giovedì 6 agosto 2009

Il diritto all'infelicità

Titolo assai poco vacanziero, OK, ma non son mica in vacanza: sono in un limbo fatto di scatoloni e idraulici, quindi quasi peggio che se andassi al lavoro. Oddio, sarebbe peggio se fossi in questo limbo di scatoloni e idraulici E andassi al lavoro.
Il fatto è che, quest'estate, sono stata assai poco felice, soprattutto in proporzione a quanto ci si aspetterebbe da una che è a casa con i suoi adorati bambini dal primo giugno.
Sicuramente c'entra tutta la fatica assurda che stiamo facendo per la cucina nuova. E anche il fatto di essere stata senza Luca per una buona porzione dei giorni di luglio. In aggiunta, mettiamoci che ad Amelia è esploso il complesso d'Edipo proprio in concomitanza con l'assenza di suo padre, una depressione... Possiamo metterci anche il fatto che, tutto sommato, se penso al ritorno al lavoro, uno qualsiasi dei momenti più cupi di quest'estate mi pare luminoso.
Questo non per dire che finora sia stata una brutta estate. Ci sono stati momenti bellissimi, che rimarranno con me per sempre: il Momcamp, il giro a Genova con Luca ed Ettore, la visita della mia amica Isabella, la breve convivenza con i miei cognati giovani, i weekend con Luca, il concerto di Bregovic a Collegno, la scoperta dell'agrigelateria e della Gelateria Popolare di Torino...
Però ho potuto riflettere sull'infelicità che provo riguardo la sfera lavorativa, il "vuoto" (come lo chiama Luca). Mi sono chiesta se è depressione, se c'è qualcosa di patologico. E mi sono detta che, sì, c'è ansia e dolore all'idea di ritornare, ma credo che sia una tristezza "sana" e nello stesso tempo insanabile.
Sana perché riguarda solo quella sfera: non mi fa sentire infelice o fallita negli affetti o in altri aspetti della mia vita, non intacca la mia autostima. So di essere finita in questo cul de sac per motivi che esulano dal mio valore di persona e di lavoratrice, e questo mi rende forte. So anche che un modo di uscire dall'inferno delle fatture c'è, ma che ancora per un anno non è praticabile: nessuno si prende volentieri una che ha ancora dei congedi parentali da godere, rischio di passare dalla padella alla brace (ovvero: da un lavoro brutto ma con colleghi gentili a un lavoro brutto con colleghi orrendi).
Certo, a volte questo dolore mi rende più irritabile anche in altri momenti della mia vita, ma credo che sia normale: dopotutto, una persona che ha mal di denti è più irascibile di una perfettamente sana, no?
Insanabile perché, per quanto io faccia, nella pubblica amministrazione non credo che avrò mai un lavoro che renda felice come ero nei primi 3 anni della mia vita lavorativa, e questo per me è come avere un arto in meno. Luca lo sa: per quanto lui mi possa amare e per quanto i nostri figli possano essere meravigliosi, io la mancanza di quell'arto la sentirò sempre. Forse non mi risanerà nemmeno un eventuale successo di Viola, perché comunque non sarebbe Viola la cosa di cui mi occuperei per 8 ore al giorno.
Certo, nei miei sogni una via d'uscita ci sarebbe: fare un botto tale con Viola da diventare autrice a tempo pieno, pagata da vere case editrici, di fumetti e non. Ma, a parte che la mia parte di figlia del popolo mi imporrebbe di non lasciare il lavoro statale ma prendere il part time più ridotto possibile, i sogni son desideri un po' troppo spinti.
Al massimo, nella vita reale, posso "accontentarmi" di sognare un part time per il giorno in cui avrò finito di pagare le rate del nido di Ettore, e cercare di portare avanti Viola senza rimetterci troppo.
Sono ragionamenti di una depressa, questi? Dovrei sforzarmi di vedere positivo qualcosa che non può esserlo? Ecco, ci posso anche provare: grazie al fatto che adesso capisco e capirò sempre meglio i meccanismi amministrativi di un ente, mi districherò decisamente meglio nella stesura del budget per Viola. Ora è veramente tutto: ora ho il diritto di dire che sono infelice del mio lavoro e stop.
Ah no, c'è un altro obbligo che devo assolvere: pensare a tutte le persone che non hanno lavoro o che hanno un lavoro qualsiasi perché devono mangiare o che ce l'hanno precario. Invece di pensare al Terzo Mondo o ad amiche ben più vicine, penso a mia nonna: vedova dopo la guerra (ma non "di" guerra, quindi senza pensione), con una figlia piccola, si rompeva la schiena troppe ore al giorno in un laboratorio farmaceutico, senza la minima protezione per la propria salute, fianco a fianco con ragazzine che morivano ancora di polmonite. Sicuramente non era felice di fare quel lavoro, ma probabilmente credeva che la sua condizione di infelicità non fosse patologica: probabilmente era la norma. Quasi nessuno faceva un lavoro che lo realizzasse, quasi tutti lavoravano solo per mangiare e senza pensare che ci può essere bellezza in un lavoro piuttosto che in un altro.
Ecco, io penso di dover fare come mia nonna: lavorare per mangiare e non sentirmi sbagliata per l'infelicità che sento. Ma non sentirmi neanche in colpa per i diritti di cui godo: li compenso ampiamente con un peso nel cuore.

5 commenti:

  1. Lucciola... dai che a cena ti faccio qualcosa di buonissimo! L'estate porta sempre queste riflessioni, specialmente quando a settembre devi riprendere qualcosa. E' il vero inizio, peggio di capodanno e senza brindisi. E' il tempo dei ripensamenti sugli anni e sull'età... (non è mia ;-) Ma io lo so che poi ti sale la carogna e va tutto meglio. Ti aspetto

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  2. Grazie, Isa! :-) Ma adesso non pensate che io stia tutto il giorno ad arrovellarmi. Era solo per dire che in questo tempo si tende a medicalizzare l'infelicità: se una non è pienamente felice, allora è depressa. No, dico io: rivendico il diritto di essere sana ma infelice di un aspetto della mia vita.

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  3. L'infelicità lavorativa la conosco. Ed è una brutta roba. Io sono stata nell'ultimo anno veramente ma veramente male in ufficio, non tanto per il lavoro, che mi piace molto, quanto per la capa, che mi trattava male, con cui c'era tensione (e anche insulti e grida - sue a me).
    Io mi son fatta andare bene tutto perchè logisticamente questo lavoro è fantastico (5 minuti da casa, 5 minuti dall'asilo, 5 minuti dai miei, 5 secondi dal Marito) però è stata dura, e ho somatizzato parecchio con simpatici (e dolorosi) tagli sotto le unghie.
    Poi la capa è stata "declassata" ed è arrivato un nuovo capo. E mi si è aperto un mondo:
    intanto ho capito che il problema vero non ero io (che benchè me lo ripetessi come un mantra il dubio una ce l'ha sempre)
    poi ho smesso di arrivare a casa sfinita, benchè stia lavorando di più
    e la bambina lo sente ed è molto più "simpatica"
    e io non ho più i tagli sulle dita
    Quindi resisti, e abbi fiducia che prima o poi ci sarà la svolta!!!
    E se riesci a lavorare solo per lo stipendio fammi sapere come si fa, perchè io, purtroppo, non ci sono riuscita, che se devo stare 9 ore lontana da mia figlia ho bisogno almeno di fare una cosa che mi dia un minimo di soddisfazione.
    Scusa se son stata un po' prolissa ma il problema mi tocca molto.
    Un saluto solidale

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  4. Ecco, lavorare per vivere o vivere per lavorare?
    Questo dilemma mi si ripresenta ciclicamente ed ogni volta non ho tempo di svilupparlo.
    Io direi vivere E lavorare (o lavorare E vivere), esattamente quello che NON sto facendo in questo periodo...
    Un bacione di felicità da una che voleva stare in maternità tutta l'estate e non l'ha fatto.

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  5. Cara Lanterna
    è un tema che sento tantissimo, e ci soffro. Temo che se non accade qualcosa del tipo "declassamento capo", la situazione non si schioda.

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