giovedì 8 ottobre 2009

Credere obbedire combattere

Ieri, poco dopo aver pubblicato la notizia che i colloqui per la nuova mansione stavano andando bene, ho ricevuto una telefonata di mio suocero che mi faceva i complimenti. A parte la dovuta scaramanzia, perché ancora nulla è sicuro, ho provato un po' di imbarazzo e fastidio, come la maggior parte delle volte che mi fanno complimenti. Non fraintendetemi: mi ha fatto piacere, apprezzo tantissimo e ringrazio. Ma sono stata allevata con l'intima convinzione che i commenti poco più che positivi siano smancerie.
Questa convinzione non l'ho fatta mia né nell'educazione né nei rapporti con gli altri. Se mio figlio fa la pipì nel vasino, faccio una festa da stadio. Se mia figlia balla davanti a me (e, Isa, devi vedere quanto è diventata brava!), mi sciolgo. Dico spesso a mio marito quanto lo considero una bella persona. Se un'amica ha una bella borsa o ha fatto qualcosa che trovo interessante, glielo dico subito.
E loro sanno che lo dico perché lo penso, altrimenti starei zitta.
Su di me, questa cosa non funziona. Se qualcuno mi fa i complimenti per qualcosa che indosso, ancora ancora. Ma, per il resto, mi chiudo a riccio. Soprattutto se (ma non è il caso ovviamente di mio suocero) penso che siano complimenti interessati (tipo una mia collega, che blandisce gli altri colleghi per far fare a loro - con la scusa che sono "così bravi" - i lavori che lei non ha voglia di fare).
Questo non riguarda le cose che io faccio. Per esempio, se qualcuno mi dice che gli è piaciuta Viola, sono solo contenta e, anzi, cerco di approfondire: che cosa ti è piaciuto di più? che cosa di meno? ma quel momento lì funziona o così così?
Oppure, se cucino qualcosa che mi è venuto bene, non trovo sconveniente dirmelo da sola, soprattutto se sono in famiglia (e poi postare la ricetta sul blog).
L'imbarazzo da complimenti riguarda solo la mia persona. E credo anche di saperne la ragione. Nella ruvida cultura della mia famiglia, lombarda fino al midollo, non c'è spazio per i complimenti. Forse me ne avranno fatti quando ero piccolissima, me lo auguro. Ma, da quando mi ricordo, ogni volta che avevo fatto bene qualcosa "avevo solo fatto il mio dovere".
Ora, non crediate che la mia sia una famiglia di persone insensibili e fasciste. I miei non erano diversi dalla maggior parte dei genitori delle mie amiche. Ovviamente, poi, i livelli di rigidità erano variabili: io, che ero stata da subito molto brava, dovevo rispettare standard molto alti (mi facevano il culo per un 6 e 1/2, per dire), mentre ad altri bastava la sufficienza. Non esisteva che gli insegnanti avessero torto (anche se poi, molti anni più tardi, mia madre mi ha confessato di non essere stata sempre e comunque d'accordo con il loro operato).
La maggior parte delle valutazioni personali passava dal successo scolastico, oltre che da una buona condotta. Io, per esempio, che ho sempre raggiunto buoni risultati senza fatica, sono sempre stata fustigata per la mia pigrizia, per il mio egoismo e per il mio scarso rispetto per l'autorità. Non perché mia madre fosse una sadica, ma perché pensava che, concentrandosi sulla correzione dei miei aspetti negativi, avrebbe fatto meglio che valorizzando i miei lati positivi.
Il risultato qual è? Che la mia autostima si basa di più su quello che faccio piuttosto che su quello che sono. Ergo, quando non produco nulla che mi piaccia, mi sento una cacchetta di mosca. Ed ecco perché l'idea di poter avere di nuovo in mano un sito o una guida dello studente, qualcosa di tangibile fatto da me, mi fa gongolare, dopo anni di improduttività (almeno dal mio punto di vista).
Viola ovviamente non conta nel novero delle produzioni, perché per ora nessuno mi sta pagando per scrivere e quindi, nel mio personale bilancio, è sullo stesso piano della cucina e della danza.
L'altro risultato è che io non so che cosa pensino di me i miei genitori. Mio padre ha potuto constatare che sono brava nel mio lavoro, ma non credo che la cosa conti molto per lui, ai fini di una mia valutazione globale. Mia madre è come se accettasse ogni mia scelta con la filosofia "se sei contenta tu, è la scelta giusta", ma non credo che sia mai stata entusiasta delle scelte che ho fatto dal master in poi: le avrebbe preferito che continuassi con un dottorato e facessi la posta a un concorso da ricercatrice, e poi non avrebbe voluto che andassi a lavorare con mio padre (in questo aveva ragione), e poi forse avrebbe preferito che aspettassi un po' di più a fare figli e cercassi di rilanciare la mia carriera prima di fermarmi per una maternità. So che stima Luca, che è contenta di lui e che non potrebbe essere più felice di avere i nipoti che ha. Ma credo anche che mi veda come una promessa mancata. Del resto, sotto certi aspetti, è quello che sono.

5 commenti:

  1. Eccomi...anch'io cresciuta in una famiglia lombarda (delle valli, per giunta), anch'io abituata al 'hai fatto solo il tuo dovere'. L'aggravante e' che questa cosa l'ho interiorizzata al punto che ero io quella che si incazzava per un 7, non i miei. E questa sensazione di 'sentirmi una cacchetta' se non sono perfetta 'come vorrei io' (cosa che, ovviamente, succede spessissimo) non mi e'passata ancora, e, a volte, temo non mi passera' piu'. E si', ti capisco anche sui complimenti, pero' sono bravissima a farli agli altri. :-). Incrocio le dita per il tuo nuovo lavoro...

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  2. Non ci credo. Credevo di essere l'unica a cui facevano il culo per un 6 e mezzo. Infatti ne ho preso solo uno e poi il culo me lo sono fatta io per stare sempre sopra il 7. Con il risultato che mi sono persa tutta la soddisfazione personale per i risultati scolastici, dal momento che il primo pensiero era "evvai, me la sono cavata, anche per stavolta mia mamma non avrà da ridire".
    E ancora adesso faccio moltissima fatica a fare/dire/pensare cose se so che i miei non sarebbero d'accordo. E se proprio le faccio, le dico o le penso, faccio in modo che non lo sappiano. Oppure, quando vivevo ancora con loro, discutevo, urlavo, piangevo e mi disperavo nel tentativo di convincerli che avevo ragione io e che non facevo nulla di male...

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  3. prima di tutto complimenti.
    e poi eccomi, ora so che altri hanno ricevuto un'educazione come la mia, quella, per intenderci, basata sul "hai fatto metà del tuo dovere" (bada, metà...).
    ha avuto un costo altissimo per me, quest'educazione, e ce l'ha ancora. e naturalmente ha un costo anche nell'educazione di mio figlio, al quale, per paura di chiedere troppo, forse chiedo troppo poco.
    ma erano altri tempi, e quello che è stato fatto è stato fatto in buona fede. peccato, però.
    ah, io non sono lombarda, sono una terrona di montagna. e la testa era proprio la stessa.

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  4. @giuliana: si vede che, almeno in questo, l'Italia è unita ;-) Io l'ho fatto risalire alle mie radici lombarde perché è un ragionamento che si basa molto sul profitto e la produttività, che sono un po' una nostra fissa. Se non è così, ci consoleremo pensando che un mal comune è un mezzo gaudio ;-)

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  5. Io paradossalmente ho avuto il problema opposto. I miei genitori mi hanno sempre dimostrato un'approvazione spropositata, specialmente mio padre. Io ero il genio, l'unica erede del suo talento, etc. Nella vita sono sempre stata iperstimata per le mie presunte doti intellettuali. Non mi ha aiutato granché a far pace con me stessa come persona in carne e ossa, che alla fine (nonostante le ferree convinzioni dei miei) non ha fatto carriera universitaria. Per non parlare della mia vita sentimentale quantomeno atipica... La cosa che più mi ha sconvolto negli anni è che, nonostante io abbia deluso la maggior parte delle loro aspettative, loro continuassero (mia madre ancora oggi) a pensare che io sia il massimo e a giustificarmi in tutto. Ci sono voluti molti anni e molti errori gravi per fare pace con me stessa, per non sbuffare di fastidio ad ogni manifestazione di stima (ora sbuffo una sì e una no), a smussarmi un po' nei giudizi verso gli altri e verso me stessa.

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