giovedì 27 gennaio 2011

Se non parlo

Se non parlo della Shoah, non è per indifferenza. Anzi.
È un evento che mi tocca molto nel profondo, ma non mi sento in diritto di parlarne. Io non sono ebrea, non sono omosessuale, non sono zingara.
Non riesco a capire come ci si possa basare sulla genetica delle persone per sterminarle.
Sulle idee e sulla religione, ancora ancora sì, lo capisco. La genetica mi sembra una follia, anche se fu una follia ben redditizia per chi sequestrava i beni dei deportati.
Persino l'Inquisizione, che incriminava sulla base del credo, lasciava una via di salvezza (che magari in alcuni casi non era preferibile alla morte o si concretizzava in una morte più misericordiosa): se ti convertivi, se abiuravi, se baciavi il crocifisso e prendevi la comunione, se ti confessavi.
Ma la genetica non lascia scampo: le conversioni non ti salvano, puoi solo andare e morire. E in realtà la scelta di uccidere della gente sulla base della loro nascita ci coinvolge tutti: e se domani decidessero di sterminare chi è sotto il metro e sessanta? Io sarei fregata.
Per molti ebrei che sono morti nei campi di sterminio, essere ebreo non era molto diverso dal mio essere bassa: molti di loro erano discendenti di ebrei convertiti o indifferenti alla propria religione, alcuni hanno ignorato o non si sono curati di avere antenati ebrei fino alla promulgazione delle leggi razziali.
Il pensiero dell'assurdità che è stata perpetrata con la Shoah (così come con il genocidio degli armeni e tante altre stragi che non ci riguardano così da vicino) mi rattrista e mi spaventa.
Ecco perché non parlo volentieri della Shoah, ma preferisco ascoltare gli altri.

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