mercoledì 30 settembre 2009

Pro e contro - il ritorno

Vi avevo raccontato l'inizio qui. Ora vi racconto lo sviluppo e il seguito.
Mi hanno fissato l'incontro con il famigerato dirigente: una persona un po' svanita, tutto sommato piacevole e con un apprezzabile senso di orgoglio verso il proprio lavoro.
Poi sono passata alla responsabile della divisione dove sarei stata destinata. Una persona poco più grande di me, con due figli ancora abbastanza piccoli. Umanamente, l'avrei voluta subito come capa: motivata, piacevole, interessante. Ma ci siamo dette che purtroppo il lavoro che mi stavano proponendo non incontrava le mie esigenze: sono richiesti tanti straordinari in periodi per me cruciali (tipo settembre) e spesso non recuperabili, non è approvato nessun periodo di assenza superiore ai 15 giorni, non c'è intercambiabilità e quindi stare a casa con i figli malati è un problema. Lei ha capito benissimo il mio punto di vista: se avessi voluto un lavoro che mi chiedesse più tempo delle mie 36 ore settimanali, sarei andata a cercare fortuna e gloria a Milano e avrei accettato di lavorare fuori casa per 12, 14 o 16 ore ma con una certa soddisfazione.
Ci siamo lasciate dicendoci che forse chissà, un domani, quando i figli saranno cresciuti...
Oggi mi richiama l'ufficio personale: vogliono sapere com'è andata, mi dicono che, nonostante la mia chiacchierata con la responsabile, il dirigente ha lasciato l'ultima parola a me. Quando si dice la classe. Io metto l'ultima parola, e mi aspetto che mi dicano arrivederci e grazie.
Invece rilanciano: mi potrebbe interessare un posto nella segreteria di presidenza di Medicina? Mi spiegano che avevano quasi combinato il trasferimento di una persona, che poi si è tirata indietro a causa delle responsabilità che avrebbe preso su di sé. Fanno leva sulla mia laurea per giustificare una mia presunta maggiore capacità di gestire le responsabilità. Alludono a una mia possibile soddisfazione personale. Sarò pessimista, ma, quando si fa riferimento a valori astratti parlando di lavoro, io sento sempre puzza di bruciato.
Comunque ho accettato volentieri un appuntamento col preside. E andrò senza pregiudizi, perché il discorso "responsabilità" è comunque delicato: ci sono persone per cui è una responsabilità eccessiva decidere la marca di carta igienica, e io non sono tra queste. Dopotutto, mi sono presa la più grande responsabilità del mondo: ho due figli.

domenica 27 settembre 2009

L'alibi della scuola

Iniziano le scuole e puntualmente si ripetono tutte le riflessioni (e le polemiche) sul tema. Qui non si vuole essere da meno, anche perché il ritorno a scuola di Amelia ha riattivato alcune mie antiche idiosincrasie.
Premessa: l'anno scorso la scuola di Amelia aveva scelto come tema portante dell'anno "Winnie The Pooh e il bosco dei Cento Acri" (in versione Disney, ovviamente). Chi mi conosce sa che l'Orrenda Bestia Gialla mi è meno simpatica delle cimici e persino delle zanzare.
Quest'anno nessuno mi ha ancora detto nulla in via ufficiale, ma da immagini viste qua e là penso che il tema sia Dumbo. Cartone animato (di nuovo) tenero quanto si vuole ma ansiogeno da morire: il distacco dalla mamma, la presa in giro, il sentirsi diversi... sono temi che preferirei trattare io più avanti, soprattutto con una bambina come Amelia, che non è così matura da capirne tutte le sfumature.
E poi essenzialmente mi scoccia che qualcosa, qualsiasi cosa, venga sdoganato dal fatto di essere un cartone animato di Disney: ce ne sono alcuni che approvo (vedi Mulan o La spada nella roccia) e altri che trovo irritanti o addirittura diseducativi (Biancaneve, Lilli e il Vagabondo).
Io capisco che per le maestre sia comodo riferirsi a un universo visivo già definito e quasi universalmente condiviso, ma lo trovo anche abbastanza squallido. Non voglio fare la steineriana, ma perché non ispirarsi semplicemente al mondo delle fiabe, senza passare per forza dai media? Perché non scegliere una bella fiaba popolare, di quelle avvincenti e articolate (vedi Calvino, per dire), e permettere alla fantasia di bambini e insegnanti di scatenarsi nell'illustrazione e magari nella scelta della musica di sottofondo?
Oppure, ipotesi ancora più ardita: perché, ovviamente in collaborazione col maestro di musica, non prendere Pierino e il lupo e illustrarla, come se fosse un cartone animato da realizzare?
Purtroppo sogno, perché penso che tristemente, come notavano già la Gianini Belotti e la Lipperini, la cultura delle maestre d'asilo è generalmente bassina (una delle maestre di Amelia non conosce l'uso del congiuntivo, per dire).
Loro però una giustificazione ce l'hanno, seppure non particolarmente nobile: i figli non sono mica i loro, si punta al massimo risultato col minimo sforzo.
Con la conseguenza che, qualche mese fa, una mamma del nido di Ettore lamentava la generale e totale banalità dell'offerta formativa di scuola e centri estivi. Condivido assolutamente, ma non trovo nemmeno che ci sia da allarmarsi più di tanto.
Prendiamo Amelia: a scuola canta le canzoncine sceme come gli altri, fa i giochi degli altri, impara cose che non mi fanno impazzire. Poi torna a casa e ascolta buona musica, guarda video di danza (oltre ai cartoni, mica siamo l'Accademia della Scala), gioca con le stoffe e con i miei monili, frequenta le persone che frequentiamo noi e si diverte. Per dire: ieri eravamo all'inaugurazione di Metiss'Art e i miei bambini hanno assistito agli spettacoli, hanno giocato nelle sale di danza, hanno mangiato il cibo vegetariano del buffet, hanno applaudito il papà che suonava. Oggi sono rimasti in casa perché ci siamo dedicati a pulizia e cucina, ma oggi pomeriggio ci faremo un giro nel bosco. Se tutto andrà bene, ad Halloween andremo a Triora per vedere come si vive questa festa nella capitale della stregoneria (e per raccogliere ghiande di leccio per Luca).
Lo so che noi siamo dei privilegiati perché abbiamo tempo da dedicare alla famiglia, che io ancora di più sono una privilegiata perché, appena il budget familiare me lo permetterà, prenderò un part-time. Ma dico anche che non si può delegare tutto alla scuola.
Se non ci possiamo permettere il lusso di una scuola con un'offerta interessante, non è tutto perduto: noi siamo i primi insegnanti dei nostri figli. Anche solo fare dei biscotti o una torta con loro può essere formativo. Anche solo fare il minestrone. Si può andare al supermercato e passare tutto in rassegna di corsa (e a volte non se ne può fare a meno), ma anche fermarsi davanti alla pescheria e far vedere ai nostri figli i vari tipi di pesci, scegliere insieme la frutta e la verdura. Si può rinunciare a un pomeriggio davanti alla TV per fare un giro gratis in una cascina o in un bosco o in un parco. Si può essere formativi e interessanti anche solo comprando qualche bottone strano nei mercatini e facendone un forziere del tesoro.
Insomma, l'offerta formativa dei nostri figli siamo noi: non diamo tutta la croce addosso alla scuola, perché la scuola assolve semplicemente al suo compito, ovvero inculcare nozioni. Siamo noi a dover educare i nostri figli, e nessun altro.

giovedì 24 settembre 2009

Incomprensioni tra mamme e non-mamme

Mi capita abbastanza spesso una cosa buffa. Per ogni mamma che mi dice "dopo il mio parto, i miei amici senza figli si sono dileguati", sento una non-mamma che mi dice "dopo aver partorito, le mie amiche neomamme si sono dileguate".
Al MomCamp tanto vituperato da qualcuna (e poi non dite che non vi do indizi), c'era Auro a sollevare questo argomento. Peccato che, in mancanza di tempo e a causa del tono scherzoso, non ci sia stata occasione di un vero confronto.
Vi dico il mio punto di vista.
Sgombriamoci il campo da neomamme che parlano solo di pannolini e da amiche single che vogliono uscire solo per rimorchiare, se no non andiamo da nessuna parte.
Parliamo di due persone sinceramente affezionate, una single e una con famiglia, che vogliono cercare di vedersi.
Partiamo dalla giornata tipo della single (vi parlo della mia esperienza di quando lo ero, OK?): sveglia alle 7.30-8, in ufficio per le 9, esce dall'ufficio tra le 6 e le 7 di sera, magari si va a fare un po' di spesa, happy hour verso le 8, poi magari cinema, poi un bicchiere dopo il cinema oppure direttamente a casa. C'erano diverse varianti per la serata: amici a cena (mai prima delle nove), TV in casa, lezione di danza dopocena, appuntamenti con ragazzi... comunque mai a letto prima di mezzanotte. Le (poche) faccende di casa le sbrigavo in un attimo nei tempi morti.
La giornata tipo della madre di famiglia invece è (sempre dalla mia esperienza): sveglia alle 5.30-6, preparazione dei bambini e colazione, a scuola (loro) per le 7.30-7.40, in ufficio per le 8, fuori dall'ufficio per le 16-16.15, ritiro bambini in due differenti luoghi, casa (che può voler dire giochiamo amabilmente con i bambini, ma più spesso significa ANCHE cucinare, lavare, stendere, riordinare), cena tra le 19 e le 20, preparazione dei bambini tra le 21 e le 21.30, mai a letto dopo le 22-22.30 al massimo.
Capite che come minimo abbiamo fusi orari differenti. Ma immaginiamo che per una sera una dica di sì a una botta di vita e decida di farsi un happy hour senza portarsi dietro la famiglia (perché di happy hour con i figli ne ho fatti eccome).
La tua amica single si presenta taccata, abiti carini e puliti, truccata, magari persino con le unghie laccate. Tu non ti ricordavi neanche più che esistessero i tacchi, i tuoi abiti sono principalmente comodi (anche carini, per carità, ma interessanti come l'elenco telefonico), ti sei truccata senza guardarti allo specchio e le tue unghie vedono lo smalto 3 volte l'anno. E dire che fai danza del ventre, mica sei una che svacca completamente.
Mentre i maschi single presenti fanno il vuoto intorno a te e alla tua amica (che ti soprannominerà "la Scacciacazzi"), lei ordina un mojito e tu? Tu, che un tempo bevevi come un camallo senza vacillare, ordini un aperitivo analcolico, per due motivi: sia perché ti sei disabituata all'alcol sia perché da quando hai avuto il secondo figlio l'alcol ti fa bruciare terribilmente lo stomaco. E magari l'amica pensa pure che hai imboccato la strada della virtù e la vuoi convertire!
A questo punto, se siete sole, sfruttate la serata per chiacchierare dei fatti vostri, e va tutto bene: tu non sei una mamma-e-basta, puoi parlare di libri, fumetti, musica, danza, questioni sentimentali, politica (ma perché rovinare il buonumore della serata?), viaggi, cucina, informatica, pettegolezzi. Ecco, di cinema recente meglio non parlare, e nemmeno troppo di moda, ma non ho amiche del tipo "ma hai visto l'ultima sfilata di Chanel?".
Il problema nasce quando sei in compagnia. Magari la tua amica vuole presentarti uno che le piace o ha colto l'occasione per uscire anche con i colleghi. Invariabilmente, pensando che sia argomento comune, la compagnia attacca a parlare di TV. E, se si parlasse della Prova del Cuoco o di Passepartout, ci staresti ancora dentro. Invece parlano di cose che iniziano quando tu sei nel primo sonno o addirittura stai entrando nel profondo della notte. E tu, come un'ebete, stai lì ad ascoltare cose che non capisci e che non ti interessano.
Un'altra occasione di imbarazzo è la chiusura della serata: verso le dieci, quando tu stai crollando dal sonno (soprattutto se hai ceduto alla vergogna e ti sei presa qualcosa di alcolico), di solito c'è qualcuno che propone di spostarsi da un'altra parte. E tu, per cui l'"altra parte" può essere solo il letto, saluti e te ne vai. Facendo la figura di quella virtuosa, che si preoccupa della famiglia e dei bambini, o della cagacazzo che non si fida a lasciare soli marito e figli per più di un'ora. Assicuri alla tua amica che è tutto OK e torni a casa, cercando di non sbattere contro un platano.
A questo punto, avrai ancora il coraggio di chiamare la tua amica, sapendo di averle fatto fare la figura dell'amica della mummia? Lei di sicuro non ti richiamerà per ripetere l'esperienza.
Se siete veramente amiche e interessate l'una all'altra, vi sentirete via mail e telefono, magari se lavorate vicine farete un pranzo insieme, ma per il resto lei sarà così gentile da aspettare che le tue serate si allunghino. Magari per l'epoca sarà lei ad essere infognata in casa con i suoi bambini piccoli. Ma tu, che ci sei già passata, saprai aspettare.

mercoledì 23 settembre 2009

Pro e contro

Tempo fa, mi fu offerto un posto in biblioteca. Nell'ambito delle biblioteche scientifiche, a due passi da dove lavoro ora. Un posto in cui avrei dovuto imparare tanto, ma che mi sarebbe piaciuto molto. Avrei dovuto rinunciare a passare giugno a casa, ma l'avrei fatto volentieri.
Nulla andò in porto, perché io sono qualificata come amministrativa, mentre per passare alle biblioteche si deve essere tecnici. E passare da amministrativi a tecnici, in questa università, è praticamente impossibile: bisognerebbe che qualcuno volesse passare da tecnico ad amministrativo, il che è un evento raro come il passaggio della cometa di Halley. Delusione.
Ieri vengo convocata dal personale per parlare della mia domanda di qualche mese fa. Arrivo carica ed ottimista, e invece mi viene ribadito che nelle biblioteche mi devo scordare di andarci. E allora? Allora hanno visto che nel mio CV c'è un corso per Manager Didattico e vogliono propormi un trasferimento nella didattica. Bene, dico io, dove? Segreteria studenti. La bolgia infernale che vedevo tutti i giorni davanti alla porta del mio ufficio, quando lavoravo a Multimedia Campus. Rabbrividiamo.
In realtà, entrare nella didattica non mi dispiacerebbe: hai più contatto col pubblico, magari c'è anche la possibilità di fare qualcosa di più. La Segreteria Studenti potrebbe essere un modo per iniziare. E lavorare tanto non mi spaventa, mica ti chiedono di tenere aperto oltre l'orario stabilito.
Poi però cominciano le raccomandazioni: organizzati per le malattie dei figli perché dove vai c'è carenza di personale, mostrati molto volenterosa col dirigente perché lui ha una paura matta delle mamme giovani, scordati di poter star a casa tutta l'estate come hai fatto quest'anno e scordati anche più di 2 settimane di ferie di fila. Il tutto per andare a registrare statini invece che fatture.
Ora sto aspettando che mi chiamino per un colloquio con il dirigente, ma, a meno che non mi si prospetti il lavoro della mia vita (ne dubito), credo che me ne starò dove sono: in una segreteria dove non c'è più carenza di organico, dove faccio tanti sbagli ma ora ho una guida, dove ho un lavoro che non amo ma almeno godo di tutti i benefici per cui sono diventata statale.
Qualcuno mi dirà: eh ma non sei mai contenta. Magari lo stesso ufficio personale farà la stessa osservazione. Se qualcuno me lo farà notare, risponderò che non sono io ad aver chiesto un trasferimento, io ho solo chiesto un cambio di mansioni in una specifica direzione, e non mi è stato concesso nulla di quello che ho chiesto, anzi.
E, anche se solo per una speranza di poche ore, ho incamerato un'altra delusione. Ora vado a sedermi sulla riva del fiume e aspetto la prossima tornata di pensionamenti: magari prima o poi qualche posto in biblioteca si libererà. Nel frattempo, mi godrò i miei benefici da statale e terrò buona la parte di me che non si rassegna.

lunedì 21 settembre 2009

Essere mamma 2.0

Credo di essere una mamma 2.0. Non che me ne vanti, ma credo che, in senso abbastanza largo, la definizione mi calzi: sono mamma, ho 2 blog, una buona fetta delle mie relazioni sociali avviene tramite e-mail o blog, sto più su Internet che davanti alla TV (il che, in certi giorni e magari per settimane, significa che la TV manco la guardo da spenta).
Insomma, sono una mamma 2.0 come sono una mamma lavoratrice, una trent(atre)enne sposata o una donna che vive in campagna. Penso di avere punti di contatto con altre mamme 2.0, ma non mi sento obbligata a frequentarle, sia online sia offline.
Tant'è che, se guardate la colonna dei link (e se poteste vedere i miei preferiti), ci troverete amiche single, amiche sposate ma senza figli, amiche con figli ma senza marito, amici padri e non. Mi rendo conto che, nella vita reale, sono più portata a incontrare persone con figli, ma più che altro perché ho sempre il sospetto che quelle senza figli si stufino di stare con i miei bambini dopo un po' (io nei loro panni mi stuferei). Infatti ho immensa stima dei miei amici e parenti che, pur non avendo figli, si divertono a stare con i miei.
Non penso che aver figliato mi abbia resa una dea (almeno, non la dea della bellezza), ma non penso neanche che sia una cazzata. Per me, decidere di avere la prima figlia è stato come buttarmi da un dirupo e ogni giorno mi stupisco delle trasformazioni che i figli hanno portato nella mia vita.
Avere dei bambini mi ha messa davanti a questioni che prima non avrei mai esaminato, mi costringe a fare i conti con problemi e ostacoli sempre nuovi, mi fa provare sentimenti inaspettati (nel bene e nel male). Ne scrivo, ma nessuno di voi è obbligato a leggermi: giuro che non mi offendo. Certo, mi fa piacere se qualcuno commenta, perché dopo un po' parlare da sola è alienante persino per una come me.
Ne scrivo perché da sempre scrivo, e non solo diari. Questo è ciò che amo fare nel tempo libero, a parte danzare e leggere, e con questo ho riempito le mie gravidanze, anziché ricamare bavaglini o sferruzzare copertine.
Non è invece a causa dei bambini che ho deposto il mio lato (mai troppo) trendy e modaiolo, ma semplicemente a causa del fatto che i deliziosi stivali di Nebuloni col tacco a stiletto non sono il massimo per percorrere un cortile fangoso che separa la mia porta dalla macchina. E poi sono ingrassata a causa dei formaggi di mio marito e quindi addio ai graziosi tailleur di quando ero single. Tanto a una segretaria non serve il tailleur.
Ecco, forse anche il lavoro mi rende una mamma 2.0: siamo in tante ad essere state trombate dalla maternità, sul lavoro. Ma è anche vero che ci sono mamme 2.0 che il lavoro lo devono al web, le cui potenzialità hanno saputo sfruttare al meglio.
Insomma, io sono qui e non obbligo nessuno a venire a leggermi. Leggo e commento un po' di persone, le più disparate. Quelle che non mi piacciono le evito. Se mai venissero a rompermi le scatole a casa mia, le bannerei. Cerco sempre di comportarmi bene quando esprimo le mie idee a casa d'altri, di smorzare i toni anche se sto prendendo fuoco. Ma non sono neanche inutilmente ipocrita o cerimoniosa.
Sono così anche nella vita, e mi rendo conto che, sulla base delle esperienze di chi mi incontra, posso apparire troppo diretta o giustamente sincera.
Penso però che mai mai MAI potrei essere offensiva di proposito e sputare veleno su ciò di cui faccio parte o che mi dà opportunità di lavoro. Perché qualcuno ti osannerà come provocatore, ma io penso che sia solo cattivo gusto e ricerca di pubblicità. Motivo per cui non linkerò ciò che mi sono trovata a leggere oggi.

mercoledì 16 settembre 2009

Non c'è più religione (in questa casa)

Sarà il rientro a scuola, saranno le polemiche delle settimane precedenti: in questo periodo mi trovo a sentir parlare di IRC (insegnamento della religione cattolica) più di quanto io possa sopportare.
Premetto che per me c'è un'unica soluzione sostenibile: scegliere di non avvalersi e tirarsi fuori da qualsiasi altra questione. L'insegnante di IRC può contribuire alla bocciatura di un alunno? Non mi interessa. Gli insegnanti hanno difficoltà a organizzare l'ora alternativa all'IRC? Affari loro. Sarebbe intellettualmente più onesto fare un'ora di storia delle religioni? Sono d'accordo: quando ci si deciderà a introdurla, e credo non sarà facoltativa, vigilerò affinché non sia IRC sotto mentite spoglie.
Per ora, la MIA soluzione è che mia figlia se ne stia con una delle maestre e con gli altri suoi amichetti miscredenti intanto che in classe gli altri bambini fanno IRC. Per fortuna non ho subito pressioni in direzione contraria, altrimenti sì che mi sarei sentita tirata dentro e avrei fatto scoppiare l'inferno.
Sento invece persone che, pur avendo deciso di non avvalersi, polemizzano o comunque cercano un confronto su questo argomento. E non parliamo poi dei genitori che vengono colpevolizzati e manipolati fino al punto di convincersi ad avvalersi.
Il punto è che spesso gli italiani non cattolici o almeno non cattolici "mainstream" hanno un conto ancora aperto con la religione: chi ce l'ha con l'inadeguatezza della Chiesa di fronte ai grandi problemi di oggi, chi ha patito l'ipocrisia dell'ambiente dell'oratorio, chi è convinto che i preti siano tutti pedofili, chi ha un'ideologia che lo porta a pensare che la religione sia l'oppio dei popoli.
Io, finché la religione non mi attacca, non ho niente contro di lei. Contro nessuna religione, a dire il vero, perché mi sembrano tutte ugualmente assurde. Senza offesa per chi ci crede, per carità: a loro sembra assurdo che io non creda in nulla, quindi siamo pari.
Io mi arrabbio con la religione quando vuole introdursi proditoriamente nella vita civile e politica, e imporre a me, atea, schemi mentali che non condivido. Mi arrabbio con la religione quando suggerisce che non ci possa essere un'etica al di fuori di quella religiosa. Mi arrabbio con le religioni quando litigano tra loro, lasciando sul campo morti e feriti anche solo virtuali. Ma, più che con le religioni, in questi casi mi arrabbio con i religiosi che le strumentalizzano.
Sarà che il mio passato religioso non è né ingombrante né imbarazzante. Ho avuto un'educazione religiosa come quella di quasi tutti i bambini di provincia della mia età: battesimo, comunione, cresima. Già alle elementari ricordo un periodo di dubbio forte, ma ovviamente me lo fugarono dicendo che ero troppo piccola per capire. Per un periodo, sempre alle elementari, mi innamorai della storia di Santa Chiara (complice un libro delle Paoline) e desiderai diventare monaca.
Ho avuto la fortuna di incontrare preti meravigliosi, da don Giuseppe Ubicini che mi battezzò a don Anselmo che mi vide in chiesa per le ultime volte.
A 14 anni avvenne la mia conversione all'ateismo: nella mia mente risultò chiaro che nulla poteva esistere dopo la morte e che credere o non credere in Dio non avrebbe fatto gran differenza ai fini della mia vita spirituale. Quindi smisi di credere. Mezzo dramma da parte di mia madre, ma all'epoca mia madre tendeva ad essere un po' esagerata quando si parlava di religione.
Solo in un altro momento la religione mi mandò in crisi: quando avrei dovuto sposarmi col mio fidanzato più vecchio di 14 anni. Lui era cattolico e ci teneva al matrimonio religioso. Io ero formalmente cattolica (ero arrivata fino alla cresima) e quindi il matrimonio sarebbe stato un normale matrimonio tra due cattolici. La mia coscienza mi rimordeva, non potevo accettare di dichiarare qualcosa che sarebbe stato falso. Ma poi il matrimonio andò a monte e io ebbi l'intelligenza e la fortuna di cercare un altro miscredente come me, per metter su famiglia.
La mia famiglia vive il proprio ateismo con serenità e con rispetto nei confronti di chi è religioso. Nella nostra famiglia non ci sono simboli religiosi, non si parla di trascendente. Si parla di quello che è giusto o sbagliato, ma senza giustificarlo con concetti esterni alla vita pratica: la nostra è un'etica basata sull'antropologia e sull'etologia, al massimo con qualche concessione alla consuetudine. Se Amelia venisse a chiedermi perché la maggior parte dei suoi amichetti fa IRC e lei no, le spiegherei che i suoi amichetti sono cristiani, quelli che vanno a pregare nelle chiese, mentre noi non crediamo in quelle cose e quindi nelle chiese andiamo solo a guardare le cose belle. Se mai mi accorgerò del fascino di feste come quella di comunione o di cresima, ne organizzerò di equivalenti, cercando di spiegare loro che per fare festa non c'è bisogno di un pretesto religioso, ma solo di averne voglia.
Forse ci sarà un giorno in cui ai miei figli verrà voglia di credere. Non vi nego che quel giorno avrò la morte nel cuore, perché per me la religione è comunque una prigione della ragione. Probabilmente mi arrabbierò e non credo che fingerò che per me sia uguale: un genitore ha il diritto di manifestare i propri sentimenti, non siamo robot.
Spero che, qualsiasi strada scelgano di seguire, la percorrano con correttezza e sincerità, e non perché un sostituto procuratore ateo o un medico non obiettore hanno meno possibilità di carriera o perché il/la loro compagno/a gliel'ha imposto. Spero che, qualsiasi cosa scelgano di essere, questa non faccia a pugni con i valori che cerco di praticare e insegnare col mio esempio. Ma spero soprattutto che scoprano che grandissima camurria è fare il percorso cattolico (catechismo, sacramenti, ritiri) senza crederci e mi ringrazino per averglielo risparmiato a suo tempo.

venerdì 11 settembre 2009

Tempi duri

Da quando ha perso i soldi del porcellino in Borsa, la nostra feudataria ha sempre in bocca la profezia su "tempi duri" che stanno per venire. Oggi trovo una spiegazione di questo pessimismo in un commento di Raperonzolo a un suo bellissimo post.
Siamo in un tempo che non crede al proprio futuro. Non abbiamo fiducia nella nostra capacità di riprenderci in mano le nostre vite e quella del pianeta, non crediamo di poter cambiare ciò che non ci va. Abbiamo perso la speranza e spesso ci affidiamo alla fede. O alla disperazione.
E allora la reazione qual è? Una contrazione in noi stessi? Una grossa stretta di denti? Berlusconi e Tremonti hanno sposato questa ipotesi: teniamo duro e aiutiamo le aziende finché non passa la bonaccia e si può ricominciare a navigare. E se invece non si muovesse niente? Se ci fosse bisogno di interventi e non di astensionismo per rimettere in moto l'economia e la società?
A me sembra che l'immobilismo, il letargo per così dire, siano lussi che si può permettere solo chi appartiene al ceto della mia feudataria: smetto di fare qualsiasi cosa e vivo delle mie riserve, tanto ne ho in eterno.
Peccato che non tutti abbiano riserve eterne. Né in campo economico né in campo socio-culturale.
E, per fortuna, questi tempi duri di cui tanto si parla non sono quelli vissuti dai miei nonni, né le cacce alle streghe del '600. Stiamo semplicemente smaltendo la sbornia del consumismo e del boom di Internet, e ci va ancora di culo che c'è stato l'11 settembre di mezzo e quindi non siamo caduti di botto tutto dall'alto.
Io personalmente ho trovato molto ragionevoli i discorsi di chi sostiene la decrescita felice: anche se non capisco molto di economia (giusto le formule base, studiate al master), mi sembra ragionevole che non si possa crescere in eterno. Anche perché ci sono beni di consumo che andranno sempre, ma sarebbe anche ora di considerare che altri beni non possono essere comprati con chissà quale frequenza.
Tipo l'auto: non si può piangere ogni volta che il mercato dell'auto si contrae e correre ai ripari emettendo nuove ordinanze che ti spingono a comprare i modelli più nuovi. In un Paese più attento al lungo periodo, penso che si potrebbe conciliare l'attenzione all'ambiente con quella al mercato attivando più mezzi pubblici (magari a metano) e incentivando le aziende che producono auto a produrre veicoli ecologici a costi inferiori, davvero accessibili per una famiglia con figli e magari un mutuo o un affitto e un nido a 500 euro al mese.
O la cucina: io magari potrei anche voler comprare una cucina di qualità prodotta in Italia, ma se poi sono costretta a farmela trasportare e montare, spendo almeno 5 volte tanto quello che ho speso da IKEA.
Staranno pure venendo tempi duri, ma la cosiddetta "crisi" non è una tempesta di sabbia nel deserto in cui bisogna stare accucciati e con gli occhi chiusi per non perdersi. A me sembra piuttosto una bonaccia in cui sarebbe il caso di prendere i remi e darsi da fare, se non si vuol morire di sete in mezzo al mare.

giovedì 10 settembre 2009

Etologia applicata alla famiglia

A volte mi capita di leggere discussioni online sui più comuni problemi dei genitori: pappa, sonno, cose così. Per sport, perché la mia fortuna è tanto grande che per ora nessuna di queste cose è un problema.
Però, così, a occhio di donna di campagna, spesso mi viene da pensare che nessuna specie e nessuna epoca hanno avuto questi problemi, prima di noi. I cuccioli d'uomo del XX secolo sembrano gli unici esseri viventi che cercano di contravvenire a una legge fondamentale della sopravvivenza: per vivere bisogna alimentarsi e riposare.
A volte, soprattutto per quanto riguarda il cibo, mi chiedo se non sia davvero sempre una fissa dei genitori. Dopotutto, verso i 18 mesi entrambi i miei figli hanno cominciato a mangiare di meno e, se avessi una particolare paura a riguardo, probabilmente me ne sarei allarmata. Mia madre, per esempio, lo è: Amelia le pare troppo mingherlina, e ora che anche Ettore si è smagrito...
Invece a me sembra tutto fisiologico e naturale, anche quando mangiano quasi niente: la mia convinzione è che, finché hanno l'energia per fare ciò che devono e con entusiasmo, non ci sono problemi.
Sul sonno mi rendo conto che i problemi esistono davvero, e che io ho avuto solo un gran culo a schivarli. Del resto, anche il sonno degli adulti varia da persona a persona e da periodo a periodo. La differenza è che, se io non riesco a dormire (per ipotesi) dalle 2 alle 5, mi alzo e scendo per non disturbare nessuno. Ma, se fossi un bambino, non potrei alzarmi e farmi un tè mentre mi leggo una rivista.
Molti liquidano il sonno intermittente dei bambini come un disturbo o un capriccio. Ma oggi, con tutto quello che sappiamo della fisiologia del sonno, mi pare riduttivo. Sappiamo che il sonno è regolato da meccanismi ormonali, che possono variare da persona a persona senza che questa sia una disfunzione. Questo inficia la maggior parte dei metodi che si propongono di far dormire un bambino per tutta la notte, perché non possono modificare la sua fisiologia.
Inoltre, mi pare che ci sia molta propaganda sbagliata su quello che un bambino DEVE fare per essere sano: deve dormire 11-12 ore a notte (ma dove? neanche i miei fenomeni, tranne in casi eccezionali!), deve mangiare ogni 4 ore da neonato (devo commentare?), deve saltare la poppata notturna a x mesi (dove x è dato dalla nazistudine del pediatra / parente /quel cavolo che è), deve cominciare le pappe a x mesi... ma chi l'ha detto? Ma vi pare che le altre mammifere stiano lì col calendario in mano a contare i mesi? Avete mai visto una mucca con le occhiaie per mancanza di sonno?
Non dico che queste non siano scocciature, ma dico che lo sono solo perché l'evoluzione ci ha costretti in gabbie temporali sempre più strette e quindi ritmi consolidati nei millenni sono diventati un problema. Ovviamente, un problema per NOI: siamo noi quelli che devono andare a lavorare il giorno dopo, i figli avranno modo di riposarsi se lo vorranno. Non nascondiamoci dietro il dito di sostenere che lo facciamo per il loro benessere, perché imparino ad addormentarsi bene. O meglio, diciamo che lo facciamo per il loro benessere, ma nel senso che, se dormiranno, eviteremo di lanciarli dalla finestra.

mercoledì 9 settembre 2009

C'è dolore e dolore

Sul blog di Marilde leggo un'interessante discussione sul valore del dolore.
Io il dolore fisico non lo sopporto bene: il nimesulide è il mio miglior amico in periodo perimestruale. Il dolore dell'anima non lo so, non riesco a valutare se sono iper o normosensibile.
Il fatto è che sono sempre stata cresciuta in un ambiente in cui saper sopportare era un vanto. Mia madre, in particolare, è una campionessa della sopportazione: nessun grido durante il parto (dice), ah io non sono come tuo padre che prende gli ansiolitici (beh, con un lavoro da tecnico statale...), non sono mica come T. che pretende di essere aiutata dal marito, eccetera. Pertanto, mia madre è anche una campionessa di tiro al bersaglio su chi soffre e lo dimostra. In particolare su di me. Probabilmente crede di far bene, di scuotere le persone da una presunta autocommiserazione. Non si rende conto invece di esacerbare ciò che gli altri sentono.
Esempio: se sai che sto riprendendo con dispiacere a fare un lavoro che sto ancora imparando a fare e che mi fa sentire una cretina fallita, non uscirtene che in un fantomatico "prima" avevo più elasticità mentale. Perché forse tutta la mia elasticità mentale è il motivo per cui mi trovo a lottare da 10 anni per mantenermi da sola, invece di stazionare comodamente in casa in attesa di un concorso da ricercatrice a lettere. E perché forse tutta la mia elasticità mentale mi serve per capire e ricordare i dettagli di una serie di compiti che per me sono nuovi e ostici.
Eppure io non riesco a credere che questo dolore sia inutile. Diceva Marguerite Yourcenar: qualsiasi cosa accada, io imparo. Da questo dolore imparo che anch'io potrei diventare così e cerco di sorvegliarmi.
Ci sono dolori che sono ineliminabili. E penso che per ciascuna di noi siano diversi. C'è chi sente il bisogno delle doglie per accettare di staccarsi dal bambino immaginario che ha nella testa e chi invece le vive come dolore inutile (e secondo me la prospettiva cambia dal primo figlio al secondo, e chissà com'è con i successivi). C'è chi si strugge con film drammaticissimi e chi invece, come me, ha deciso di farla finita col fascino perverso delle lacrime al cinema. Esistono dolori "buoni", come i morsi dell'utero dopo il parto, che ti fanno male ma ti rendono anche contenta perché sono un buon segno per l'andamento del post partum. Ci sono i dolori di crescita acuti e insensati di cui parla Lemoni e quei doloretti di crescita lievi che mi rendevano contenta (inutilmente, a dire il vero) quando ero bambina, perché speravo di crescere.
Ogni esperienza di dolore può essere formativa, per ciascuna di noi e a seconda di come la prendiamo. E non si tratta di un pensiero veterocristiano, credo. Si tratta di quello per cui la nostra specie brilla: l'adattabilità.

lunedì 7 settembre 2009

Partorirai con dolore?

Segnalo l'iniziativa del blog di Gekina, che si prodiga per l'epidurale gratuita e garantita in tutti gli ospedali. Se pensate che l'epidurale sia un diritto, firmate la sua petizione. Io non l'ho fatto e vi spiego perché.
Premetto che i miei parti sono stati di 11 ore il primo e 3 e mezzo il secondo. Contrazioni inizialmente ogni 5 minuti, ogni 2 minuti dopo un'ora. Non passeggiate di salute, insomma, ma nemmeno quei parti epici di giorni e giorni: una cosa onesta.
Ho partorito al San Matteo di Pavia, un ospedale che fa l'epidurale solo in casi particolari: soggetti asmatici (quindi per un eventuale terzo figlio sarebbe garantita), parti eccessivamente prolungati, problemi mentali... La scelta viene motivata col fatto che l'ospedale non ha abbastanza anestesisti per garantire l'epidurale a tutti, e mi sembra più onesta di quella degli ospedali che l'epidurale la fanno solo due giorni la settimana e ti inducono il parto in quei giorni. Soprattutto tenendo conto del fatto che il San Matteo è pubblico e che, prima di garantire l'epidurale a tutte, io mi preoccuperei di garantire dei cessi decorosi al reparto e di mettere un paio di termosifoni nel corridoio che porta dalla nursery al reparto.
Ora, fate conto che al San Matteo il personale e la struttura sono appena sufficienti per assistere le circa 50 partorienti e puerpere che regolarmente stazionano tra il blocco parto e il reparto, per non contare le altrettante degenti ginecologiche. Obbligare il San Matteo a garantire l'epidurale alle sue partorienti significherebbe costringere una struttura già in difficoltà a fare dei tagli da altre parti. Chissà poi quanti reparti maternità di ospedali meno importanti dovrebbero chiudere.
Personalmente, trovo più proficuo poter partorire in una struttura piccola ma vicina a casa, e chisse dell'epidurale, che dovermi sciroppare chilometri su chilometri con le contrazioni per fare l'epidurale. E non parlo tanto della mia situazione (ci metto 15 minuti ad arrivare al San Matteo, 20 per il San Paolo di Milano), quanto di quei posti che non sono l'ombelico del mondo e che quindi cara grazia che abbiano un ospedale o un pronto soccorso, senza essere Terzo Mondo.

Poi: l'epidurale si fa con una cannula inserita tra una vertebra e l'altra. Lo so che per carità, non ci sono controindicazioni e bla bla bla. Ma, visto che ci sarebbe un forzoso aumento di anestesisti che sanno fare l'epidurale, voi vi fareste inserire qualcosa nella spina dorsale da uno che ha fatto un corso per forza due mesi fa? OK, io sono di parte: piuttosto che farmi toccare la spina dorsale, mi farei un cesareo a mente serena. E sono sicura che la maggior parte degli anestesisti farebbe il suo lavoro con coscienza. Ma non posso fare a meno di pensarlo.

Ora qualcuno dirà: ma come? Tu non sei quella che parlava del diritto a non soffrire? Sì, sono io e ripeterei ogni parola di quello che ho scritto. Però la mia libertà di non soffrire non deve sottrarre risorse a chi rischia di non vedersi garantito il minimo indispensabile.

sabato 5 settembre 2009

La felicità è amare il tuo lavoro

Rubo spesso questa frase a "Mac" di John Turturro, perché l'ho fatta mia. E perché spiega la spina nel cuore che mi turba da tanto, troppo tempo.
Lunedì si ricomincia, cercando di fare tabula rasa dell'anno scorso: a differenza di un anno fa, avrò una guida competente e sicura, di cui potrò eseguire i precisi ordini senza avere timore di sbagliare ad ogni passo.
Sarà un anno di assestamento, in cui cercherò di prendermi più cura di me stessa invece di soffocare nei troppi impegni. Sembra incredibile, ma tutta la danza dello scorso anno ha prodotto un'estate decisamente sovrappeso e un bel po' di disturbi a ginocchia e schiena. Quindi, quest'anno meno danza e più attenzione per l'alimentazione, la salute, la casa, la famiglia, eccetera. Nella speranza di trovare un equilibrio sereno, se non proprio felice.
Ma poi tanti buoni propositi vengono spazzati via in un attimo. Nel riordinare casa, nel delirio portato dalla cucina e dai vari trasferimenti di mobili e oggetti, ho trovato un mio diario che va dall'era appena post Vittorio (il fidanzato più vecchio di 14 anni, di cui ancora non mi capacito) fino al primissimo inizio dell'era di Luca (che, speriamo, duri almeno quanto un'era geologica).
Si tratta quindi del mio periodo da single, in buona parte vissuto fuori casa: Genova, in una casa condivisa con altre 3 ragazze, e Pavia, nel mio microlocale in centro.
Un periodo in cui lavoravo come una pazza, magari fino a mezzanotte per tre sere di fila, oggi a Sanremo e domani a Verona, e ne ero stra-felice. Sì, quelle pagine emanano felicità. Nonostante in quegli anni abbia metabolizzato diverse delusioni sentimentali (e una veramente grossa, perché sono stata delusa contemporaneamente in amore e amicizia), io ero felice: avevo un lavoro, una strada, un percorso.
Credevo che avrei potuto mettere a frutto i miei talenti e le mie competenze, che avrei visto i risultati del mio lavoro. E ci ho creduto per qualche tempo dopo che azienda dove lavoravo era fallita: la mia capa, nella nuova azienda, mi prospettava sviluppi sia per le mie competenze come manager didattico sia in caso ci fossero stati successi nel campo dei progetti europei da me seguiti. I successi ci sono stati, ma la leadership è stata data a una ragazza inesperta ma senza figli (e gnocca).
Ci sono giorni in cui vorrei non aver conosciuto quella felicità. Perché ora mi manca terribilmente, così come mi mancherebbe la mia famiglia se improvvisamente la perdessi (ma, quando ero single, non mi mancava per niente il fatto che non ci fosse nessuno ad aspettarmi a casa).
Proprio ora Luca, che invece ha la fortuna di amare il suo lavoro, mi chiede: ma scrivere non ti aiuta a lenire il dolore per questo lavoro che odi? Purtroppo no.
Il fatto è che avere un lavoro statale odioso è come essere sposata per procura col potente di turno: prenderti un amante non fa altro che inasprire il dolore di essere sposata a uno che non ami.
E so anche che c'è gente indigente che ucciderebbe per un lavoro come il mio. Così come c'è gente che ucciderebbe per sposare uno qualsiasi, purché ricco. Ma lasciatemi dire che essere sposate con l'uomo della tua vita è tutta un'altra cosa.

giovedì 3 settembre 2009

W la frugalità

Sono orgogliosa figlia di una madre anni '70-'80, di quelle che apprezzano il fatto di non dover spendere troppo tempo a fare un budino o una crema pasticcera perché ci ha già pensato la Cameo.
Fino a quando ho conosciuto Luca, per me l'idea di fare marmellate e biscotti era un balzano passatempo e, sì, avevo fatto il pane in casa ma perché era uno scarto della pasta della pizza. Avevo sì il tempo di fare queste cose, ma perché sprecare tempo nella panificazione quando si può uscire con un'amica (o invitarla a casa) o scrivere o danzare? Ancora ringrazio il Mulino Bianco per una confezione di Pane Bianco che salvò me e la mia amica N. dalla nausea post-vino sulla via di Mantova (non c'eravamo ubriacate, ma avevamo bevuto troppo di un vino molto tosto).
Da quando abito qui, ho scoperto sia uno stile di vita diverso dal mio sia possibilità diverse da quelle che avevo quando abitavo da sola in città. Ho scoperto la filosofia di una famiglia dove cedere al "già pronto" o gettare invece di aggiustare è una debolezza. E ho scoperto che, con gli attrezzi giusti, a volte farsi il pane è più comodo che prendere l'auto e uscire a comprarlo. Ho scoperto che con i bambini può essere economico e divertente pasticciare per poi tagliare i biscotti (a proposito: devo ancora provare le formine dell'IKEA prese quest'estate). Ho scoperto che sbucciare montagne di frutta e farle cuocere in un calderone medievale può essere un rito. Ho dipinto un mobile e un muro per le prime volte in vita mia. Ho assistito Luca nel montaggio di una cucina. Mi sono spinta fino al punto di desiderare di saper fare dei lavori idraulici, per non consegnarmi legata e imbavagliata nelle incompetenti mani di un idralico svogliato.
Non tutte queste cose mi sono interamente piaciute, lo ammetto: avrei preferito dedicare tempo e fatica ai miei figli o a Viola, invece di dipingere casa. Ma mi hanno permesso di risparmiare soldi, di non rinunciare a una cena in più durante le vacanze o a un traghetto al posto di un treno.
Confesso anche che il budino e la mousse continuo a farli con i preparati già pronti (anche se recentemente una ricetta di gelo di mellone ha cominciato a convertirmi). E confesso anche che spesso mi abbandono alla comodità delle farine già pronte per la macchina del pane della Lidl (risparmiano la sia pur minima menata di misurare lievito, sale e zucchero e sono buone). Non per dire che vivo queste "concessioni" come colpe, ma solo per mettere in chiaro che non sono una fanatica: ho fatto alcune scelte frugali quando queste mi hanno semplificato la vita e credo che la frugalità possa essere un modo per combattere la crisi economica, ma, se vivessi in centro con abbondanza di soldi, panettiere e pasticcere tutti i giorni.

Stesso discorso quando si parla dei mezzi di trasporto: purtroppo sono costretta a usare l'auto (se andassi a lavorare con i mezzi, ci metterei circa un'ora e mezza rispetto al quarto d'ora di adesso),ma mi piace tantissimo usare il treno. Ovvio che non lo uso per andare a Torino con i bambini, perché dovrei camallarmi i bagagli e i bambini per cambiare a Milano o Voghera o Vercelli, ma in Liguria e a Milano sì, quando posso, volentieri. Anche se a volte significa sistemare i bambini in un pianerottolo tra vagoni e portare poca roba rispetto a quella che vorrei.

Ecco, a proposito della "roba": anche comprare vestiti usati mi piace molto, soprattutto per i bambini. Posso capire che una certa cultura provi vergogna nel cercare vestiti usati da altri (era un sintomo di povertà, così come il matrimonio sottotono - infatti i miei nonni, che ricchi non erano, si sposarono in Quaresima per avere una scusa per non festeggiare). Ma io trovo che i mercatini dell'usato, soprattutto quando sono per beneficienza come quello di Terres des Hommes a Pavia, siano una benedizione: a un prezzo inferiore a quello dei cinesi, trovi capi di qualità ottima, spesso messi pochissimo o di marche talmente buone che manco ti accorgi che sono stati strausati. Stesso discorso per i vestiti "passati" dalle amiche: quando mi consegnano i loro borsoni pieni di roba, mi sembra di fare shopping (soprattutto quando, come nel caso dell'amica C., hanno un gusto impeccabile).
Confesso di adattarmi un po' meno bene quando si tratta di accessori più complicati, come passeggini e seggioloni: per un genitore sono come strumenti del mestiere, e ognuno sceglie quello che gli è più consono per ingombro, peso, maneggevolezza. Detto questo, sono molto felice di non aver mai comprato un lettino in vita mia, nonostante in casa ne abbia 2 di legno e almeno altri 3 da campo, sparsi tra nonni. E penso di aver reso altrettanto felici amici e parenti che non avrebbero saputo come sbolognare quei mobili e che sarebbero stati dispiaciuti all'idea di buttare vestitini ancora molto belli, a cui spesso erano legati i ricordi dei loro bambini da più piccoli.

Oltretutto, spesso le scelte frugali sono quelle più apprezzate. In molti, a distanza di anni, mi dicono che il nostro matrimonio è stato uno dei più belli a cui sono stati. Eppure, quando mi trovo a raccontare quanto è costato, sgranano gli occhi: possibile solo 200 euro il vestito? E solo 2900 euro per 100 invitati? Ah, i sacchettini ve li siete cuciti e riempiti voi (con i confetti equi e solidali)? Certo, abbiamo avuto amici che ci hanno aiutati: il papà di Isa ci ha regalato i fiori (un artista meraviglioso), la sarta non mi ha fatto pagare le prove a casa, gli amici del catering ci hanno fatto un prezzo di favore perché per loro era un'occasione di farsi pubblicità, gli artisti di strada che si sono esibiti erano amici che si sono accontentati di mangiare e bere, il vino ce l'ha regalato un amico. E i nostri genitori ci hanno aiutati astenendosi dal fare pressioni. Ma, se penso a quanto è stato facile e divertente, mi sembra impossibile che non si possa fare un matrimonio come il nostro senza suscitare scandalo e rancore.

Spero solo che ai miei figli questa frugalità passi come uno stile di vita, e non come una religione o una serie di mancanze. Perché noi lo viviamo davvero così.

martedì 1 settembre 2009

W la tecnologia

Spesso sento mamme che ostentano la propria frugalità: niente scaldabiberon o sterilizzatori, niente cuocipappa o walkie-talkie, eccetera.
Beh, anch'io e Luca eravamo così. Il primo mese, scaldavamo i biberon a bagnomaria nelle pentole, li sterilizzavamo bollendoli. Ci credo che ogni tanto cedevamo alla tentazione di un LA liquido, già pronto: era talmente una menata tutto il resto!

Da questo delirio ci salvò la zia Paola, che ci prestò uno scaldabiberon e uno sterilizzatore a vapore, nonché una sdraietta da bagno di un tipo comodissimo che non si trova in Italia. Santa subito!
Grazie a lei, abbiamo smesso di scendere in cucina di notte per i biberon e abbiamo imparato a ottimizzare i tempi: tra il risveglio di Amelia e il momento di rimetterci a dormire passavano 20-30 minuti, quasi come alzarsi a fare la pipì.

Da lì, mi sono interessata sempre di più alle tecnologie che mi potevano semplificare la vita. Ho usato tantissimo i walkie-talkie regalati dalla mia amica Isafragola, e forse comincio a usarli un po' meno adesso. Per il secondo figlio, ho speso 129 euro per il babypappa della Chicco, e sono tuttora convinta che sia stato un buon acquisto, soprattutto per quando eravamo in viaggio.
Non ho mai comprato sdraiette elettroniche o girelli spaziali, ma mi sono convinta che a volte, se si può, spendere qualche euro di più per un aggeggio utile sia un risparmio di fatica e di irritazione.
Certo, non tutti hanno le stesse esigenze e non per tutti vanno bene le stesse soluzioni, ma rifiutare a priori la tecnologia e farne un vanto mi sembra un po' sciocco. Mi ricorda un po' le posizioni di quelle mamme che si vantano di non aver mai letto libri di puericultura. Io penso che, al di là di quello che applicheremo o no, sia utile leggere qualcosa in più, allargare la propria visuale, uscire dai propri schemi e vedere altre persone che fanno il nostro stesso mestiere in modo completamente diverso ma non per questo sbagliato.


Purtroppo, mi sembra che in questo periodo la moda del rifiuto dell'innovazione stia prendendo piede soprattutto nelle donne. In quelle più anziane lo capisco (ho conosciuto impiegate sull'orlo della pensione che non volevano imparare a usare Windows per quei 2 anni che avevano ancora da lavorare). In quelle giovani mi spaventa, perché mi sembra indice di quella tendenza che la Lipperini individua nella nostra cultura: fin da piccoli, ai maschi la tecnologia (vedi i vari robot, giochi meccanici, giochi scientifici, ecc.) e alle donne il sentimento (vedi i giochi di accudimento, l'uso della magia, i pelouche, ecc.).
E dire che, tra i miei figli, quello che mi sembra più portato per i giochi "di casa" sarebbe Ettore: è vero che impazzisce per le palle, ma ancora di più per il passare la scopa (quella vera) e per i giochi con le pentole (meglio se vere, ma si accontenta). Amelia comincia adesso a "cucinare" torte e fare incantesimi, e non riesco a capire se ciò sia frutto dell'influenza dell'asilo oppure se semplicemente abbia maturato queste preferenze un po' tardi.
Fatto sta che, per fortuna, entrambi i miei figli impazziscono per la tecnologia: Amelia starebbe per ore a guardare l'oblò della lavatrice, Ettore ha rischiato di rompermi la lavastoviglie nuova con le sue intemperanze amorose, entrambi amano i cellulari e i computer. Con queste premesse, sarà dura tenerli lontani dai videogiochi per molto tempo ancora, ma, anche se "cedessi", difficilmente permetterei loro di giocare con il Nintendo mentre sono su un traghetto che costeggia le Cinque Terre.
Mi fa un po' paura l'idea del motorino, ma so anche che potrebbe permettere loro di svincolarsi da una casa isolata che durante l'adolescenza rischierà di diventare una prigione: la tecnologia non può andare a senso unico e facilitare solo la vita dei genitori.

Ricchi premi e cotillons

Yeni Belqis, mia omonima nella vita, mi consegna un premio, l'Honest Scrap Award.

Condizioni di questo premio sono: raccontate ai vostri lettori 10 cose che si sappiano o meno di voi ma che sono vere.Indicate dieci persone che hanno diritto al premio e siate sicuri di far loro sapere che sono stati contrassegnati (un breve commento sul loro blog andrà bene).Non dimenticate di collegarvi di nuovo al blogger che vi ha premiato.

Io lo ammetto: sono poco entusiasta delle catene, da qualsiasi santo vengano, ma questa mi è sembrata un'occasione per aggiornarvi sulle mie condizioni attuali, dopo un'estate in cui la connessione è stata altalenante e le occasioni di scrivere un po' più rade.
Non trasmetto il premio a nessuno, se non a coloro che avranno voglia di raccogliere questo testimone, passando di qui.

1) Viola: ho finito di scrivere la sceneggiatura del numero 0, quello ambientato nel periodo del G8. All'inizio per caso e poi consapevolmente, l'ho strutturata in modo che possa essere eventualmente divisa in 6 albi da 24 tavole ciascuno.
2) Viola: non ho ancora trovato un disegnatore, anche se i contatti non sono mancati. È caccia aperta.
3) Cucina: installata e praticamente pronta (mancano i pomelli delle ante), tutta da organizzare e riempire.
4) Resto della casa: ho riordinato gli armadi della mia camera, dando via (con la morte nel cuore) un sacco di roba in cui o non entrerò più o non avrò più occasione di entrare. Per il resto, regna ancora un certo caos, che conto di eliminare definitivamente nel weekend, quando i bambini saranno dai miei.
5) Resto della casa: Amelia, entusiasta delle pareti blu e azzurre in cucina, chiede con insistenza che dipingiamo la sua camera di viola e rosa. Dal momento che nella stessa camera dorme anche Ettore, stiamo cercando una mediazione.
6) Lavoro: lunedì ricomincio, e speriamo che quest'anno sia tutto più rilassato. Chiederò un piccolo part-time (4 ore in meno alla settimana) per evitare ad Amelia il post-scuola, speriamo che siano abbastanza ragionevoli da non fare storie.
7) Danza: devo decidere che corso frequentare quest'anno. Senza ammazzarmi ma anche senza mollare troppo, ché quest'estate mi sono fatta male anche perché ero fuori allenamento.
8) Danza: devo capire se qualcuno si aspetta che ricominci a tenere il mio corso presso il nido di Ettore e come collocarlo nei miei impegni.
9) Salute: devo rimettermi in forma anche come peso e andare a fondo dell'asma che ultimamente mi perseguita un po' troppo.
10) Salute: devo mettermi in pista per capire se posso denunciare la miriade di gatte fertili che ho in cortile come colonia felina oppure se devo passare direttamente all'ASL una denuncia per incuria nei confronti dei loro cosiddetti "padroni", che si sono trasferiti ma tornano ogni tanto per dar loro da mangiare.