venerdì 29 maggio 2009

Come se tirassi bastonate

La giornata di ieri, oltre ad avermi consacrata di diritto nell'Olimpo delle madri snaturate, ha fatto un gran bel regalo alla mia autostima.
Premessa: per il famoso seminario di sceneggiatura, abbiamo scritto un racconto di 3500 battute, a partire da una fotografia assegnata dall'insegnante.
Io avevo una foto che assolutamente non mi evocava niente: l'immagine di una coppia anziana, brutta ed estremamente sovrappeso, con l'aria più felice e affettuosa del mondo. In più, ho dovuto rubare il tempo per scrivere in pausa pranzo e tra una pratica e l'altra. Avevo tutti i diritti di essere arrabbiata con quei due vecchiacci ipocriti, che non mi suggerivano nessuna storia, e quindi ho scritto una storia apposta per punirli: li ho fatti litigare in modo violento alla terza o quarta riga. Ho dato ai miei personaggi la mia rabbia, e ho battuto ogni lettera come se tirassi una bastonata.
Risultato? Ieri mi è arrivato un giudizio eccellente: sui dialoghi, sulla sintesi, sulla capacità evocativa. Puro culo, lo so, ma fatemi gongolare 24 ore: tanto oggi presenterò un esercizio di sceneggiatura e non so se il giudizio sarà tanto positivo.

Ma la cosa mi è servita anche per riflettere sul mio stile. E sull'evoluzione che ha subito nel tempo.
Se non ricordo male, fino all'adolescenza ricordo di aver avuto uno stile piuttosto convenzionale. Asciutto più che ornato, ma niente di così ben meditato. Soprattutto, mi ricordo una sensazione di quando scrivevo qualcosa di lungo: che mi venisse bene (stilisticamente parlando) l'inizio, ma che poi in qualche maniera non riuscissi a mantenere lo standard stilistico con la stessa naturalezza. La mia sensazione era di partire bene ma poi scivolare nella banalità.
Se non ricordo male, la prima volta che sono riuscita a mantenere uno stile non banale per tutto un racconto è stato in occasione di quel ciclo di vampiri che scrissi tra il 1996 e il 2000.
Volevo dare ai miei personaggi una voce "cattiva", aspra, che esprimesse il divertimento della caccia pur mantenendo un barlume di umanità. E mi venne fuori questo stile secco, per la prima volta ben curato, fatto apposta per raccontare dolore e cattiveria.
Nei racconti successivi, ho lavorato per migliorarlo. Del resto, anche nel ciclo dell'immortale e nel racconto dell'inquisitore Olevano (so che a questo punto penserete che sia un imitatore di Eymerich, mentre invece è proprio tutta un'altra cosa, in un'altra epoca e con altre finalità) c'era una bella dose di cattiveria, non parliamo poi del ciclo degli Incompleti in cui non c'è un minimo di spiraglio per la speranza.
Come potrete immaginare, tutte queste produzioni si riferiscono al periodo in cui ero single e l'amore mi pareva una chimera, scomoda come tutte le chimere.
Scrivere in questo modo mi piaceva come a un gatto deve piacere cacciare e uccidere la sua preda: mi divertivo, mi sfogavo, mi sentivo potente e pericolosa.
Dopo aver conosciuto Luca, ho scritto ancora due racconti. Qualcuno di voi ha letto Viola, e potrebbe rintracciare lo stile di cui sto parlando nei dialoghi. Che sono la cosa che mi viene meglio, da sempre.

Scrivere questo raccontino, per quanto lo spunto non mi piacesse, è stato piacevole. Persino rilassante, nonostante la fretta. Sicuramente terapeutico.
E, pur essendo una cosa piccolissima e insignificante, mi ha confermato che, senza scrittura, la mia vita non è completa.

1 commento:

  1. E meno male che la foto non ti evocava niente...
    Che soddisfazione!

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