martedì 9 marzo 2010

L'arte della fuga

Era gennaio del 2008. Avevo appena smesso di lavorare in vista del parto. Ero pesante, indolenzita in tutte le giunture, raffreddata, stanca e triste. Perdipiù c'era un tempo orrendo, avevo paura del parto, della reazione di Amelia al fratellino e dell'allattamento. Avevo appena litigato con Luca che era tornato per pranzo, per una sciocchezza e per sfogare la mia frustrazione.
Mi sono messa a letto, perché non avevo la forza di fare altro (e probabilmente era questo a rendermi tanto triste e insofferente). E ho cominciato a sognare ad occhi aperti, progettando la fuga. Del tipo: mi preparo la valigia, mi metto da parte tutti i soldi che riesco su un conto online, aspetto che il bambino nasca e poi via, veloce come il vento. Da sola, ovviamente.
Ho deciso che la meta doveva essere una città grande e caotica, facile da raggiungere con una cifra non esorbitante. Ho scartato Istanbul per via della lingua e del fatto che sarei stata una donna sola, ma l'ho lasciata lì come opzione successiva. Ho deciso per Londra: una lingua che conosco e tante opportunità di lavoro, anche lavoretti tipo Mac per cominciare e mantenersi. Mi sono detta che Londra sarebbe stata l'ideale per fiutare l'aria e capire in che direzione andare, e che poi da lì avrei deciso come muovermi. Ho fatto mentalmente i conti, ho pensato a che cosa mi sarebbe stato utile e che cosa avrei potuto lasciare. Ho pensato a come coprire la fuga per evitare che mi bloccassero all'aeroporto e/o che identificassero la mia destinazione: sarei andata in treno.
Ho pensato anche alla scusa per sparire: avrei affidato i bambini a mia madre o a Luca dicendo di dover fare una serie di commissioni assolutamente plausibili (ginecologa per i punti, INPDAP per le pratiche della maternità), che avrebbe ritardato il momento in cui avrebbero capito che stavo tardando un po' troppo. Ho anche pensato a una lettera, da spedire da un posto vicino (tipo la buca delle lettere del mio paese), in cui avrei spiegato che non mi era successo niente di brutto e che non avevo intenzioni autodistruttive, solo pensavo che io sarei stata meglio senza di loro e loro senza di me. Ho pianto pensando a come sarebbe stata la mia vita senza Luca né Amelia, mi sono un po' autocommiserata e mi sono addormentata.
Il giorno dopo, ero riposata e di tutt'altro umore. Non felice, per carità (felice lo sono stata dal momento in cui Ettore è nato), ma normale.
Ovviamente, tutti i miei propositi di fuga mi sono sembrati assurdi e puerili.
Ecco però perché capisco come si sente un bambino che dice "Domani mi metto la giacca e vado via". Non nego che queste parole mi feriranno, se mai i miei figli le diranno. Ma capisco che anche solo immaginare di avere una via di fuga sia consolante e liberatorio.

5 commenti:

  1. Già...almeno la fantasia è nostra, e nessuno ce la può togliere...è importante anche poter tranquillizzarsi a pensare anche i pensieri più brutti..basta solo non attuarli :-)

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  2. Sai che a me sta capitando in questi giorni? Lo pianifico in macchina nei miei km in autostrada e cerco di mettere tutti al loro posto e io me ne vado lontana. Mollo il lavoro, lo stress e scappo via perché senza di me starebbero molto meglio. Poi piango e anche molto, arrivo, scendo dalla macchina e la vita continua. Mah!

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  3. Io ricordo di essere brevemente scappata di casa a cinque o sei anni... Ma poi non credo di aver mai progettato la fuga davvero. Ciò non toglie che le mie fughe non me le sono mai negate e credo di aver anche fatto bene!

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  4. Cara Chiara,

    secondo me la cosa più bella è che sei ancora in grado di comprendere i bisogni di evasione dei bambini. Pochi adulti si concedono questo lusso.

    un bacione

    Elena di scuola&scuola

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  5. Io a scappare ci penso tipo mille volte al giorno, sogno destinazioni lontane e nuove vite.
    E ho sempre pensato che prima o poi lo farò davvero (mi piglio anche lei, il cane e i gatti però... sarà una fuga organizzata)

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