Claudia de La casa nella prateria, che lo festeggia da buona godereccia.
Per me il Ringraziamento è sempre stata un'usanza straniera che si vede nei telefilm, non mi sono mai soffermata a pensare che poteva avere una validità anche per noi. Invece è bello e giusto ringraziare per ciò che si ha, soprattutto se, come noi, si ha tanto.
Non importa neanche chi si ringrazia: ci sarà chi ringrazia Dio, chi la buona sorte, chi osa persino ringraziare se stesso perché crede/sa che ciò che ha sia frutto del proprio lavoro.
Io ringrazio la buona sorte, la Fortuna che, come dice Machiavelli, necessariamente contribuisce per almeno il 50% alle nostre imprese. Non la immagino come una forza a sé stante, come una divinità, ma più come un concetto astratto a cui noi attribuiamo significati negativi o positivi a seconda della nostra percezione.
Per esempio, farsi male a un ginocchio può essere considerata sfortuna. Ma quando, grazie a quella distorsione, ti ritrovi ad approfondire la conoscenza con un certo percussionista che poi diventerà il padre dei tuoi figli, non c'è che da ringraziare quella buca che non hai visto e quegli stivali col tacco alto.
Ma mi limiterò a quest'anno.
Ringrazio di essermi potuta godere i miei bambini e la mia famiglia, anche se purtroppo questo è potuto avvenire grazie al fatto che i bambini si sono ammalati spesso.
Ringrazio di aver riscoperto la mia vocazione per la scrittura, in un nuovo mezzo, e di aver potuto frequentare un corso di sceneggiatura per fumetto tenuto da un bravissimo maestro, Diego Cajelli.
Ringrazio che Viola abbia potuto prendere vita, e che sia piaciuta a tanti di voi, seppure in una forma ancora incompleta. Ringrazio anche di aver forse trovato il disegnatore di Viola, e spero presto di potervi dare la notizia definitiva.
Ringrazio di aver conosciuto di persona tante, tante, tante persone meravigliose, soprattutto grazie alla Rete. L'elenco non esaustivo comprende Flavia, Giuliana (che già leggevo ma non avevo mai incontrato, soprattutto con famiglia), M di MS, Lorenza, la Wanduzza, BStevens, the ITmom, Jolanda, Maddalena e stupenda famiglia, Piattini, Marilde. Ho dimenticato qualcuno? Sicuramente. Per esempio, Silvia, Wonderland, Emily, chissà quante altre... Mi sa che devo aggiornare la spalla dei link!
Anche se solo virtualmente, ringrazio di aver conosciuto anche altre persone come Mammamsterdam, Claudia e PianoB. Ma non posso citarle tutte, altrimenti lì davvero facciamo notte.
Ringrazio per essere riuscita a vedere la Bionda, che mi è venuta a trovare a fine giugno e mi ha fatto un gran piacere.
Ringrazio di aver conosciuto Emma e Marcello dell'Agriturismo San Martino e di aver ritrovato Grazia e Claudio dell'Erba Persa: parrà una cosa frivola, ma non c'è nulla di più bello che concedersi una vacanza in un posto bellissimo, circondati da persone che lo rendono ancora più bello.
Ringrazio la mia maestra, Francesca, per essere tornata a vivere la danza nel modo in cui la rende felice e per aver avuto la bontà di lasciarmi andare quando ne ho sentito il bisogno.
Ringrazio poi immensamente la persona addetta alla gestione carriere, che, prima di andare in pensione, mi ha fatto il grande regalo di indirizzarmi verso la Presidenza di Medicina, salvandomi da un ambiente e da un lavoro che erano un peso enorme sul mio cuore.
Ringrazio il mio preside e le mie nuove colleghe, che mi rendono leggero e piacevole anche il compito più noioso.
Ringrazio infine la mia famiglia. Per il solo fatto di esserci, mi rendono felice.

venerdì 27 novembre 2009

Cappuccetto Rosso, oggi come oggi

C'era una volta una bambina molto carina che veniva chiamata Cappuccetto Rosso per ovvi motivi. Un giorno, proprio il giorno della visita della zia Filiberta, la nonna di Cappuccetto Rosso chiamò per dire che non si sentiva bene e che preferiva rimanere a casa.
Allora la mamma di Cappuccetto Rosso preparò alla nonna un cestino di focacce al formaggio e lo diede alla bambina, perché lo portasse alla nonna passando attraverso il bosco.
"Però, disse, mi raccomando, non fermarti a parlare con gli sconosciuti, e nemmeno col il lupo, ché se no quello assaggia le focacce e ce lo troviamo sotto casa tutti i giorni."
Cammina cammina, Cappuccetto Rosso incontra proprio il lupo.
"Ciao, dove vai, bella bambina con un cestino così profumato?"
"Ciao, lupo, vado dalla nonna, che è malata. Le porto queste focacce, ma tu non devi neanche assaggiarle."
"Io? Ma io non mangio le focacce! Io mangio le bambine! Puoi stare ben contenta che oggi ne ho mangiate già due e ho la pancia piena, altrimenti mangerei anche te. E da che parte vai?"
"Di là."
"Ma di là ci si mette una vita! Passa di qui, ché fai più in fretta."
Mentre Cappuccetto Rosso si avviava per la strada più lunga, il lupo corse a casa della nonna e la trovò vuota. Vide un vicino che usciva di casa e gli chiese della nonna.
"Mah, l'ho vista che usciva una mezz'oretta fa. Era truccata e ben vestita, sicuro che andava alla balera e ci resterà tutto il pomeriggio."
Il lupo lasciò che il vicino si allontanasse, poi entrò a casa della nonna, si infilò nel letto tutto imbacuccato e aspettò Cappuccetto Rosso. Quando la bambina bussò, il lupo le disse:
"Tira il chiavistello e la porta si aprirà."
Cappuccetto Rosso entrò nella casa buia e intravide una figura nel letto. Credendo che fosse la nonna, disse:
"Ma nonna, perché è così buio?"
"Mi dà fastidio la luce, è questa influenza."
"Ma nonna, l'influenza deve averti fatto proprio male. Che occhi grandi che hai!"
"Per vederti meglio, nipotina mia."
"E che orecchie grandi che hai!"
"Per sentirti meglio. È un nuovo modello di auricolare."
"E che bocca grande che hai!"
"Per mangiare meglio le tue focacce!"
E il lupo si avventò sul cestino di Cappuccetto Rosso e lo divorò intero. Poi però cominciò ad avere un gran mal di pancia e a lamentarsi.
In quel mentre tornò la nonna, vide il lupo che i lamentava e lo caricò in macchina, per portarlo dal veterinario. Il veterinario gli aprì la pancia, ne estrasse il cestino e, già che era sotto anestesia, gli fece anche il tartaro ai denti e lo sterilizzò.
Quando il lupo si svegliò, Cappuccetto Rosso e la nonna lo stavano accudendo amorevolmente. Poi Cappuccetto Rosso lo portò a casa e la mamma si rassegnò a dar da mangiare anche a lui, insieme alle altre bestie.

mercoledì 25 novembre 2009

I soliti uomini

Da anni leggo il blog di Elastigirl (non c'è neanche bisogno che metta il link, vero?), da ben prima che diventasse un fenomeno mediatico. Invariabilmente suo marito si comporta in modo per me irritante e invariabilmente l'uditorio si divide in colpevolisti e no.
A parte il fatto che Elasti avrà fatto i suoi conti e se continua a stare con il suo uomo un motivo ci sarà, spesso rimango irritata da certi commenti di difesa o commiserazione: sai come sono gli uomini, non si può fare affidamento su di loro, a noi donne spetta tirare la carretta... ma vi sentite?
Quando, uscita da una storia senza basi che si era protratta troppo in là, mi guardai indietro, mi resi conto che il mio errore più grande era stato accontentarmi di un uomo che era inferiore a me. Proprio così pensai: inferiore. Uno che oggi, per carità, è docente universitario mentre io sono un'impiegata di basso livello sposata a un operaio agricolo. Ma, lasciatemelo ripetere, lui è tuttora inferiore a me, dove "inferiore" non indica una condizione sociale o economica, ma il valore globale di una persona.
Senza sentirmi chissà quale dea, io spesso provavo imbarazzo per lui: per la sua prona devozione all'autorità di sua madre, per gli atteggiamenti di timidezza patologica, per la sua rigidità. Spesso lo "coprivo" o giustificavo davanti ai miei genitori e ai miei amici.
Quando finì (e meno male che finì), mi dissi: ora basta accompagnarsi tanto per, ora voglio un uomo che sia alla mia altezza. All'epoca pensavo che il mio uomo ideale sarebbe stato molto colto e magari anche un po' bastardo, mi immaginavo una specie di Sgarbi giovane.
Invece ho trovato il mio destino in un casaro che non sa chi sia Lois Lane, che a volte usa l'italiano come se non fosse la sua madrelingua, che si dimentica i suoi averi nei posti più impensati. Ma che c'è. E non è minimamente inferiore a me.
Luca ha i suoi difetti, e a volte ne soffro. Ma è uno su cui contare nei momenti difficili, uno che non si fa prendere dal panico. È uno che vede problemi e cerca di risolverli con calma e determinazione, mantenendo i piedi per terra e non dimenticando l'obiettivo finale. È uno che sa dare concretezza ai miei sogni, che mi indica la via vera per realizzarli.
È anche uno da prendere in giro, per carità, o che ti irrita per la sua lentezza in certe cose. Ma mai, neppure quando vedo il suo sguardo vacuo davanti a certe mie spiegazioni, ho mai pensato che ci fosse in lui qualcosa da nascondere o giustificare.
Certo non è appariscente, certo non è un animale da festa. Ma è una persona vera, umile e serena, che per questo riesce a star bene dovunque e con chiunque lo meriti.
Molti, vedendo il nostro rapporto da fuori, si immaginano che lui sia il servo della gleba e io la megera che lo comanda a bacchetta. Ma quei molti non immaginano quanto il nostro rapporto sia giocato sulla ricerca di un equilibrio di potere, dove nessuno prevalga sull'altro e dove la lotta non sia distruttiva. Dove ognuno di noi è attento a condurre il gioco in modo che l'altro non rimanga troppo indietro, pena la rottura dell'equilibrio.
Oltretutto, Luca è la persona che stimo di più al mondo. Se qualcuno, vedendo un suo istante di debolezza, dovesse commentare "eh, ma lo sai come sono gli uomini...", penso che le salterei alla gola.
Perché, come sempre accade con chi ci è caro veramente, siamo solo noi a poterne parlar male.

lunedì 23 novembre 2009

L'abitudine

In radio, in questo periodo, c'è una canzone che dice "giura che non vorresti vedere mai il nostro amore dato in pasto all'abitudine". Non so di chi è e mi scuso per la mia ignoranza, ma non è questo il punto.
Il punto è che questa frase mi fa molta tenerezza, perché è tipica di persone giovani al primo amore (inteso come il primo che potrebbe sfociare in convivenza e quel che segue). Quando si è giovani, si ha molta paura che la meraviglia dei primi tempi venga soffocata dalla routine, dalle preoccupazioni di tutti i giorni, dal correre quotidiano, dai figli. Quando si è un po' più vecchiette, e si hanno all'attivo 2 figli, 4 gatte, 2 automobili, 2 lavori e mille passioni, ci si chiede francamente dove sia 'sta cazzo di abitudine. Perché, perdonatemi, ma a me non farebbe schifo avere una routine rassicurante e rilassante, che mi garantisca una settimana dopo l'altra senza imprevisti.
Tipo una settimana in cui non ci si ammali a tradimento, o l'auto non faccia brutte sorprese, o la caldaia non vada improvvisamente in blocco per 3 volte di fila, o non saltino fuori spese impreviste, o le maestre dei tuoi figli non si inventino nuove mirabolanti iniziative, o tuo marito non si faccia male sul lavoro, o un gatto non faccia un danno.
Non è per fare i supereroi, ma io tutta questa abitudine non la vedo più di tanto. Anzi, spesso guardo mio marito e penso "che figo, non è ancora scappato con una ballerina di 20 anni". E lui probabilmente, conoscendomi, si meraviglierà che io non sia ancora scappata all'estero, facendo perdere le mie tracce.
Più che dell'abitudine, io ho paura della fretta. Di quel gorgo che a volte ci risucchia e ci permette di scambiarci solo un bacio frettoloso prima di cadere addormentati. Ma quella mi fa paura anche con i miei figli, che mi crescono sotto il naso e a volte mi lasciano secca con un progresso di cui non mi ero ancora resa conto (tipo oggi, Amelia ha usato per la prima volta un congiuntivo - posso dirlo che mi sono quasi commossa?).
Però poi penso che, quando ho il tempo di leggere un libro, magari anche uno svuotacervello, e c'è una storia d'amore, il mio primo pensiero va a Luca e a quanto vorrei stare con lui, castamente o anche no, con i figli ma anche senza.
Certo, Luca mi fa incazzare di brutto, e io faccio incazzare lui (chi lo conosce sa che è una cosa veramente difficile), non è un rapporto sempre armonioso. Anzi, sono felice di aver trovato un uomo che sa contrastare la mia decisione, che non si lascia spaventare e mi affronta ad armi pari.
Penso che non esista nella mia vita un incontro più importante di quello che ho avuto con Luca, perché, senza di lui, Amelia ed Ettore non sarebbero mai nati e io magari avrei un'altra vita, magari anche bella e soddisfacente, ma non questa qui, che sto vivendo e che mi piace parecchio.
A volte mi ricordo com'era nei primi tempi, in quella prima notte in cui ci svegliavamo ogni mezz'ora per baciarci, e mi intenerisco un po', vorrei tornare a quel continuo scoprirsi. Ma poi penso alle incertezze dei primi tempi, alle gelosie retroattive, alla difficoltà di capirsi e amalgamarsi. Penso che l'entusiasmo si sia soltanto trasformato, che si sia indirizzato verso altri obiettivi, ma non credo che ci sia mai mancato, perché abbiamo sempre saputo inventarci nuove sfide e nuove imprese (o vivere la vita come se fosse un susseguirsi di): la vita insieme, i figli, la danza e tanto altro.
Spero che ci riusciremo sempre, che la fretta non ci risucchi e che le scene d'amore nei libri continuino a farmi venire quel languore, quella voglia di baciare e abbracciare mio marito, magari persino riuscire a fare l'amore con lui. Ecco, quest'ultima sarebbe una piacevole abitudine che mi piacerebbe riprendere con maggiore frequenza, ad esempio: alla faccia dell'abitudine che schiaccia l'amore.

domenica 22 novembre 2009

Grazie, San Carlo

Dal momento che ho annunciato all'urbe e all'orbo che oggi sarei stata a Genova, al convegno di Autunnonero, sarete ben stupiti di vedermi già di ritorno.
Il fatto è che una serie di circostanze ha fatto sì che andassi al convegno solo ieri. Prima di tutto, Amelia si è ammalata venerdì sera. Poi, diversi relatori della domenica hanno mollato e/o sono stati trasferiti a sabato, sempre causa influenze varie. E quindi mi pareva inutile spendere dei soldi in più per fermarmi ad ascoltare argomenti che mi interessavano tra il sì e il no. Il tema che mi interessava di più era il folklore, che sarebbe stato trattato ieri pomeriggio. Così ho deciso di andare e tornare in giornata.
Alla mattina, sono partita comunque presto per andare a fare foto per Viola e fare un giro in centro. Tra le tante cose belle, sono entrata in una libreria di via Canneto il Lungo. Una di quelle librerie dove potresti prendere un qualsiasi libro, a caso e ad occhi bendati, e ne saresti comunque contento. Combattutissima tra mille libri belli e intelligenti (ben altra stoffa rispetto alle tristi e troppo diffuse edizioni Dami o simili), ho preso questo libro senza parole, per Ettore, e una specie di calendario dell'Avvento (con una storia al giorno) per Amelia.
Insomma, se io fossi Viola, che vive in via Canneto il Lungo e tutti i giorni passa davanti a quella libreria lì, sarei decisamente più povera di soldi e più ricca di libri intelligenti.
Peraltro, ho anche parlato di Viola con la proprietaria (le ho spiegato che stavo fotografando la via per la documentazione della sceneggiatura) e mi ha fatto promettere che, se riuscirò a pubblicare Viola, lei sarà la prima a riceverlo in negozio. Speriamo di poter mantenere presto la promessa.
Nel pomeriggio, poi, ho preso un ascensore che sembrava uscito da Gardaland e mi sono ritrovata in un castello che pareva uscito da Disneyland. In una sala inizialmente gelida, divesi docenti universitari hanno parlato di vari argomenti legati al folklore: gli angeli neutrali come giustificazione per l'esistenza degli spiriti della terra (folletti, naiadi, gnomi, ecc.), della necessità di allontanare definitivamente i morti in tutte le culture del mondo, una panoramica sul vampiro in Europa, il passaggio dalla strega-guaritrice alla strega diabolica e la figura della Inglesa nelle ballate dell'Appennino Emiliano, con tanto di esibizione canora.
PS: carissima (tu sai chi), so di averti fatto venire l'acquolina in bocca. Se vuoi, scrivimi una mail e ti mando gli appunti che ho preso. Prossimamente sappi che verranno anche pubblicati gli atti del convegno.
Ve la faccio breve: alla fine degli interventi, chi è stata l'unica a fare una domanda? Io, ovviamente.
Ricordandomi del commento fatto a un post di Mammamsterdam, ho fatto una domanda a Portone, lo storico che aveva raccontato di un processo a due streghe a Bormio nel 1630.
La domanda era: perché io, lombarda, non ho ereditato nessuna leggenda né superstizione da parte dei miei nonni, anche se erano contadini ignoranti come quelli che in tutto il resto d'Italia raccontavano leggende ai nipotini?
Mi risponde l'esperto che in effetti è difficilissimo studiare le credenze popolari in Lombardia negli ultimi 2 secoli, perché non ce ne sono. Questo grazie all'azione capillare (dei tribunali secolari, non dell'Inquisizione) iniziata da San Carlo Borromeo e portata avanti dai suoi discendenti e discepoli, per combattere superstizioni e credenze che potevano essere terreno di coltura per il Maligno. Essenzialmente i signori teologi controriformati, per estirpare il male, hanno introdotto l'idea che l'unica strega buona è quella morta e hanno completamente eliminato quel rapporto un po' ambiguo di rispetto e timore che i "normali" avevano nei confronti delle streghe "naturali", trasformandolo in odio e terrore verso la figura della strega serva del Demonio.
E così la Lombardia è diventata un deserto di credenze, un luogo dove nessuno si scandalizzava se una signora nata del 1920 non andava a messa la domenica e dove una vedova che andava 3 volte al giorno sulla tomba del marito recentemente morto veniva etichettata come "la solita terrona". Dove le più grosse superstizioni erano legate al giorno in cui cambiare le lenzuola o al divieto di regalare perle (perché portano lacrime). Dove lo sbocco naturale della nipote di quella vecchia signora eccentrica è diventare atea, perché per lei il soprannaturale è sempre stata solo una parola di facciata.
Insomma, San Carlo, magari, se oggi sono atea, è anche merito tuo. Grazie di cuore.

giovedì 19 novembre 2009

Potendo

La mia maestra delle elementari, una vecchia stronza che non auguro nemmeno ai figli del mio peggiore nemico (che peraltro non saprei identificare), ci ripeteva che "volere è potere". Nell'esaltazione del potere della forza di volontà, arrivava a raccontarci di quel povero psicotico dell'Alfieri che si faceva legare alla sedia per scrivere (bah: se proprio non aveva così voglia, poteva andare a lavorare la terra, nessuno ne avrebbe sentito la mancanza).
In questo periodo sento tante persone che, "potendo", farebbero questo e quello. Soprattutto madri che, "potendo", rimarrebbero a casa dal lavoro o, al contrario, andrebbero a lavorare. Non entro nel merito, perché è un argomento complicato e si rischia di generalizzare ingiustamente.
Ma io, "potendo", cosa farei? Io e Luca abbiamo già un progetto in potenza, ma non ve ne posso parlare per vari motivi, quindi quello non conta. Tanto più che potrebbe avverarsi tra un anno come tra 20, quindi inutile rimuginarci.
Proviamo a scatenare la fantasia: "potendo", cosa farei? Per "potendo" intendo "non avendo nessun fattore avverso alla mia volontà, né di carattere pratico né di carattere astratto".
Partiamo dal lavoro. Se avessi abbastanza soldi, oggi lavorerei? Un anno fa, a questa domanda avrei risposto no tutta la vita. Invece, oggi risponderei: sì, purché mi si dia la possibilità di lavorare da casa e non rispondere a nessuno degli orari che faccio. Poi magari, quando tra un anno mi sarò scontrata con i mulini a vento, dirò: sì, purché mi si dia la possibilità di usare punizioni corporali ;-)
Lavorerei full time? Dipende. Magari no, magari lavorerei solo la mattina, quando la voglia di fare è più accesa. E il pomeriggio potrei dedicarlo in parte a Viola e in parte ai bambini. Oppure farei un part time verticale, tipo da martedì a giovedì, e gli altri giorni li dedicherei interamente a me stessa e alla famiglia.
Non valuto nemmeno l'ipotesi che Viola faccia successo e mi faccia diventare una sceneggiatrice a tempo pieno, anche perché ho moltissima paura che rimanere a casa a scrivere e basta mi trasformerebbe in un mostro ripiegato su se stesso, incapace di trovare nuovi spunti vitali.
Magari invece, siccome sono una pazza innamorata della flessibilità, farei un carpiato e cambierei completamente prospettiva: mi iscriverei alla scuola di ostetricia (che a Pavia è di altissima qualità, e lo dimostrano anche le mie esperienze di parto) e dall'ufficio passerei alla corsia, dall'orario 8-16.30 ai turni. Vi confesso: è un'idea che accarezzo da quando ho avuto i miei figli, e che mi si ripropone prepotentemente in questi giorni, in cui vedo i piani di studio della laurea in ostetricia e i suoi programmi. Se trovo un modo di frequentare senza decurtare troppo le mie entrate, quasi quasi...
Per il resto, credo che il mio vissuto sarebbe quasi esattamente uguale a quello che forse, dall'anno prossimo, potrei avere: dedicare tutto il pomeriggio ai bambini (magari senza vincoli di spesa, quindi potendo permetterci tutti i giorni di spostarci in macchina, vedere posti particolari seguire corsi), passare la sera in famiglia (magari senza quella stanchezza che ci fa crollare alle 9 di sera), stare con mio marito.
Forse non ho abbastanza fantasia, o i miei sogni sono in ogni caso molto piccoli. Forse la realtà è che basta poco per rendere felice una persona, ma molti non se ne rendono conto.

mercoledì 18 novembre 2009

Addio alle armi

Oggi ho fatto una cosa che mi pesa parecchio: ho chiamato la mia maestra di danza e le ho detto che mi prendo una pausa dal corso mensile. Forse sono stanca, forse il ginocchio, forse il peso, forse il nuovo lavoro, forse la nuova sede che è più ostica da raggiungere, forse il nuovo gruppo, forse il fatto di frequentare un corso abbastanza base. Il fatto è che non mi diverto più.
La danza continua a piacermi, è il mio primo istinto quando sento la musica. Voglio provare a continuare per conto mio, a casa, magari provando a coinvolgere i bambini e, chissà, magari trovando un metodo di insegnamento ai piccoli. Voglio continuare ad ascoltare questa musica, a seguire gli eventi di questo mondo, eventualmente a fare stage ai festival. Ma senza avere un impegno fisso, senza dover andare a lezione solo perché l'ho pagata.
Mi sento anche una stronza, perché in questo momento la mia maestra avrebbe bisogno del mio contributo. Ma lei sa che, se le serve una qualsiasi cosa (supporto logistico, comunicazione, informazioni), io sono ben contenta di supportarla. Le voglio bene e la stimo al di là della sua bravura, la considero una persona eccezionale e non mi permetterò di perdere i contatti con lei solo perché non sono costretta a vederla ogni settimana.
Spero di riuscire ad andare alle sue lezioni mensili, anche se lei ha paura che non mi piacciano più di tanto. E spero anche che, in futuro, se si realizzerà il progetto che io e Luca coltiviamo per il futuro, abbiamo la possibilità addirittura di organizzare noi degli incontri mensili con lei. Chissà...
Mi resta questa sensazione a metà tra la liberazione e la tristezza. Un po' come quando un rapporto si è sfilacciato e ti decidi a troncarlo. Oppure come quando ti trovi costretta a buttare quel vestito che hai messo tantissimo e amavi tanto ma ormai è troppo liso.
Dopo 8 anni passati a danzare, mi sembra strano non essere più iscritta a nessun corso, non essere formalmente legata a nessuna scuola. Mi sento un po' persa ma nello stesso tempo determinata a fare quello per cui mi sono presa un po' di tempo: scrivere Viola, curarmi il ginocchio e ritornare a un peso umano.
E speriamo che questo periodo senza danza dia qualche buon frutto.

martedì 17 novembre 2009

Taliban, reprise

Ok, mi potete facilmente sgamare: la mail a cui mi riferisco nel post precedente è questa. Che MammaImperfetta, avendo un blogapposta, rigira giustamente alle sue lettrici.
I commenti sono per la maggior parte incoraggianti, fattivi, solleciti, non giudicanti. Oh brave, mi vien da dire, avete capito lo spirito della cosa.
Un commento, invece, va controcorrente. Vi dico la verità: mi ha irritata da prima di leggerlo veramente, perché l'italiano scritto con le k mi fa venire l'orticaria. Passi se si tratta di adolescenti, ma l'italiano scritto con le k da una madre di famiglia mi causa crisi di furore che il Pelide Achille mi fa un baffo (decolorato, però).
Questo per mettere in chiaro che sono una talebana anch'io: una talebana dell'italiano. Quindi, per favore, così come non agitereste un biberon davanti a una della LLL, non mettetemi davanti k, congiuntivi sbagliati, pò con l'accento e cose di questo genere. Rischio una crisi, roba da dover chiamare un esorcista.
Faticosamente, andiamo ai contenuti.
Prima di tutto, la commentatrice si focalizza sul lavoro della sventurata madre: a lavorare è costretta ad andarci o no? Ma che vuol dire "essere costretta"? Nessuno ti punta un fucile addosso. Probabilmente, più facilmente, ci saranno due scenari: o devi tornare a lavorare perché non hai più diritto a stare a casa (o perché non ci stai dentro col 30% dello stipendio) o vuoi tornare a lavorare perché il tuo lavoro ti piace. Non vedo il male in nessuna delle due cose, o almeno non un male proveniente dalla madre.
Oltretutto, per chi si angosciasse di un'eventuale interruzione dell'allattamento col ritorno al lavoro: conosco tante persone che, siccome volevano continuare ad allattare, hanno continuato a farlo anche dopo il ritorno al lavoro. Le altre hanno colto l'occasione per smettere, ma forse lo avrebbero fatto ugualmente per tutta una serie di motivi che sono solo fatti loro.
Secondariamente, parla dell'obiettivo primario di una madre, che dovrebbe essere passare tanto tempo col proprio bambino. Appunto, ma parliamo di obiettivo prioritario, non esclusivo. A parte che una magari aspira ad essere qualcosa di diverso da "solomadre", siamo sempre lì: non devono essere gli altri a dettare e/o giudicare le nostre priorità.
Io ho avuto una madre che amava molto il suo lavoro, ci tiene tuttora e ne è orgogliosa. Non mi ha allattata al seno, non è nemmeno stata eccessivamente affettuosa (ma, le rare volte che lo era, spesso la respingevo io), ha tanti difetti che spesso le rinfaccio. Ma è stata una madre sufficientemente buona: le voglio bene anche se spesso mi fa incazzare e sono contenta di essere stata cresciuta da lei.
Sarebbe potuta essere migliore? Beh, questa è una domanda del cazzo. Mia madre è stata se stessa, mi ha insegnato valori che ho interiorizzato e altri che ho rifiutato, ha fatto quello che ha ritenuto giusto. Fine della discussione. Farsi seghe mentali su ciò che potresti fare "di meglio" è sbagliatissimo. Farle agli altri è criminale. Colpevolizzare gli altri per quello che hanno e altri non hanno è poi un retaggio della peggiore educazione cattolica del passato (pensate a quanti danni ha fatto la frase "non mangi? pensa ai bambini in Africa che muoiono di fame").
E qui passiamo alla fase "pensa agli altri che non si possono permettere di avere figli e/o di stare a casa con loro": pessima idea. Che ne può una povera mamma in difficoltà se gli altri non hanno la sua stessa fortuna? I casi sono 2: o si sono meritati la sfiga che hanno (e in quel caso: chi è causa del suo mal...) o gli è capitato senza colpa (e in questo caso: o conosci qualcuno che è in quella situazione e puoi aiutarlo e lo fai, oppure non puoi fare altro che compatirlo e basta). Soprattutto: io sono io, sono in questa situazione e non è che pensando alla sfiga degli altri me ne uscirò più facilmente (anzi, mi appesantirò di senso di colpa).
La chiusa è magistrale: si tratta di cominciare a fare la mamma. Bello, proprio. A una che ha una bambina di tot mesi, che le ha dato l'anima e tutto il suo tempo da quando è nata (e anche da prima), che chiede aiuto perché questa situazione la sfinisce, chiudi un bel portone in faccia. Di quelli blindati.
Ed ecco che torniamo sempre lì: una mamma si deve chiudere occhi e orecchi? Deve diventare solo una vacca da latte? Beh, fatevi un giro in un allevamento e guardate le mucche negli occhi. Vedrete una noia infinita, non fanno altro che mangiare per alleviarla.
E come potete pensare che una donna pensante, un'anima libera e creativa, possa accettare di diventare una mucca da latte senza lottare? Certo, i vantaggi dell'allattamento, ecc. Sono argomenti che parlano alla ragione. Ma l'essere umano è anche cuore e spirito. Essere una donna anziché una mucca significa voler portare avanti un lavoro che amiamo, un hobby, un progetto o semplicemente delle relazioni umane. Lo vorremmo fare nel modo più indolore possibile per i nostri figli, a cui chiediamo il sacrificio di poche o tante ore senza di noi. Lo vorremmo fare nel modo più indolore anche per noi, che soffriremo comunque dello stare lontane da loro, anche se stiamo vedendo il film più bello del mondo o stiamo realizzando un progetto a lungo accarezzato.
Non abbiamo bisogno che qualcuno ci tacci come non-mamme.

domenica 15 novembre 2009

Reale e percepito

Faccio una premessa: in questo post svelo di aver avuto dei pensieri da stronza. Ne sono consapevole e me ne scuso. La stronzaggine spesso non è altro che un riflesso condizionato.

Oggi torno a casa da un brunch passato con Luca, mentre i bambini erano dai nonni. Guardo la posta e vedo una richiesta d'aiuto urgente. Mentre aspetto che la mail si apra (nella toolbar di Google si vede solo l'oggetto, non il mittente), penso in sequenza: spam, oppure una persona che si trova in una situazione grave gravissima.
Scopro che si tratta "solo" di un problema di rifiuto del biberon. Lì per lì tiro un sospiro di sollievo, poi mi incazzo un nanosecondo per il procurato allarme, infine ridimensiono: per la neomamma di un primo nato questo è un problema esattamente come lo è per me installare il modem ADSL sul PC nuovo e io rispetto a lei posso essere il nerd che le risolve il problema o almeno la mette nella direzione giusta. Infatti le rispondo subito e la indirizzo a una persona secondo me più indicata per risolvere tecnicamente il suo problema, magari dandole anche un po' di incoraggiamento.
Però mi resta la perplessità di aver reagito con irritazione, in un primo tempo. Mi chiedo perché siamo irritati dai principianti, perché ci dà così fastidio vedere qualcuno che arranca dove noi andiamo spediti. E sono arrivata alla conclusione che i principianti ci irritano perché ci ricordano la fatica che noi stessi abbiamo fatto, quando lo eravamo.
È come se nella nostra testa facessimo una distinzione tra cultura e addestramento. Mentre apprezziamo vedere persone che si acculturano ma abbiamo un istintivo fastidio nei confronti di chi è imbranato perché sta ancora imparando. Spesso ci irritiamo con i bambini proprio perché si devono impratichire, perché non sono "skilled", perché sono lenti. I loro problemi ci fanno arrabbiare perché ci sembra impossibile che siano per loro così insormontabili, preferiamo pensare che siano capricci rivolti contro di noi.
Mi sono ritrovata a pensare che è proprio per via del mancato controllo di questa irritazione che molte donne trasformano i propri mariti e i propri figli in incapaci totali ("faccio io, ché tu non sei capace") e fanno sentire inadeguate altre donne meno esperte.
Se io avessi seguito la mia irritazione, avrei risposto così alla richiesta d'aiuto: che diavolo vieni a farmi prendere colpi, i problemi veri sono quelli di salute, a tutto il resto c'è soluzione.
Per fortuna, mi soccorre la capacità di mettermi nei panni dell'altro: quante volte avrò io chiesto aiuto per cose che mi parevano assolutamente prioritarie e magari agli altri parevano cazzate? Penso a quando pativo tantissimo l'allattamento di Amelia, e ho rotto le scatole al mondo intero (purtroppo non trovando la soluzione giusta in tempo, ovvero prima di sbroccare per il dolore e la frustrazione). E penso anche a quando, trovandomi in difficoltà diverse con l'allattamento di Ettore, ho preferito tacere e risolvermi i problemi da sola, per evitare di espormi alle stesse critiche che avevo incontrato 2 anni prima con Amelia.
Penso a quando mi trovo davanti madri distrutte dai risvegli notturni, e penso che si tratta di qualcosa che non mi riguarda più, ma di cui all'epoca sentivo tutto il peso. Penso a tutti i dibattiti sull'insegnare la nanna ai bambini, e alle decine di volte in cui la situazione ha mutato contorni (e luoghi e metodi) a casa mia. Penso anche a tutte le madri che ora si pongono il problema dei figli che non mangiano abbastanza, che domani si porranno il problema dei figli che mangiano troppo e dopodomani saranno angosciate all'idea di entrare nel gorgo dei disturbi alimentari.
Penso anche a tutte le volte in cui, in vari ambiti della mia vita, mi è sembrato di essere in un vicolo cieco, ostacolata da problemi apparentemente insormontabili. Guardando le stesse situazioni da altre prospettive e con qualche informazione in più, spesso quelle situazioni si sono risolte o almeno ridimensionate.
Penso anche che, se ogni volta che mi è stato chiesto un parere su certe questioni, avessi manifestato scherno o avessi sminuito il problema, avrei consegnato le persone che mi chiedevano consiglio ai vari forum di talebane, e non me lo sarei perdonato.
Perché, nel momento in cui una persona percepisce un problema, sta a noi cercare di darle quella prospettiva che lo può ridimensionare: altrimenti, che amici saremmo?

venerdì 13 novembre 2009

Eccellenza

In questi giorni, con le persone che si sono masterizzate insieme a me 10 anni fa, stiamo cercando di rivederci per festeggiare. Forse, se i pochi superstiti non mollano, cominciamo a farlo domani con altre 2-3 famiglie. Altrimenti lo faremo tra settimane o mesi.
Come ho già raccontato altrove, per me il master è stato un periodo molto stimolante. Ero sempre stata, senza sforzo, la più brava e la più colta tra i miei amici, quella che emergeva di una testa (che il destino mi avesse compensata di ciò che mi aveva tolto in cm?), soprattutto all'università. Oggi, con le triennali e i semestri e le tesine, sembra abbastanza normale che una persona si laurei a 23 anni. Dieci anni fa, con una laurea quadriennale e una vera tesi tipo quelle che oggi si dovrebbero fare nelle specialistiche, era abbastanza raro, persino a Lettere che dopotutto era una delle facoltà più "facili". Infatti cominciai il master senza essere ancora laureata, ma alla condizione che lo facessi entro l'anno solare.
In graduatoria non mi ero piazzata troppo bene: quel master lo provavo per accontentare mia madre e cercare una possibilità di lavoro, ma non ero ancora un'appassionata di nuove tecnologie e lo dimostrai ampiamente nel colloquio. Fui presa perché molti, che non avevano vinto una borsa di studio, rinunciarono.
Mi ritrovai insieme ad altre 29 persone in una specie di casa del GF, dove c'erano gli alloggi per chi veniva da fuori, le aule e i laboratori. Un posto dove, se non abitavi già lì, entravi alle 8 del mattino e uscivi quando uscivi.
Delle 29 persone che erano con me, la maggior parte erano incredibilmente in gamba, tutte più grandi di me e con più esperienze. C'era S., che aveva lavorato alla TV maltese. C'era A., passato dall'esegesi del Canto di Paolo e Francesca alla sicurezza delle reti. C'erano F. e C., che si innamorarono (come A. e M., B. e D. e forse altri che non mi ricordo - se ci chiamavano "l'anno delle coppie" un motivo ci sarà). C'erano I., E. e C., con cui formai un bel gruppo di lavoro e mi divertii parecchio. E poi c'ero io, che all'inizio del master credevo di dovermi sposare e invece alla fine del master mi ritrovai a teorizzare l'harem sul petto di un nostro docente insieme a un'altra ragazza.
Soprattutto, io mi ritrovai in mezzo a persone al cui confronto io ero solo una delle tante, non l'eccellenza. E la cosa mi piacque da impazzire: non mi dovevo frenare per non umiliare i miei interlocutori e anzi andavo alla loro rincorsa. Imparavo a una velocità vertiginosa, sia dalle lezioni sia dagli altri, e in breve recuperai il gap iniziale rispetto agli altri, che già si intendevano un po' di web e produzione multimediale.
Poi cominciammo a lavorare e persi il contatto abituale con la maggior parte di loro. Di alcuni proprio non ho saputo più niente, altre invece sono mie care amiche che sento abitualmente.
Non ho più provato una simile esaltazione per la presenza di interlocutori così stimolanti fino a quando non ho conosciuto (anche di persona) alcune blogger. Tralasciamo le mie prime blogamiche, che spesso sono diventate amiche anche reali, ben più presenti di quelle che ho conosciuto con metodi tradizionali. Parlo soprattutto delle persone che ho conosciuto nell'ultimo anno, e in particolare di quelle che ieri sera erano con me in un ristorante di Milano a ciacolare fino a quando abbiamo perso la voce (io non l'ho ancora recuperata).
Vi sembrerà strano, ma è stata la prima volta da 4 anni a questa parte in cui sono riuscita a nominare i miei figli per meno del 5% della serata e la stessa cosa è valsa per le mie compagne di merenda. Al nostro capo del tavolo, abbiamo parlato di lavoro (beh, ovvio che il mio, essendo nuovo di zecca, avesse il posto d'onore), di cucina, di foodblogging, di rischi sanitari veri e inventati, di mode alimentari e di costume. Abbiamo riso, ci siamo informate a vicenda, ci siamo indignate (ma non troppo, ché si digerisce male, altrimenti), abbiamo moderatamente spettegolato, ci siamo date indicazioni per trovarci di nuovo nella vita reale.
Mi sono sentita in mezzo a persone che stimo e che, credo e spero, mi stimano, a parlare di tutto senza dover spiegare ogni singola parola e ad ascoltare discorsi interessanti ed intelligenti. Cosa che non mi capitava più da un pezzo, se non con le singole amiche selezionate nel corso degli anni.
Di nuovo, quella sensazione di non essere l'eccellenza, ma di essere in mezzo a pari. Senza la solitudine dei primi e senza sensi di inferiorità. Se non in una cosa: io, che prima dei figli bevevo come un camallo senza scompormi di un capello, non ho toccato alcol tutta la sera, perché ormai anche solo una goccia mi dà mal di testa.
Sicuramente, in questo, i miei compagni di master non mi riconosceranno.

mercoledì 11 novembre 2009

Angeli e demoni

Ho seguito con orrore e stupore una conversazione dai toni isterici che si è accesa nei commenti di un post ironico e tutto sommato innocuo.
OK, una certa categoria di mamme è stata definita talebana. Potevamo definirle "allattomani rompicoglioni" (perché esistono anche le allattomani non rompicoglioni, e ne conosco parecchie perché sono mie amiche ;-)), ma sarebbe stato troppo incentrato sull'allattamento, che non è il loro esclusivo ambito di competenza. Potevamo definirle "integraliste della maternità", ma non avrebbe reso la loro missione di instillare il senso di colpa nelle altre madri: una può essere integralista ma non voler fare proseliti (ho diverse amiche e conoscenti integraliste di varie religioni e ideologie, ma non per questo si sentono autorizzate a convertire me, semplicemente rivendicano il loro diritto ad essere così anziché cosà). Potevamo correttamente definirle "integraliste della maternità rompicoglioni", e avremmo risolto la cosa con un acronimo impronunciabile, IDMR. E allora chiamiamole talebane, tanto si offendono ugualmente.
Le caratteristiche della mamma talebana le ha già elencate Raperonzolo in modo efficace. Le ricapitoliamo in questa sede per completezza: la mamma talebana può essere allattomane o no, può coslippare o no, può essere bio o omeopatica o steineriana o quel diavolo che vuole, l'importante è che tutto quello che fa lo fa per i figli e tu, se fai tot in meno, dovresti sentirti in colpa. L'arma preferita della mamma talebana è il senso di colpa, attraverso l'esempio ("io ho allattato con i capezzoli fessurati in due" - ma non vi fa schifo e orrore solo a sentirvi? Io non vengo a raccontarvi delle piaghe della mia dermatite invernale) o attraverso presunte "prove scientifiche" manipolate a loro piacimento ("se non allatti, i tuoi figli avranno anticorpi rachitici e svilupperanno tutti i mali compresa la peste bubbonica" - ovviamente il fatto che si tratti di meri dati statistici e non di verità assolute non le sfiora minimamente).
[NdA: faccio esempi tratti dall'allattamento perché mi sembra che sia il problema più sentito, per cui fare osservazioni colpevolizzanti su questo argomento è il colpo più basso che si possa dare a una madre, neo o avanzata.]
Di solito, già quando espongo la definizione di mamma talebana, l'interessata (se è talebana veramente) non sta neanche ad ascoltare quello che dico e parte a testa bassa con argomenti tipo: la LLL non costringe nessuno ad allattare, sei tu l'intollerante perché mi bolli come talebana, guarda che i pediatri impongono la dittatura del LA (sono una pediatra io? no, giusto per chiarire), in Italia allattare è guardato come una vergogna se lo fai in un luogo pubblico (vero, ma alla stessa maniera ti guardano male se cambi un pannolino, come se l'Italia fosse piena di fasciatoi pubblici).
Diciamolo forte e chiaro, ancora una volta: io non ho niente contro la LLL, so che ha aiutato ad allattare tantissime donne che ci tenevano e che la maggior parte di esse non è talebana. Tuttavia l'atteggiamento di chi crede fortemente nell'allattamento al seno è di solito militante, ovvero cerca di combattere la parte avversa che propone il LA, e nella battaglia spesso si feriscono donne che sono solo doloranti e disorientate e avrebbero bisogno di qualcuno che le mettesse in condizioni di scegliere serenamente e autonomamente. Oh, stesso discorso per chi crede fortemente nel LA, ma non posso parlare per esperienza diretta perché finora ho incontrato estremiste solo dell'allattamento, non del LA.
Chiuso il discorso allattamento, passiamo a quello delle maiuscole. Se guardate in una qualsiasi grammatica italiana recente (o anche no: la mia è del 1990), vi definirà l'uso delle maiuscole per evidenziare concetti astratti come retorico e desueto. Probabilmente i linguisti non hanno incontrato mamme talebane, che si definiscono Mamme il cui Amore per i Figli è con la A maiuscola, Mamme per cui i Figli sono tutta la loro vita (con la minuscola, nel caso in cui sia la vita della Mamma, con la maiuscola in caso si parli d'aborto o di ricerca scientifica - ma questa cosa si interseca con un'altra parrocchia, non mettiamo troppa carne al fuoco).
Si sottintende che una madre deve annullarsi per i figli, che rimanere con i figli a ventosa sulla tetta per mesi deve essere vissuto come una profonda gioia, che il nostro corpo non ci appartiene (ma non erano i nostri figli a non appartenerci, seconto Gibran?). Insomma, una versione mammesca della donna oggetto: prima di diventare madre, sei l'oggetto degli uomini adulti (modello velina) e, dopo, sei l'oggetto di tuo figlio.
[NdA: so che ci sono madri che allattano anche a lungo senza sentirsi così. Ribadisco che stiamo parlando di talebane, ovvero di persone che si annullano nel loro ruolo di madri. Se tu che leggi stai allattando tuo figlio, fatti un esame di coscienza: se riesci a dirmi almeno una cosa che ti piace oltre a stare insieme ai figli, allora sei già a buon punto. Se poi hai sempre vissuto il tuo rapporto con i figli come una scelta tua e non te ne frega niente di quello che fanno gli altri, allora non sto parlando di te.]
Fin qui, non ci sarebbe nulla di male: a ognuno le sue preferenze. Il dubbio sulla sanità di questo atteggiamento mi viene quando scopro che queste madri che si annullano per i figli passano 24 ore al giorno a cercare blog e forum da insultare in nome dell'allattamento. Non tanto per l'essere dipendente dal web: ci mancherebbe, io parlo? Ma, insomma, vi racconto un attimo com'è la mia giornata: mi sveglio, preparo me e i bambini, vado al lavoro (e, tendenzialmente, anche se sono nel pubblico e quindi posso essere un po' più rilassata, lavoro, al limite con un occhio alla mail), torno dal lavoro e riprendo i bambini, cucino e/o gioco con i bambini, magari mi collego nel frattempo che cucino ma giusto per vedere se ci sono novità, ceno. Dopo cena, ho un momento in cui mi posso collegare e guardare i siti che mi interessano. Più spesso leggo o scrivo o crollo. Quando ero a casa, lo ammetto, mi prendevo qualche momento in più mentre i bambini dormivano e/o mentre preparavo il pranzo, ma sempre all'interno dei miei ennemila interessi. Cerco sempre di rispondere alle mail e mi piace anche parecchio, scrivo sul mio blog, seguo alcuni blog che mi piacciono. Ma, accidenti, ieri, dopo aver scritto un commento su Veremamme, mi sono addormentata, mica sono stata lì ad aspettare se qualcuno mi rispondeva. Certo, se mi fossi aspettata una risposta su Viola, forse sarei stata più trepidante e curiosa, ma volete mettere l'eccitazione di riuscire a realizzare un progetto sognato da tempo rispetto all'attesa di una risposta polemica nei commenti di un post? Mi sembrano pesi completamente diversi.
Questo per concludere che secondo me le mamme talebane hanno un problema: vivono un'ossessione più che una causa, amano più la polemica (molte partono con l'atteggiamento di dover combattere il biberon, più che diffondere la cultura dell'allattamento) che il dialogo.
Insomma, non mi sembrano molto diverse, mutatis mutandis, da quei missionari che per diffondere l'amore di Dio massacravano le popolazioni "pagane" che avrebbero voluto convertire.
Per diffondere un messaggio di amore e rispetto, per quanto valido e impellente, imbracciare le armi non è mai una buona idea: si rischia di passare da angelo della casa a demone della rete, mettendo in cattiva luce la propria causa e quella delle persone che ogni giorno la diffondono col proprio esempio. E di dare ragione a quelle come me, che non sono né angeli né demoni, ma solo esseri umani che hanno figliato e non ne fanno l'unico vanto della propria vita.