mercoledì 9 settembre 2009

C'è dolore e dolore

Sul blog di Marilde leggo un'interessante discussione sul valore del dolore.
Io il dolore fisico non lo sopporto bene: il nimesulide è il mio miglior amico in periodo perimestruale. Il dolore dell'anima non lo so, non riesco a valutare se sono iper o normosensibile.
Il fatto è che sono sempre stata cresciuta in un ambiente in cui saper sopportare era un vanto. Mia madre, in particolare, è una campionessa della sopportazione: nessun grido durante il parto (dice), ah io non sono come tuo padre che prende gli ansiolitici (beh, con un lavoro da tecnico statale...), non sono mica come T. che pretende di essere aiutata dal marito, eccetera. Pertanto, mia madre è anche una campionessa di tiro al bersaglio su chi soffre e lo dimostra. In particolare su di me. Probabilmente crede di far bene, di scuotere le persone da una presunta autocommiserazione. Non si rende conto invece di esacerbare ciò che gli altri sentono.
Esempio: se sai che sto riprendendo con dispiacere a fare un lavoro che sto ancora imparando a fare e che mi fa sentire una cretina fallita, non uscirtene che in un fantomatico "prima" avevo più elasticità mentale. Perché forse tutta la mia elasticità mentale è il motivo per cui mi trovo a lottare da 10 anni per mantenermi da sola, invece di stazionare comodamente in casa in attesa di un concorso da ricercatrice a lettere. E perché forse tutta la mia elasticità mentale mi serve per capire e ricordare i dettagli di una serie di compiti che per me sono nuovi e ostici.
Eppure io non riesco a credere che questo dolore sia inutile. Diceva Marguerite Yourcenar: qualsiasi cosa accada, io imparo. Da questo dolore imparo che anch'io potrei diventare così e cerco di sorvegliarmi.
Ci sono dolori che sono ineliminabili. E penso che per ciascuna di noi siano diversi. C'è chi sente il bisogno delle doglie per accettare di staccarsi dal bambino immaginario che ha nella testa e chi invece le vive come dolore inutile (e secondo me la prospettiva cambia dal primo figlio al secondo, e chissà com'è con i successivi). C'è chi si strugge con film drammaticissimi e chi invece, come me, ha deciso di farla finita col fascino perverso delle lacrime al cinema. Esistono dolori "buoni", come i morsi dell'utero dopo il parto, che ti fanno male ma ti rendono anche contenta perché sono un buon segno per l'andamento del post partum. Ci sono i dolori di crescita acuti e insensati di cui parla Lemoni e quei doloretti di crescita lievi che mi rendevano contenta (inutilmente, a dire il vero) quando ero bambina, perché speravo di crescere.
Ogni esperienza di dolore può essere formativa, per ciascuna di noi e a seconda di come la prendiamo. E non si tratta di un pensiero veterocristiano, credo. Si tratta di quello per cui la nostra specie brilla: l'adattabilità.

2 commenti:

  1. grazie per avermi segnalato la discussione. ho letto tutti i commenti e ancora una volta mi sembra la prova di come vengano fuori delle discussioni ricche e assolutamente non banali.
    mi ha colpito per tante cose, ma anche perché in effetti non ci ho mai pensato al dolore in questi termini.
    vado a riflettere, a dopo

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  2. Avevo scritto lungo commento... sparito. In questi giorni mi succede anche su altri blog!
    Comunque sì, il dolore può anche essere formativo, e non è un pensiero veterocristiano.
    Dipende proprio secondo me da come usiamo quel dolore. (ovvio che poi si cerca di evitarlo, ma quando accade...)

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