martedì 6 ottobre 2009

L'invenzione della privacy

Stamattina, tra una cosa di lavoro e l'altra, ho letto una segnalazione di Lorenza. È una riflessione su un'intervista a Carol Topolski, uscita sul Giornale.
Di questa intervista delirante (o manipolata in modo delirante dalla giornalista), mi è rimasto impresso un concetto: la privacy sarebbe una delle cause della chiusura e dell'isolamento delle famiglie. Un po' la solita storia che si stava meglio quando si stava peggio, e un bambino lo cresce il villaggio, e che figata le famiglie allargate di una volta.
Ora, fermiamoci un attimo.
Immaginiamo una donna di 60 anni fa, tipo mia nonna ma non mia nonna (lei era di un'altra pasta). Una donna allevata con l'idea di essere docile e sottomessa. Si sposa e il marito la porta in casa dei genitori. Lei lavora e la suocera le sequestra lo stipendio, ché allora usava così. Lei lavora e la suocera le tiene il bambino, perché tanto è l'erede della famiglia, mica un bene personale. Lei si compra un abito o un paio di scarpe e la suocera sempre lì a guardare quanto ha speso o quanto è "decente" ciò che indossa. Lei e il marito discutono e c'è sempre qualcuno di estraneo alla coppia a giudicare. Questa è la famiglia allargata di cui parla l'ineffabile sociologa, dove le donne lavoravano comunque ma nessuno se ne accorgeva perché non davano fastidio.
Poi, per carità, ti poteva capitare un marito con una famiglia di persone gentili e buone, ma la convivenza porta quasi sempre a tirare fuori il peggio di chiunque.
E ora immaginiamo noi stessi, il modo in cui viviamo oggi. Pensiamo che non dobbiamo rendere conto a nessuno del nostro stipendio, nemmeno a nostro marito se decidiamo di dividere le spese a metà (noi, che siamo dei poveracci da 1000 euro al mese, abbiamo il conto in comune per comodità). Pensiamo che, se la suocera ci sta antipatica, almeno se ne sta a casa sua (e a svariate centinaia di km, se siamo persone particolarmente accorte). I nidi e le babysitter costano un botto, è vero (a me lo dite?), ma ci liberano dal ricatto psicologico di certi nonni. Se discuto con mio marito, già mi dà fastidio il coro dei figli ("perché litigate?" "non stiamo litigando, stiamo discutendo"), figurati se ci fosse qualcun altro a godersi lo spettacolo e fare il tifo.
La sociologa argomenta che questa eccessiva privacy in famiglia è causa di depressione post partum e sensi di inadeguatezza nelle madri, perché si chiudono in casa e non si possono confrontare col resto del mondo. A me sembra che le persone "deboli" non guadagnassero molto dall'essere in famiglie allargate, che le separavano dal mondo e le nascondevano per vergogna: non dimentichiamo che la depressione fino a non poco tempo fa era considerata una vergogna, come del resto una qualsiasi malattia mentale.
Ricordo ancora che la madre di una mia amica delle medie, che aveva passato un periodo di depressione quando sua figlia era piccola, era additata come "la pazza" a quasi 10 anni di distanza da quegli episodi e mi veniva indicata come una persona con cui stare attenti (non nel senso di usarle particolare gentilezza o delicatezza).
Invece una mia amica, che 7 anni fa ha avuto un episodio decisamente tosto di depressione post partum (con tanto di supporto medico, per intenderci), ha una vita sociale normalissima e non mi risulta che nessuno la eviti o le parli dietro per via della depressione.
A me la privacy piace. Sono contenta che mia madre non sia corsa qui a farmi vedere come avrebbe fatto lei ogni cosa, l'ho considerato un segno di rispetto. Sono contenta di poter allevare i miei figli nel modo che dico io (dove "io" significa "io e Luca"), con minime interferenze da parte dell'esterno. Sono contenta di poter manifestare i miei sentimenti senza dover pensare a cosa dirà mia suocera (che peraltro è una donna stupenda, sono anche fortunata). Sono contenta soprattutto di poter girare in casa in mutande (o senza) senza dover pensare al senso del pudore di qualcun altro che non sia mio marito e i miei bambini.
Non credo che una minore privacy mi avrebbe sostenuta nei momenti no di questi anni. Una madre (più di un padre, mi dispiace ma anche in questo non c'è parità) è già una femme publique dei sentimenti, deve aprirsi il petto e mostrare ciò che prova a tutto il mondo. Io penso che, in una situazione sana, un po' di privacy in più non possa che far bene alle madri. E in una situazione patologica? Penso che privacy non significhi omertà, e che sia compito dei familiari (del marito in particolare) accorgersi che una donna sta male.
Del resto, noi donne lo facciamo da sempre: scrutiamo gli umori e i comportamenti di chi amiamo, avvertiamo i campanelli d'allarme, cerchiamo di vederci chiaro quando qualcosa non ci convince (a costo di passare per le solite rompicoglioni). È ora di spartirci con gli uomini anche questo compito.

7 commenti:

  1. So che è assai poco elegante citarsi, ma questo tuo post me ne ha fatti venire in mente un paio che scrissi in altra era geologica, ma che riletti oggi calzano a pennello:
    http://troppagrazia.ilcannocchiale.it/2006/06/22/antiquata_modernita.html
    http://troppagrazia.ilcannocchiale.it/2006/06/28/precisazioni_per_sara.html
    Ciao :-)
    Giuliana

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  2. mi sembri troppo drastica...
    io ho provato a vivere nella tua Pavia e ci ho vissuto giorni da incubo... non sono riuscita a conoscere neanche i vicini della porta accanto e se telefonavo a qualche amico per il the del pomeriggio mi rispondeva che guardava l'agenda e mi fissava un appuntamento per il mese dopo... ovviamente se provavo a dire che stavo male (la depressione post partuum l'ho avuta sì!) durante la telefonata continuavo a sentire il ticchettio delle dita sulla tastiera perchè avere tutta l'attenzione focalizzata su qualcuno e interrompere il sacro lavoro non è cosa... ho anche portato i figli al nido alle sette e mezza lasciandoli urlanti per imbarcarmi sul locale per Lambrate e da vera donna emancipata andare a lavorare a Milano, nella nebbia esterna ed interna...
    bè, insomma... se vi piacciono tanto queste conquiste dell'umanità e del mondo femminile io le lascio volentieri a voi.
    con mio marito abbiamo deciso e ci siamo trasferiti in una comunità di famiglie, in un condominio solidale. dove coniugare la privacy (sacrosanta) e il bisogno di vicinanza è una sfida tutti i giorni, dove ci sono molti casini e molte fatiche, ma dove si cerca (forse come utopisti sognatori) di prendere solo il buono di quel tempo antico di cui parli e, ti garantisco, ci sono aspetti non così terribili come li descrivi tu... sarà che di suocere presenti ne abbiamo poche??
    per carità non voglio pubblicizzare la ns scelta come l'unica possibile o una condizione che vada bene per tutti, tantomeno un idillio ... me ne guardo bene, ma ... non tagliare le cose con il coltello... tanti sorrisi di donne e uomini liberi, emancipati e soli coprono anche tanta disperazione.
    nina

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  3. @nina: penso che ci sia una bella differenza tra una comunità di famiglie che consapevolmente sceglie di convivere e una società dove "si faceva così" e spesso la convivenza era sinonimo di sottomissione. Io probabilmente in una comunità come quella che dici tu, con amici e cognati, ci vivrei volentieri, ma, al di là dei momenti comunitari, vorrei i miei spazi, così come li voglio all'interno della mia famiglia, che è la cosa che amo di più al mondo.
    Ritengo che il vantaggio del vivere nella società di oggi sia proprio la possibilità di scelta: io me ne andrei in mezzo al bosco o in centro città, tu in una comunità e nessuno ci obbliga a far niente. Cosa che purtroppo non esisteva nei favolosi tempi antichi di cui ancora tanti favoleggiano.
    Mia nonna non ne ha mai favoleggiato, per dire.

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  4. perfettamente in accordo con te!
    ciao
    buona giornata
    nina

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  5. @M di MS: arrossisco!
    @giuliana: se avessi letto i tuoi post prima, forse non avrei scritto il mio, perché hai detto le stesse cose che volevo dire io e meglio.

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  6. Sono io che arrossisco, Chiara, e lo faccio dopo aver letto il post di oggi, quello sui complimenti etc.: io vengo da una situazione similissima, anche se non sono lombarda, ma mezza piemontese ("t'las mac fait 'l to dover", hai fatto solo il tuo dovere, l'ortografia è micidiale, ma il concetto e quello) e mezza calabrese. Anch'io bravissima fin da subito, quindi ogni esitazione giudicata imperdonabile, ricordo una scenata di mia madre per un 8 1/2 di inglese...Anch'io una promessa mancata e senza neppure la contropartita di avere fatto dei figli.
    A me invece è piaciuto molto leggere le tue parole, ognuno esprime le cose secondo la sua sensibilità e la sua personalità e nei tuoi post, a parte la fondamentale differenza di cui sopra, ritrovo molto di me stessa.
    Giuliana

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