mercoledì 30 dicembre 2009

Prima di andare via

Domani, se tutto va bene e il cielo non mette giù un metro di neve, si parte. Si va verso il mare, a Levanto.
Non so che cosa mi aspetta là, probabilmente anche un po' di noia: se il tempo non si mette decisamente al bello, non è che potremo passare molto tempo all'aperto. Ci porteremo qualche gioco, un po' di colori e fogli, un po' di musica e magari un paio di DVD da vedere su portatile.
Quasi sicuramente faremo un salto a Genova: la ferita di non essere riuscita ad andare prima di Natale è ancora fresca, e poi voglio tornare nella bellissima libreria di via Canneto. Mi piacerebbe anche portare Luca e i bambini a Castello d'Albertis, magari attraverso l'ascensore che sembra un'attrazione di Gardaland.
Ci piacerebbe tornare in un ristorante di Levanto, il Moresco, per farci il loro spettacolare antipasto misto, che vale come un pranzo di nozze. E mi piacerebbe rivedere le Cinque Terre in versione non vacanziera.
Vorrei fare tante belle foto, ma la mia digitale comincia a perdere i colpi nella messa a fuoco (è un'automatica, deve essersi starato il sensore) e non ho avuto tempo né di andare a farla vedere né di interessarmi seriamente per comprarne un'altra.
Spero soprattutto che i bambini stiano bene e si ricarichino un po', stando a contatto con l'aria di mare dopo tutta l'umidità malsana della Pianura Padana.
Statemi bene e godetevi queste feste, divertitevi con le vostre famiglie e vogliatevi bene. Noi cercheremo di fare altrettanto.

venerdì 25 dicembre 2009

Niente è cambiato

In questi giorni a casa, ho deciso di applicare una tecnica particolare per indurre il sonno nei figli: mi metto sul lettone insieme a loro e metto nel DVD un film che a loro non deve interessare per niente, né nel bene né nel male. Vanno bene film con un sacco di dialoghi e poca azione. Ieri, ho scelto un film che amo molto, "Elizabeth - The Golden Age".
Amo questo film per molti motivi. Prima di tutto, mi piacciono molto le figure di governanti donne, da Hatshepsut a Golda Meir. Secondo, adoro i film storici, sia per la rievocazione della storia sia perché resto incantata dai costumi. Terzo, mi piace molto Cate Blanchett, sia come attrice sia come donna. Quarto, mi sciolgo davanti a Clive Owen, è proprio una mia debolezza di femmina. Quinto, il personaggio di Walsingham, interpretato da Geoffrey Rush, mi piace tantissimo per il misto di umanità e mancanza di scrupoli, di lealtà e freddezza. Ultimo, avevo molto amato il primo "Elizabeth".
Stranamente per un sequel, ho amato di più il secondo film perché mi è più vicino in tante tematiche.
Prima di tutto, qui la regina non è più una giovane inesperta che deve affermare la propria bravura: è una donna ormai matura e serenamente insediata sul trono, esperta del proprio mestiere, con una certa quantità di problemi personali e di Stato da risolvere.
Oggi come oggi, Elizabeth mi appare come una di quelle donne che si sono votate interamente al proprio lavoro, che ne sono state assorbite per passione e necessità. Si ritrova ad essere sola, senza una famiglia e senza una persona con cui avere una relazione disinteressata e paritaria. E viene stuzzicata da un uomo che desidera e invidia, e che invece sceglierà una donna più "facile": più bella, più giovane, più docile, più indifesa.
Elizabeth è costantemente combattuta tra i suoi doveri di governo e il desiderio di avventura, tra la paura e il coraggio, tra la forza e il desiderio di poter essere fragile. Viene raccontata come una donna che oggi potrebbe essere una donna di potere nell'ambito della politica o dell'economia. Ma, nonostante io non abbia nessun potere, mi ci identifico moltissimo: quante volte noi donne siamo divise tra il dovere di mandare avanti un certo tipo di vita e il desiderio di essere libere? Molte risolvono il dilemma in maniera banale, scopandosi il primo che passa e facendosi nella testa dei film in cui si raccontano il grande amore. Altre trovano il loro equilibrio riversando il loro desiderio di avventura sul lavoro (e, nel periodo del precariato, diciamo che l'avventura è parte integrante del lavoro). Altre ancora decidono di vivere liberamente nel privato, e scelgono di non avere una famiglia tradizionale.
Io, codardamente o saggiamente, vivo le mie avventure attraverso i miei personaggi, e spesso rimpiango di non aver fatto certe esperienze quando potevo (l'Erasmus, per esempio, è il mio più grande rimpianto, ma anche avere un'esperienza lavorativa all'estero mi sarebbe piaciuto).
Un'altra caratteristica di Elizabeth in cui mi riconosco è il rapporto con gli uomini. Per tutta la mia vita, fino a quando ho incontrato Luca, ho sempre oscillato tra il reprimermi per non spaventare e l'angustiarmi perché gli uomini mi trovavano troppo impegnativa. Eppure io sono solo una piccola donna senza nessun potere, mai stata ricca, mai stata in condizioni di nuocere. Figurarsi una regnante, sia pure non proprio assoluta, come Elizabeth. Nel primo film, il suo rapporto con Leicester naufragava perché lui non si sentiva alla sua altezza e arrivava a tradirla nel più profondo dei suoi affetti, ovvero la politica; se non ricordo male, questo corrisponde più o meno a verità storica. Nel secondo film, c'è una scena emblematica di come sono le donne come me: lei scopre che l'avventuriero da cui è attratta vuole tornare in America, per diversi anni, e la cosa la sconvolge. Lo convoca per parlarne con lui ed è evidente che lei è sconvolta, isterica perché addolorata, sull'orlo delle lacrime. C'è un momento di silenzio. Lui sarebbe tentato di confortarla, di rivolgerle un gesto di tenerezza, e accenna a muoversi verso di lei con questa intenzione. Ma lei, che ha le mani sulla faccia e quindi non può vederlo, stronca sul nascere questo moto, dicendogli con durezza che gli vieta di partire perché l'Inghilterra ha bisogno di lui. E lui si congela: niente tenerezza, niente comunicazione, lei si è irrigidita e lui non prova nemmeno a far breccia. E invece io, che in quella situazione mi trovo spesso, so che lei in quel momento avrebbe proprio avuto bisogno di un abbraccio e di un po' di dolcezza, lei che non se ne concede neanche con se stessa.
No, nemmeno io ho trovato un uomo che mi dia dolcezza anche quando sono arrabbiata con lui. Ma almeno ne ho trovato uno che, invece di andarsi a scopare una più docile di me, ha le palle di restare e tenermi testa. Beh, è vero anche che io non ho il potere di rinchiuderlo nella Torre di Londra e fargli tagliare la testa.
Se non avessi incontrato Luca o uno come lui (che però son sempre stati pochi), probabilmente anch'io avrei preferito rimanermene single nel mio monolocale del centro. Probabilmente anch'io avrei guardato tutti i miei coetanei che si sposavano e figliavano, e non avrei saputo se invidiarli o compatirli. Probabilmente anch'io avrei visto troppo spesso gli uomini che mi interessavano passare oltre per mettersi con una meno impegnativa di me.
Per fortuna non sono una regina e ho potuto scavare nel fango alla ricerca del mio diamante grezzo, che mi tengo stretto.

mercoledì 23 dicembre 2009

Merry Christmas, turco!

Oggi, siccome i bambini giocavano tutti belli tranquilli e presi nella loro stanza, ho deciso di non aspettare Luca e mi sono messa nel lettore un DVD comprato mesi fa, "Il bagno turco". Si tratta di uno dei primi film di Ozpetek, se non il primo in assoluto.
Io di questo film possiedo la colonna sonora ormai da anni, è uno dei miei CD preferiti in assoluto. Ma non l'avevo mai visto prima: avevo solo una vaga infarinatura sulla trama di un tizio che va a Istanbul per vendere un appartamento ricevuto in eredità e scopre di essere omosessuale. Tanto per banalizzare un pochino.
Il film, in sé, non è un capolavoro. Non dimentichiamo che è vecchio di quasi 15 anni (ma ci pensate che spesso nel film si ripete che "gli hamam sono passati di moda"?) e che è un'opera prima. Non è nemmeno brutto, anzi, è godibile.
A vederlo oggi per la prima volta, sembra infarcito di stereotipi come la coppia acida e indifferente perché entrambi lavorano troppo e sono troppo presi dalla loro vita, la scoperta dell'omosessualità come equivalente della scoperta dell'autenticità dei rapporti, la valorizzazione di un mondo più arcaico ma genuino, eccetera. Ma poi ti chiedi se alcuni di questi non siano diventati stereotipi dopo, anche a causa della ripetizione dello stesso concetto ad opera dello stesso regista (penso all'omosessualità di Massimo nelle "Fate ignoranti").
Ma questi sono dettagli. Per chi, come me, è innamorato di Istanbul e la ritiene la vera protagonista del film.
Ho passato parte del mio viaggio di nozze a Istanbul. Me ne sono innamorata subito, al primo colpo. Mi sono innamorata sì delle sue bellezze turistiche (una Roma ma senza la pesantezza del barocco romano, una meraviglia!) ma soprattutto del suo modo di essere: una sintesi perfetta tra Europa e Asia, una capitale vitale ma non frenetica, positiva. Mi sono piaciuti molto i turchi con cui sono entrata in contatto, c'è stata subito sintonia perché mi ricordavano le cose migliori dei lombardi mescolate alle cose migliori del Mediterraneo: efficienti ma non ossessionati, cordiali ma non soffocanti.
Spesso, quando io e Luca sogniamo una vita migliore, il mio pensiero va a un caseificio in Turchia, patria dello yogurt. Scartiamo l'ipotesi solo per via della lingua, che credo sia al di sopra delle nostre possibilità.
Ma, se una zia sconosciuta mi lasciasse in eredità un hamam in pieno centro di Istanbul (in un quartiere che purtroppo ho visitato solo di straforo, e mentre ero troppo stanca), non avrei dubbi sul da farsi: gambe in spalla e via sul primo volo. Il guaio è che i miei soli parenti sconosciuti stanno in Argentina e con ogni probabilità, morendo, mi lascerebbero solo debiti.
Ed ora mi è rimasta appiccicata addosso questa nostalgia di un posto in cui sono stata per pochi giorni, ma che mi è entrato tanto nel cuore. Forse anche perché ero nella mia camera d'albergo dietro la Moschea Blu quando ho sentito Amelia muoversi per la prima volta. O forse perché il vento di Istanbul mi ha accarezzata e accolta dopo il caldo terribile di Bodrum, e gliene sono stata grata. O forse perché ci sono posti che, anche se non ci restiamo tanto tempo, riconosciamo come nostri, e ci lasciamo un pezzetto di anima.

sabato 19 dicembre 2009

Bozzolo narrativo

Non sono stati giorni meravigliosi, questi ultimi, diciamolo. Oltre ad aver perso 3 giorni di lavoro e una recita di Amelia, ho pulito (in collaborazione con Luca, che anche lui non si fa mancare niente) emissioni varie, ho emesso anch'io e mi sono saltata almeno un giro a cui tenevo (ovvero quello a Genova, al mercatino di San Nicola, dove, tra le altre cose, volevo incontrare di nuovo Maddalena e famiglia).
Però almeno due lati positivi ci sono stati: ho lavorato tanto alla serie di Viola (il fatto che Viola 0 cominci ad essere disegnata tra 6 mesi almeno e che non ci sia ancora un editore all'orizzonte è un mero dettaglio) e ho letto i due romanzi di Christine Von Borries consigliati da una strega e ordinati venerdì scorso.
Entrambe le attività mi hanno dato una bella soddisfazione (anche perché possono essere agevolmente esercitate mentre si è seduti sul water, a differenza di tante altre).
La serie di Viola sta assumendo la fisionomia della miniserie. Mentre in un primo tempo, ingenuamente, avevo pensato a una serie continua, tipo Dago (anche se, col senno di poi, penso che Dago avrebbe guadagnato molto dall'essere una miniserie di diciamo 24 albi) o Dampyr, adesso, pur lasciando una porta aperta a un'eventuale continuazione, ho deciso di concludere in 12 albi. La differenza è una maggiore concentrazione della continuity, ovvero tutte le macrotrame narrative vanno "a posto": il rapporto con il faccendiere francese, la questione dei genitori di Viola, la storia tra Stefan e Chiara. Rispetto a una miniserie più canonica, l'apertura consiste nel fatto che ci sono anche dei punti di partenza, su cui costruire in caso si volesse continuare. Il modello, scopertamente, è Nemrod, anche se le tematiche e i toni sono completamente (ma proprio completamente) diversi. Insomma: sono molto soddisfatta di questa interpretazione, anche se mi resta ancora un buon 30% da scrivere (parlo ovviamente dei soggetti, ché poi le sceneggiature saranno tutte un'altra storia).
Mi sono un po' distratta dalla revisione della sceneggiatura di Viola 0, ma avrò 6 mesi per farle le pulci e a volte è bene lasciare lì le cose a riposare (come l'impasto dei biscotti, insomma).
Anche i libri della Von Borries mi hanno dato una bella soddisfazione. L'unica delusione è un po' legata alla figura di Taddei, l'agente operativo di cui la protagonista, Irene Bettini, si innamora ricambiata: sembra un po' lo stereotipo romantico dell'agente segreto da romanzo rosa. Insomma, Le Carré ci ripete da 50 anni che la spia più brava è quella che passa inosservata, l'omino insignificante che reputi innocuo, e la Von Borries si inventa questa figura di agente segreto fascinoso, cavaliere senza macchia né paura in un mondo corrotto, che magicamente si innamora proprio dell'unica persona di cui poi potrà fidarsi... troppo inverosimile, dal mio punto di vista. Perdipiù, costui è sposato ma alla fine del primo romanzo si ritrova magicamente sciolto sia dal punto di vista civile sia da quello morale. Troppo bello.
L'aspetto positivo, invece, è che Irene Bettini è molto simile alla mia seconda versione di Viola: laureata in lettere senza prospettive, ha fatto il concorso per entrare nell'archivio del SISDE con lo stesso spirito con cui io ho fatto il mio master. Come me, si è progressivamente appassionata all'informatica e ne ha fatto il suo punto di forza. A differenza di me, ha fatto presto carriera in archivio. E qui cominciano i punti di contatto con Viola: Irene non è un'operativa ma si occupa di informazioni, è a contatto con gli operativi ma li considera un altro mondo, ha un contatto molto forte con la vita delle persone "normali".
Di Irene, mi piace molto anche il genere di considerazioni che fa sul proprio lavoro: da statale, mi ritrovo molto nel suo modo di vedere una struttura pubblica da dentro e di osservare i rapporti di lavoro in termini di gerarchie e convenienze. Insomma, direi che è una visione completamente diversa rispetto a quella a cui ci hanno abituati 007 e Alias: pochissimo eroismo, almeno nelle premesse, e molta burocrazia da scavalcare.
Poi, ovviamente, non sarebbero romanzi di genere senza una buona dose di azione. Lì un pochino mi casca di nuovo l'asino, soprattutto nel secondo, perché Irene, a quel punto addestrata per essere un'operativa, fa delle cazzate che non farei neanche io, che sono la persona meno qualificata per fare l'agente segreto (segretezza? diplomazia? pericolo? gastrite garantita in meno di una settimana). Però, nonostante alcune ingenuità, il patto di sospensione del giudizio tiene e ci si diverte.
In questi giorni in cui mi sono sentita più un'ameba che un essere umano, questo mondo narrativo, mio e altrui, mi ha coccolata e cullata come le fiabe della buonanotte di quando ero bambina. Non riesco a immaginare che ci siano persone che provano repulsione verso la lettura, perché per me la narrativa è un vizio più che un piacere, un elemento che non riuscirei ad eliminare dalla mia vita nemmeno se mi dicessero che è cancerogena. Una vita senza narrativa non è degna di essere vissuta.
Ma questo è tutto un altro post, che non mancherò di scrivere, prima o poi.

martedì 15 dicembre 2009

Vive la différence?

Ultimamente, in molti aspetti della mia vita, mi scontro col fatto di non essere e non fare come la maggioranza. Con il risultato di sembrare alternativa, snob, new age, femminista e sa Dio chissà quante altre cose.
Per esempio: la maggior parte dei miei conoscenti guarda la TV mentre mangia? E io ho appena rifatto la cucina, senza prevedere che si possa guardare la TV (che peraltro potevo guardare mentre mangiavo, nella vecchia cucina). Sembra la classica scelta da retrograda anti comunicazione di massa, no? No. È semplicemente che la TV era l'unico ostacolo all'attuale disposizione della cucina, che per il resto è comodissima sia per cucinare sia per mangiare sia per mettere via la spesa. Quindi abbiamo ranzato la TV, sapendo che, in caso di desiderio, avremmo potuto mangiare in salotto, al tavolo basso dei bambini (e a volte lo facciamo per le colazioni festive).
Oppure, altro esempio: non conosco la statistica esatta, ma mi sembra che più di un italiano su 2 non legga proprio neanche un libro all'anno. Non voglio parlare di me, che sono il ritratto della classica persona che ama leggere (donna, liceo classico, laurea in lettere, ecc.), ma piuttosto delle persone che vedo intorno a me: i miei amici, i miei colleghi dei vari luoghi di lavoro, la mia famiglia, mio marito, la famiglia di mio marito, tutta la gente che sta su Anobii... Certo, conosco gente che non legge, ma tra le mie conoscenze sono in netta minoranza. Eppure non posso negare i dati AIE, che fotografano una situazione ben diversa.
Con queste premesse, quindi, non mi sento di certo in diritto di parlare di soluzioni attuabili per tutta l'Italia, perché mi rendo conto di far parte di un'élite. Un'élite inconsapevole di esserlo, che crede che tutti gli altri siano già al suo livello di consapevolezza e di cultura.
Ecco perché, dopo quasi un anno passato a parlare di soluzioni per conciliare maternità e lavoro, per diventare un Paese al livello della Francia o della Svezia, mi rendo conto che questo non sarà probabilmente possibile in questa generazione. Spero nella prossima, ovvero quella dei miei figli, ma temo che nemmeno i miei nipoti vedranno un'Italia emancipata, se nessuno al governo si dà una mossa per promuovere veramente le pari opportunità (invece di usare quel ministero per dare uno stipendio a vallette in pensione).
L'illuminazione me l'ha data un post di Veremamme, in cui Flavia parla del fatto per cui oggi, in Italia, una donna che aspira ad avere una carriera viene spesso costretta a sacrificare la famiglia e viceversa. Flavia parla di come le donne siano quelle che più di frequente riducono mole o prestigio del lavoro, cercando una flessibilità più vicina alle esigenze della famiglia, oppure si trovino ad abbandonare del tutto il lavoro, per dedicarsi alla famiglia (cosa che in Italia significa condannarsi alla disoccupazione, mentre su mercati più dinamici può essere semplicemente una pausa dal mondo del lavoro). E questo, a differenza di quanto capita in altri Paesi, causa un arresto inevitabile della carriera, valore che Flavia rivendica come positivo (in contrapposizione all'accezione negativa che molti danno a questo termine, confondendolo con il carrierismo).
Il fatto, però, è che non tutte le persone hanno una carriera, né possono aspirare ad averla. Parlo delle segretarie (ricordiamoci che anch'io appartengo alla categoria, prima di eventualmente offenderci), delle donne delle pulizie, delle operaie in grandi o piccole aziende, delle persone a cui spetta il lavoro manuale e di scarso valore intellettuale. Parlo anche di operai, muratori, bidelli, tecnici, insegnanti. E parlo anche di tutte le persone che fanno un qualsiasi lavoro senza avere né doti né passione, ma solo il desiderio di trovare un mezzo di sostentamento.
Per queste persone non ha senso parlare di downshifting: avrebbe solo senso parlare di paternità obbligatoria e di pari diritti, in modo che non si crei quel meccanismo per cui la moglie lascia un lavoro che non ama per stare a casa con i bambini (e non le sembra di aver fatto un sacrificio), mentre il marito evita le camurrie della collaborazione domestica per guadagnare il pane per tutta la famiglia. Ma siamo sicuri che non si creerebbe comunque? Chi, avendo pochi mezzi sia materiali sia intellettuali, non sarebbe contenta di essere mantenuta nella sua calda famiglia, a fare quello che comunque farebbe oltre al lavoro? Chi non sarebbe contento di lavorare magari anche duramente, ma a fronte del fatto di poter tornare a casa, sbracarsi sul divano e non dover più pensare a niente? Quante volte abbiamo sentito qualche lavoratrice definire le casalinghe come "quelle che stanno a casa a far niente"? Io l'ho fatto spesso.
Certo, non lo faccio con Claudia de La casa nella prateria né con la mia amica C. o con la mia amica A., perché so che hanno fatto una scelta consapevole e meditata, e sicuramente non sono le classiche casalinghe che, una volta lucidati tutti i pavimenti, sono in preda all'isteria perché non sanno cosa fare.
L'ho fatto e lo faccio con persone che rappresentano lo stereotipo peggiore della casalinga, quella il cui massimo fermento culturale è guardare la Prova del Cuoco (lo guardavo anch'io, beninteso, ma per me era uno svuotacervello, un divertimento non certo di alto livello intellettuale). Di solito costoro sono sposate a uomini del loro stesso livello (che magari fanno anche i bancari o professionisti, non crediamo che l'ignoranza sia appannaggio solo dei poveri - io non sono certo ricca).
Se davvero più di mezza Italia non legge, immagino che questo genere di persone rientri nella categoria di quelli che leggono solo l'elenco telefonico. Saranno anche di quelli che votano a destra, guardano la TV generalista e altre nefandezze del genere? Spero non tutto insieme, perché è troppa atrocità per essere verosimile. Comunque, questo è il sostrato su cui dovrebbe attecchire una rivoluzione culturale basata sulle pari opportunità, sull'elogio della qualità del lavoro e della flessibilità, sulla valorizzazione della donna come soggetto e non oggetto.
Io, purtroppo, temo che non sia possibile cambiare la mentalità di un Paese simile solo con le iniziative culturali, solo parlandone tra di noi su Internet. Forse nemmeno parlandone con le istituzioni, se le istituzioni non muovono un capello.
Per dare una svolta a un Paese come il nostro, ci vogliono iniziative forti dal punto di vista istituzionale. Ci vorrebbe una legge sulla paternità obbligatoria, sull'esempio di altri Paesi, dove la madre non viene lasciata sola per tutto il giorno dal padre che lavora, ma viene affiancata per il primo periodo del puerperio (e al primo che mi dice che non ha senso chiedo: vi pare che il congedo matrimoniale abbia più senso? Hai la facoltà di restare a casa 15 giorni non per un'esigenza reale della tua famiglia, ma per andare in viaggio di nozze). Basterebbe in realtà che il governo costringesse tutte le associazioni di categoria a recepire integralmente in testo unico sulla maternità del 2001, per esempio.
Perché siamo a questo livello: mentre una élite, di cui faccio parte, parla di parità e di non sacrificare né carriera né famiglia, mio marito ha un contratto che non prevede il congedo parentale al 30% e sarà già una grande innovazione che dall'anno prossimo si prevedano ben 10 giorni fruibili in questo senso. Saremmo così tranquilli se la stessa cosa succedesse con il diritto di assentarsi per malattia? Non credo proprio. E questo ci dà il polso della situazione che dobbiamo cambiare.

lunedì 14 dicembre 2009

Pedagogia di famiglia

Leggendo i blog e i libri dedicati alla pedagogia, spesso trovo idee intelligenti e interessanti riguardo piccole cose che aiutano a impostare un certo tipo di rapporto con i bambini.
Per esempio, mi piace molto l'idea di chiedere e dire che cosa ci è piaciuto di più nella giornata. Forse mi piace di più se applicato alla coppia che ai bambini: ci costringe a pensare a qualcosa di bello a positivo.
Oppure, mi piace il rito che io ed Amelia abbiamo costruito per questo Natale, questa specie di calendario dell'avvento fatto di storie.
Oppure ancora, mi piacerebbe inaugurare l'anno nuovo con un calendario da disegnare (magari non mentre è appeso al muro, ché abbiamo appena imbiancato). Siccome ho la manualità e la pigrizia di un bradipo morto, pensavo di stampare la griglia su un foglio A3, anziché mettermi a tirare io le righe.
Mi rendo conto, però, che spesso queste iniziative "sistematiche" vengono da me, e non da Luca. Luca è capace di cogliere l'occasione di una certa giornata o di una certa attività per far vedere ai bambini cose belle e interessanti, ma non ha la costanza di prefissarsi un'attività "fissa" e rispettarla. Oppure, se se la prefissa, non ha l'elasticità di lasciar perdere se proprio non è il caso e quindi ci resta male.
Quindi Luca non capisce perché a me piaccia creare queste abitudini, e non mi supporta. Del tipo: non è che, se io mi dimentico del momento della cosa più bella del giorno o della storia, lui cerca di ricordarmelo. Per la storia non ci sono più di tanti problemi: me la ricorda Amelia, perché le piace molto.
Ma tutto il resto spesso resta lì in sospeso perché io sola non ho la forza e il tempo di spingere perché i bambini almeno ne capiscano il meccanismo (e possano volerlo trasformare in abitudine, com'è successo per le storie di Natale).
Più in generale, Luca vive a testa bassa, lottando contro il tempo per fare cose (non per averle, attenzione) e senza chiedermi mai niente di "non operativo". Spesso ho l'impressione, con tutti i miei difetti e la mia pigrizia, di essere io il pilastro affettivo della famiglia. Lui è quello operativo, e funziona molto bene. Ma sono io quella (probabilmente rompicoglioni per una certa visione) che fa domande, si preoccupa che lui stia bene, si angustia perché lui non sembra manifestare abbastanza affetto ai bambini (soprattutto quando erano piccoli e poco interattivi).
Se fosse per lui, andremmo avanti come treni, senza sollevare la testa, senza farci domande su aspetti "non pratici" delle nostre vite. È un'immagine che, nei momenti di umore più cupo, mi porta a figurarmi certe scene di famiglie al collasso, dove tutti i componenti mangiano alla stessa tavola ma sono estranei.
O forse no, forse Luca è così perché sa che già ci sono io a riflettere, a buttare lì idee, a curare l'aspetto meno materiale delle nostre vite. Forse è un gioco delle parti, che però a volte mi pesa. A volte vorrei fare cambio, dirgli: OK, vado io al sindacato per gli assegni familiari o dall'elettrauto per la Palio, ma tu occupati di quello che c'è da fare perché la tua famiglia sia felice.
E la beffa è anche che, quando si deve occupare dei bambini, lo fa meglio di me: inventa giochi divertenti, è bravo nelle attività artistiche, suona diversi strumenti, sta più volentieri di me all'aperto. Se minimamente gli interessasse inserire il suo rapporto con i figli in un progetto più organico, lo potrebbe fare meglio di me. E forse è anche meglio così, perché io rappresento l'organizzazione e lui la spontaneità.

sabato 12 dicembre 2009

Leggerezza

Nei giorni scorsi ho pensato che avrei potuto parlare di tante cose: del freddo che stringe il cuore a sentire i fatti di Pistoia, della lettera di Celli a suo figlio, del fatto che adesso sembra che tutti gli uomini desiderino i trans (non ci credo, altrimenti ci saremmo già estinti da un pezzo). Ma me ne mancava la voglia. In questi giorni, è come se tutto mi scivolasse addosso. Istinto di sopravvivenza? Indifferenza? Egoismo? Non lo so.
So che sto passando dei bei giorni con la mia famiglia, che la serie di Viola sta prendendo forma definitiva (anche se so benissimo che, prima, bisognerà realizzare la storia del G8), che ho sentito diverse mie amiche e ci siamo viste e/o accordate per vederci a breve. E non mi interessa di molto altro, a parte cercare di risolvere il fastidioso problema di marcature che le mie gatte continuano a trascinarsi da quando abbiamo cambiato cucina.
Nel senso: ho seguito, per esempio, la vicenda di Pistoia, mi sono arrabbiata e sono stata (molto) turbata dalla descrizione del video famoso che molti invece si sono visti propinare a tradimento dal TG della sera (benedetta la nuova cucina, in cui non si può guardare la TV mentre si è a tavola). Ma non mi sembra di avere nulla da aggiungere, se non quello che ho scritto nei commenti di chi ne è stato forse più colpito di me, al punto di scrivere un post in merito.
E poi, Celli: ma come si fa a scandalizzarsi? Qui in Italia, e lo dico da un punto di vista interno all'università, facciamo fatica a finanziare ricerche utili, mentre negli USA studiano i motivi per cui, se aspetti un autobus per mezz'ora, poi ne passano 5 tutti insieme: è ovvio che un bravo laureato, seppur figlio di un potente, avrà ogni interesse ad andare in un luogo dove viene pagato e valorizzato di più. Io conosco personalmente un medico che è figlio di un primario del S. Matteo di Pavia, ma vive negli Stati Uniti perché lì sono più all'avanguardia, soprattutto nella ricerca: infatti può permettersi di non esercitare come medico e vivere solo di ricerca, cosa impensabile in Italia.
Insomma, non mi sembra che valga la pena di spenderci più parole di quelle che ho appena scritto.
Invece mi sembra che valga moltissimo la pena, in questo periodo, di investire nella mia intimità e nel mio piacere personale. Che non significa: adesso mi chiudo in una stanza e faccio tutto quello che mi pare, fregandomene degli altri.
Significa che in questi giorni, sì, siamo andati all'Artigiano in Fiera a fare shopping e ci siamo trattati fin troppo bene, ma alla fine, a guardar bene, gli acquisti sono stati ben equilibrati tra tutti i membri della famiglia. Ho passato il ponte dell'Immacolata a casa con la mia famiglia, divertendomi a fare biscotti e a guardare Ettore innamorato dei palloncini. Ieri ho girato come una pazza per tutta Pavia alla ricerca (vana, purtroppo) dell'ultima uscita di Greystom e dei libri di Irene Bettini, su segnalazione di una strega. Mercoledì mi sono dedicata a un po' di shopping con mia mamma, cosa che non mi capitava da un secolo, e le ho anche parlato finalmente del progetto di Viola. Domani, se nessuno si ammala all'ultimo, vado a un brunch jazz con una mia amica e famiglia, e poi al Trottoir a festeggiare Diabolik, su segnalazione del mio maestro di sceneggiatura.
E ora mi aspetta una settimana che, per carità, prevede una visita dal dentista (devo rifare un'otturazione) e un giro dall'allergologo, ma anche una recita di Amelia (e pazienza se io mi divertirò meno che dal dentista, l'importante è che lei si diverta), un giro a Genova e un pranzo con i miei cognati. Oltre allo scandaloso fatto che, da venerdì prossimo fino all'Epifania, sarò a casa (e non) con i miei bambini e la mia famiglia.
Non vedo l'ora che venga Natale per vedere la faccia che faranno davanti ai loro regali, non vedo l'ora di partire per la settimana che ci siamo regalati a Levanto. Spero che nessun virus bastardo si intrometta a guastare la festa, perché dovremmo aver già dato nelle settimane scorse (la settimana prima del ponte mi hanno chiamata dall'asilo ben 2 volte perché Amelia stava male, per cause diverse, e la settimana prima ancora è stata all'insegna della suina) e perché spero che il mare ci rinforzi un po'.
Sono questi i soli argomenti a cui sono sensibile, e mi dispiace che il resto del mondo abbia ben altri problemi. Ma lasciatemi nel mio nido caldo e felice ancora per un po', ne ho tanto bisogno.

lunedì 7 dicembre 2009

Core de mamma

Di solito si dice "core de mamma" per indicare la classica figura angelicata della mamma che perdona tutto, pronta a farti un piatto di pasta anche se torni senza avvisare all'una di notte, quella che si sveglia alle 5 del mattino di domenica per farti i tortelli di lepre affumicata che ti piacciono tanto.
Ora, io credo fermamente che questo tipo di madre sia o un parto mitologico della nostra cultura o un soggetto patologico che dovrebbe stare nei testi di psichiatria.
Perché io, di madri così, non ne ho mai incontrate. Ho incontrato donne eccezionali, le cui gesta come madri io non eguaglierei neanche in 1000 vite, ma nessuna con questo proverbiale cuore di burro. Perché? Perché il lavoro di madre è un continuo indurimento del cuore. Essere madre è come portare il cilicio: nei primi tempi sanguini, ma poi ti viene una pelle che neanche un elefante.
E questo, sgombriamo il campo da equivoci, avviene sia che tu sia una madre tradizionale sia che tu segua l'Attachment Parenting: i motivi di indurimento saranno differenti, ma ci sono in entrambi i casi.
Appena il tuo primo figlio nasce, comincia tra te e lui una battaglia (spesso inconscia) per la sopravvivenza di entrambi: lui chiede sempre di più, tu hai le tue esigenze. Il suo pianto ti è insopportabile, anche se sai che si tratta di niente di grave. Se decidi di evitare il più possibile che pianga, ti ritrovi a inventare accrocchi assurdi per andare in bagno, farti una doccia, cucinare. Se invece decidi di fregartene perché nessuno è mai morto piangendo perché la mamma andava in bagno, devi sopportare il suono del pianto, che non a caso è uno dei suoni a cui siamo più reattivi. In entrambi i casi, ti indurisci, impari sempre di più a sopportare.
Andando avanti, devi porre dei paletti e delle regole: non esiste nessuna "buona" famiglia senza regole, non fosse altro che per la salute dei bambini e la tranquillità degli adulti. La regola può essere che non si gioca con la candeggina oppure che si va a dormire alle otto di sera oppure ancora che si mette a posto quando si finisce di giocare.
Che i figli contestino piangendo o che cerchino di arruffianarsi la mamma con la dolcezza o la simpatia, rimanere fermi nel proprio proposito educativo è difficilissimo. Ci sono momenti in cui ci si scardina la mandibola pur di non scoppiare a ridere davanti a certe facce. E ci sono (tanti) momenti in cui non si avrebbe voglia di impuntarsi o arrabbiarsi, sarebbe molto più comodo lasciar perdere e far finta di niente.
Non oso immaginare, poi, quando arriva l'adolescenza: tu per certi versi saresti disposta a capire, perché ricordi com'era per te, ma devi sostenere il ruolo del genitore. Non sono assolutamente per il genitore autoritario: io e mia mamma spesso eravamo complici, quasi amiche, ma lei comunque manteneva una posizione di genitore e io quella di figlia.
Capisco, a questo punto, perché le nonne poi si abbandonano a ogni genere di nefandezza nel viziare i nipoti: si sono trattenute tutta la vita e adesso vengono completamente esonerate da qualsiasi compito educativo. Che sollievo!
Forse sarebbe più corretto dire: core de nonna. Quella sì che può permettersi il cuore di burro.

venerdì 4 dicembre 2009

Samarcanda

Da qualche giorno, nonostante la mia voce somigli più a quella di una cornacchia che a quella di un uccello canterino, Ettore, per addormentarsi, mi chiede di cantargli "la canzone del cavallo". Il che significa Samarcanda di Vecchioni.
Docile, la canto e la ricanto finché lui non si addormenta. Del resto, spesso Amelia si è già addormentata ascoltando per la seconda/terza volta la storia del giorno.
Non mi dispiace (almeno: finché non mi viene la tosse) perché, anche se Ettore è troppo piccolo per capire, mi sembra che possa assorbire il significato e l'insegnamento della storia, che mi piace molto.
Per chi non l'avesse mai sentita: la storia racconta di un soldato che sta festeggiando la fine della guerra. Tra la folla, vede la Morte e crede che lo stia guardando con malignità. Salta sul cavallo più veloce del re e corre come un pazzo per 2 giorni e 2 notti, cercando di allontanarsi il più possibile. Arriva a Samarcanda (che all'epoca era come dire "in capo al mondo") e trova la Morte che lo aspetta sulla porta della città. La Morte gli rivela di averlo guardato non con malignità ma con stupore, perché sapeva di doverlo incontrare 3 giorni dopo a Samarcanda e si chiedeva come ciò sarebbe stato possibile.
La storia ha tante morali, che mi piacciono tutte: insegna a non fermarsi alle apparenze, a non prendere una decisione in preda al panico, a non scappare perché non serve, a non aver paura dell'inevitabile...
Quello che vorrei che mio figlio interiorizzasse è l'incitamento al coraggio. A non fuggire davanti a ciò di cui abbiamo paura, perché spesso non si fa che peggiorare la situazione. Se il soldato, invece di fuggire, avesse affrontato la Morte la prima volta in cui l'ha vista, lei gli avrebbe detto che lo aspettava tra 3 giorni, e lui avrebbe magari passato quei 3 giorni cercando di fare qualcosa di bello e che lo rendesse felice, invece di spaccarsi il sedere su un cavallo al galoppo forzato.
Se avessi un minimo di abilità manuale, penso che farei come all'asilo di Amelia: sceglierei questa storia come filo conduttore del "nostro" anno (a proposito, ve l'avevo detto che quest'anno c'è Dumbo?) e ci ricamerei sopra ballandola, disegnandola, facendone marionette e magari anche un libro come quelli di Claudia.
Se mai avessi delle qualità artistiche, ripeterei questa esperienza con altre storie che non sono più "classiche" (perché Disney non ne ha ricavato dei film): "Pierino e il lupo", "Il lago dei cigni", "L'Uccel Belverde", eccetera.
Ma c'è anche un'altra favola che mi piace tantissimo e che è poco conosciuta in Italia: l'ha scritta Karel Capek, uno scrittore ceco (l'inventore della parola "robot"), e si può trovare in edizione economica Feltrinelli, insieme alle altre. Capek, che non a caso è uno degli autori preferiti di Stefan, mescola nelle sue favole elementi del folklore (l'omino delle acque, che compare anche in Dampyr ma con ben altre connotazioni) con elementi di sua fantasia (gli omini delle poste). Nella storia degli omini delle poste, racconta che questi omini (folletti, spiritelli, qualcosa del genere) giocano a carte con le lettere, e il valore della singola lettera viene dato da quanto è stata scritta con calore e affetto. Un giorno, ne trovano una di valore altissimo, ma con un destinatario molto vago: una lettera quasi impossibile da consegnare. Se ne angustiano e con l'aiuto di un postino cercano di consegnarla ugualmente, riuscendoci.
Forse, quando entrambi i bambini saranno più grandi, riusciremo ugualmente a realizzare questo progetto, perché saranno loro a disegnare e io dovrò solo fornire i supporti.
Per ora, cantiamocela e balliamocela, perché in queste sere, in cui il freddo vero è finalmente arrivato, c'è bisogno di un po' di calore.

mercoledì 2 dicembre 2009

Il patto

Anche grazie al convegno sullo storytelling a cui sono stata a ottobre e alle riflessioni che ne sono scaturite su The Talking Village, mi sono fermata a pensare non tanto all'atto consapevole di narrare, quanto alla narrazione inconsapevole. La narrazione spontanea di tutti i giorni, quella che non riconosciamo come tale: quando raccontiamo perché non siamo passati dall'Esselunga ma dal Despar, quando spieghiamo come facciamo la torta di mele, quando facciamo esempi per rafforzare la nostra argomentazione.
Alcune teorie sostengono che tutto ciò che noi interiorizziamo viene recepito attraverso la narrazione: codici di comportamento, nozioni, persino ragionamenti. Il bambino, per comprendere il mondo, se lo deve "ri-raccontare" nella propria testa, per scomporne la complessità in "storie" alla sua portata.
Anche il blog è una narrazione. A volte, quando è in forma di diario, è più scoperta. Altre volte (penso ai foodblog) usa elementi apparentemente sterili per formare una narrazione di sé o del proprio mondo, della propria passione.
Questo blog è una narrazione basata in parte su momenti pienamente narrativi in parte su riflessioni (che però spesso si rifanno a esempi di vita vissuta o di vita ipotetica, quindi si ricade spesso nella narrazione).
Come tutte le opere di narrativa, questo blog ha un tono (decisamente prosaico, inteso come l'opposto di "eroico") e uno scopo narrativo. In un'opera tradizionale, lo scopo narrativo si identifica comunemente con l'instillare una morale edificante (vedi la fiaba di Cappuccetto Rosso, in tutte le salse, ma anche i Promessi Spori) . Ma lo scopo narrativo, nella letteratura di genere "classica", può essere anche soltanto l'intrattenimento del lettore, che si rivolge ai vari generi sapendo già cosa l'aspetta: chi vuole sognare l'amore sceglie il rosa, chi vuole adrenalina sceglie l'azione. Difficilmente comprerò Julia aspettandomi le stesse emozioni (intese come tipo di emozioni, non come quantità) di Dampyr o Dago.
Credo che anche un post possa, magari con difficoltà in alcuni casi, inserirsi in un genere. Solo che i generi non sono gli stessi della letteratura: credo che siano dati principalmente dal tipo di emozione che suscitano.
Per esempio, se voglio sentirmi coccolata, se voglio rifarmi gli occhi con foto bellissime di una vita felice, andrò a leggere La casa nella prateria. Se ho voglia di parlare un po' di tutto, ma soprattutto di lavoro, in tono leggero e mai cupo, leggerò Veremamme. Se voglio un'analisi lucida e razionale, informazioni precise e ben ragionate, andrò da momatwork.
Sul mio blog "storico", Ilmignolocolprof, si va per farsi due risate e ultimamente per trovare magari anche qualche ricetta (mica è un caso se negli ultimi 6 mesi il mio peso è diventato un segreto di Stato). E su questo, che cosa si viene a cercare? Io ho sempre sperato che questo blog somigliasse a una cucina (non a un salotto: troppo figo) in cui ci si trova intorno al tavolo con una tazza di tè in mano e si discute, magari anche animatamente ma con la certezza di come minimo stimarsi a vicenda.
Il patto di complicità con i miei lettori non è basato sulla provocazione o sulla razionalità, non ci si prende sul serio a tutti i costi ma non si svacca neanche come nell'altro mio blog. Vi racconto fatti della mia vita come spunti di riflessione, non come episodi buffi da cui ricavare una battuta. Vi rendo partecipi delle mie seghe mentali, insomma. Purché voi le prendiate per quello che sono: mie seghe mentali, miei pensieri personali e solo in parte condivisibili, che non vogliono essere né proclami né insegnamenti, se non per me stessa.
Nello stabilire un patto di complicità, è implicita la sospensione del giudizio. Non inteso come "non potete commentare", ma inteso come la disponibilità a credere a priori che ciò che dico è vero. Nelle opere narrative classiche, la sospensione del giudizio e dell'incredulità varia da genere a genere ed è strettamente connessa al concetto di verosimile. Un autore fa cattivo uso del patto di complicità quando crea un mondo narrativo incoerente, le cui regole il lettore non riesce ad accettare come verosimili. In un blog, che cosa significa? Penso che, anche in questo caso, vari molto da blog a blog e dal grado di coinvolgimento della vita personale del blogger. Forse, in un blog, la sospensione del giudizio permette al lettore di non dubitare della veridicità delle affermazioni dell'autore, a meno che questi non si dipinga in una luce talmente perfetta da far sorgere dei dubbi. Il solito discorso della verosimiglianza.
Recentemente, sul blog non-serio, sono stata accusata di "ipocrisia e simulazione", evidentemente perché la persona che ha commentato trova che i fatti che racconto siano eccessivamente inverosimili. Posso capirla, perché nel mio caso spesso la realtà supera la fantasia (tipo: voi avreste mai scritto un racconto su una donna che fa sterilizzare due sole gatte nella sua vita, a distanza di 10 anni l'una dall'altra, e scopre entrambe le volte che entrambe erano già state sterilizzate e poi abbandonate? Quando mia madre me l'ha raccontato, inizialmente ho pensato a uno scherzo). Per assurdo, raccontando la mia vera vita, rischio di apparire inverosimile. Ed è per questo che non giudico (quasi) mai quei blog che paiono di persone perfette che sembrano avere tempo per tutto: devo cercare sempre di distinguere la narrazione dalla realtà.
In questo blog, il patto di complicità mi sembra più facile da mantenere: evito di raccontarvi gli episodi più eccessivi, mi mantengo su un tono medio. Ma ricordatevi sempre che io sono anche quell'altra, quella che pulisce l'ennesimo topo smembrato, si fa una risata con quello stordito di suo marito e poi si mette a discettare di schemi narrativi e verosimiglianza.

martedì 1 dicembre 2009

Cortesie per gli ospiti

Credevo che non fosse necessario, eppure contro gli stupidi anche gli dei lottano invano. Io non sono una divinità, quindi immaginatevi la fatica che faccio.
Speravo che non fosse necessario specificare le regole di comportamento di questo blog, dato che dovrebbero essere quelle che ciascuno dovrebbe rispettare nella vita di tutti i giorni. È vero anche che in un blog si può commentare mettendo solo il proprio nome, magari neanche quello, e il fatto di non doverci mettere la faccia rende audaci molti vigliacchi. A questo punto, mi vien da pensare di essere solo fortunata ad aver trovato commentatori maleducati solo nell'ultimo periodo.
Signori, le regole della casa sono queste:
- questo blog è casa mia, il luogo in cui esprimo le mie opinioni o racconto i fatti miei. Ora, se incontraste per la strada una persona che esprime educatamente la propria opinione riguardo un fatto, non l'aggredireste dando dei giudizi sterili e definitivi su ciò che dice. Quindi, se volete dissentire (e siete invitati a farlo), fatelo costruttivamente.
- questo blog ospita anche persone che sanno conversare civilmente e le cui parole mi interessanto enormemente, sia che esprimano un'opinione sia che raccontino una loro esperienza. Vi chiedo di trattare con rispetto gli altri commentatori e di non innescare polemiche inutili. La discussione, anche accesa, va benissimo. Purché gli argomenti siano costruttivi e non semplici insulti reciproci.
- questo blog parla di persone che fanno parte della mia vita e che mi sono molto care. Queste persone spesso non leggono il blog, o perché non possono farlo (vedi i miei figli) o perché, pur conoscendone l'esistenza, non passano di qui per scelta (vedi i miei genitori). Vi chiedo di portare rispetto anche a loro, soprattutto quando io stessa sono arrabbiata con loro o li critico. Voi conoscete solo la mia campana, e magari suonata in un momento in cui non posso essere obiettiva.
Chiunque trasgredisca queste regole, poco o tanto non importa, non si lamenti se il suo commento verrà cancellato: questo è l'unico strumento che ho per difendermi dai maleducati, e d'ora in poi intendo usarlo.
Ho aperto questa casa al pubblico per poter godere della vostra compagnia, e non per passare il tempo a difendermi dai troll. Non godo né delle polemiche né del tiro al bersaglio. Godo di una conversazione intelligente e civile, i cui termini sono quelli sopra esposti.
Se non accettate queste regole, accomodatevi in casa d'altri: qui di certo non sarete bene accolti.